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Da Libro bianco.

Ma il suo pensiero produce libertà

La Repubblica, 24 ottobre 1987


Pier Aldo Rovatti


OGGI stiamo cominciando a valorizzare tutti gli efetti di libertà che ci possono derivare dal pensiero di Martin Heidegger. Un pensiero al tempo stesso compatto e frammentario, unitario (il tema costante è il senso dell'«essere») e insieme frastagliato, anche contraddittorio, certo incompiuto, volutamente non chiuso. Qualche studioso ha parlato anche di un Heidegger anarchico. Ma Heidegger era un tipico «professore tedesco», e proprio per questo la sua identità ci risulta composita, sottoposta a tensioni e forse anche a una battaglia contro se stessa. Se leggiamo le pagine famose e famigerate dell'Autoaffermazione dell'Università tedesca, siamo colpiti dall'illusione o sarebbe meglio dire dalla «sindrome» del grande professore tedesco. Con questa prolusione (è il discorso inaugurale del suo breve rettorato a Friburgo, nel fatidico 1933) Heidegger sii illudeva di poter cavalcare la nuova situazione politica creatasi in Germania innestando una riforma degli studi e del sapere. Presumeva che le sue idee filosofiche potessero avere più potenza e più «verità» della realtà effettuale, ovvero dei fatti storici. Dal 1936 al 1940 Heidegger tenne poi una serie di corsi su Nietzsche: in queste lezioni - come ha opportunamente osservato Hanna Arendt - avviene un importante svolta. Saranno proprio le idee di «volontà» e di «potenza» ad essere prese di mira e messe radicalmente nel sacco. Se leggiamo la Lettera sull’umanesimo scritta nel 1946 a Jean Beaufret, con grande seguito di reazioni e di polemiche in Francia e poi un po' dovunque (questo testo è ora finalmente di nuovo disponibile in italiano, insieme ad altri scritti decisivi della seconda fase: cfr. Segnavia, a cura di Franco Volpi, Adelphi, pagg. 526, lire 60.000), e se riconsideriamo con una prospettiva critica d'insieme il capolavoro di Heidegger, Essere e tempo, ci accorgiamo che Heidegger è proprio il filosofo che nega la «potenza», che affossa quell'uomo della modernità e della tecnica che pretende di essere padrone di sé e dei propri oggetti; ma anche che ci suggerisce un'etica del pudore, che colpisce mortalmente l'idea illusoria che vi sia una «verità» come rappresentazione compiuta, solida, delle cose, e che infine sospetta continuamente della filosofia stessa, cui vorrebbe contrapporre (fin dal 1939 un «altro pensiero».

UN pensiero che fatica a trovare (e forse non può trovare) una «definizione», ma che certamente è molto vicino alla poesia. E non è inutile ricordare qui che se Heidegger ha pensato a una qualche «superiorità» filosofica del popolo tedesco, aveva in mente soprattutto Hölderlin e l'indicazione verso un pensiero –poesia, non privo di tragicità, che rintracciava nei suoi versi. «Un grande pensiero e una piccola biografia», scrive Alfredo Marini (nella lunga introduzione all'edizione italiana dell'intervista di Heidegger a Der Spiegel, di prossima pubblicazione presso Guanda), «che potremmo simboleggiare con l'accostamento tra il “senso dell'essere” e la baita di Todnauberg». Già: il «professore tedesco», che tutti ormai consideriamo uno dei più grandi filosofi e non solo del Novecento, amava vivere in una baita di montagna: non amava e non era fatto per la Ragione di più per scindere l'episodio, su cui si torna a discutere, la sua «adesione» al nazismo, o addirittura la sua intera biografia, dal suo pensiero e dagli effetti che esso può ancora ampiamente produrre (e sta producendo) sulla nostra scena culturale. EPPURE anche da qui ci può venire un'indicazione. Se proprio Heidegger ha avvertito. nel corso della sua meditazione, i rischi della filosofia, la sua pretesa di dire la verità, la sua illusorietà e inconsistenza, dobbiamo sapere che questi rischi non possono essere eliminati urta volta per tutte e che il pensiero é ricacciato continuamente verso questa soglia. Le «contraddizioni» di Heidegger ci fanno vedere quanto pericolosa e mistificante possa essere una prossimità troppo stretta tra filosofia e realtà storica. Ma soprattutto ci indicano che non esiste una «cautela» rassicurante, un antidoto filosofico già pronto per questo. La filosofia non potrà mai rinunciare a una qualche prossimità con il reale; e nell'idea stessa di filosofia si annida una sindrome di «verità» che possiamo cercare soltanto di circoscrivere.



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