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Da Libro bianco.

Si pose al servizio del regime come zelante militante, non come filosofo

Il Giorno, 5 novembre 1987


Mario Niccolao


Si ha però la sensazione che il passato politico di Heidegger possa venir giocato ancora per confutare in modo irrevocabile una posizione filosofica, con armi improprie.

Vediamo la storia. Nel maggio del 1933 – Hitler era stato da poco eletto cancelliere del Reich – il professor Martin Heidegger, forse il massimo filosofo di questo secolo, veniva nominato rettore dell’università di Friburgo. Aveva 43 anni. Come condizione per accettare l’incarico che gli veniva offerto, Heidegger chiese di essere votato all’unanimità dal corpo insegnante, e così avvenne. Votarono per lui docenti delle più diverse fedi politiche, e questa unanimità indica almeno due cose: che essi lo ritenevano in grado di tenere i rapporti con il nuovo potere e, insieme, che consideravano Heidegger come un sicuro garante dell’autonomia dell’antica università.

Heidegger non si era mai pronunciato pubblicamente sulla politica. Era un uomo chiuso e fortemente motivato, come si dice oggi, un uomo che parlava di rado. La sua fama era già grande, legata a un’opera che non ha ancora smesso di esercitare la propria influenza su tutte le branche del sapere, «Essere e tempo», pubblicata nel 1927. Nel 1929 aveva assunto la cattedra di Husserl di cui era stato assistente e aveva pubblicato «Che cos’è la metafisica». Negli Anni Venti studiava Lutero e si definiva «teologo cristiano» (è un ricordo di Karl Löwith, che fu suo allievo), lavorava con Bultmann, ma già si stava avvicinando a Nietzsche e agli albori del pensiero greco.

Era un uomo dalle grandi passioni assolute, legato alle sue radici contadine. I suoi occhi scuri e ardenti lasciavano spesso trapelare un certo disprezzo per gli usi e i costumi mondani degli ambienti accademici. Di questo ha testimoniato Karl Jaspers che lo frequentava e che lo ricordava imbronciato nell’entourage di Husserl. Quando poteva, Heidegger si ritirava in una baita nella Foresta Nera e per l’appunto quando ricevette la nomina era appena tornato da un lungo periodo di ferie trascorso a meditare i filosofi presocratici nella più totale solitudine.

Come contrappunto a questa solitudine (che riguarda il semestre invernale ’32-33), devo ricordare che il 27 febbraio del 1933 era stato incendiato il Reichstag e che si era scatenata la caccia ai comunisti (etichetta in cui rientravano tutti gli oppositori). In quei mesi le S.A. di Rohm bruciavano e uccidevano in tutte le città tedesche. Sotto la pressione degli studenti le università erano diventate ingovernabili e il nazismo vi stava ormai concludendo la sua opera di persuasione e intimidazione. Devo anche ricordare che Heidegger succedeva a von Möllendorf, socialdemocratico, deposto dal ministro della Cultura del Baden alla fine di aprile, neppure due settimane dopo che era stato eletto rettore perché si era opposto all’affissione nell’università di un manifesto contro gli ebrei. Giusto in aprile erano state votate le leggi antisemite. Secondo Heidegger (intervista a «Der Spiegel»), fu lo stesso von Möllendorf a insistere perché lui prendesse il suo posto. Ma, secondo Jaspers, Heidegger aveva già deciso all’avvento del nazismo che «bisognava inserirsi».

Così, nel maggio 1933, Heidegger pronunciò la prolusione rettorale intitolata «Autoaffermazione dell’università tedesca» e fu «salutato come “camerata Heidegger” dal presidente del corpo tedesco di Heidelberg, Scheel» (Jaspers). Nel frattempo, su sollecitazione del ministro dell’Educazione, aveva preso la tessere del partito.

Il I° novembre 1933 applaude la decisione di Hitler di abbandonare la Società delle Nazioni. Poi, per circa un anno, è tutto un seguito di professioni di fede nel Führer. Però, nel 1935, Heidegger dà le dimissioni dal rettorato, e questo è un fatto. Motivo: gli avrebbero chiesto di licenziare il suo predecessore von Möllendorf e un altro professore Erich Wolf.

Alastair Hamilton («The appeal fo Fascism») ha scritto che per questo «venne pubblicamente attaccato dai due primi filosofi del regime, Alfred Bäumier, rettore dell’università di Berlino, ed Ernst Krieck, rettore all’università di Heidelberg». E pare certo che fosse sorvegliato dalla polizia segreta, ma d’altronde chi non lo era in quegli anni?

Il processo a Heidegger è cominciato nel dopoguerra e appare eterno. Dapprima si è detto che avrebbe escluso il vecchio amico e maestro Husserl dall’università, poi la moglie di Ernst Cassirer lo ha accusato di antisemitismo.

Heidegger non è stato mai amato molto dai colleghi. Benedetto Croce, nel carteggio con Karl Dossier, uno dei pochi insegnanti tedeschi che si rifiutò di giurare fedeltà a Hitler, disse che, dopo aver letto i suoi libri, aveva previsto che avrebbe fatto quella fine e lo paragonò a Giovanni Gentile. Ora Victor Farias afferma che dal 1933 al 1945 Heidegger è stato «un militante del partito nazista», zelante per di più. Sarà vero, ma non un filosofo al servizio del regime. Dove sono gli scritti che lo testimoniano? Quelli politici sono disponibili già dal 1968 in un’edizione francese a cura di Jean-Michel Palmier e più che nazisti sembrano ambigui. Per il resto le sue opere sono ben note.

Certo, fanno impressione alcune foto in cui Heidegger figura insieme con altri camerati su uno sfondo di bandiere con la svastica e corone di quercia: per esempio quella scattata l’11 novembre del 1933 all’Albert Hall di Lipsia.

Ma non dice niente il fatto che Heidegger non abbia scritto nulla o quasi dal 1935 al 1942 a parte due saggi su Hölderlin, mentre teneva regolarmente i suoi corsi? Heidegger è stato sicuramente nazista e lo ha sempre ammesso. Credo che lo fosse al modo di Ernst Jünger e di Gottfried Benn, due artisti che non prendevano le proprie idee dal nazismo, ma che pensavano di potersene servire per le proprie idee.

Heidegger era vicino a Jünger soprattutto per la questione della Tecnica e nel 1939 aveva organizzato un seminario per discutere il suo «Der Arbeiter» (Il lavoratore), proprio quando Jünger era in disgrazia con il Führer per un altro libro.

Tutti, Benn, Jünger e Heidegger commisero un peccato faustiano e credettero di aver trovato in Hitler il loro Mefistofele. Fu uno sbaglio imperdonabile perché, come ha scritto Löwith, «mai l’azione politica può coincidere col pensiero filosofico». Però riportare oggi il nazismo dentro gli scritti di Heidegger sarebbe ripercorrere all’inverso lo stesso errore che fece nel ’33 il maestro di Messkirch.



Voci utilizzate nell'articolo

Dimissioni dal rettorato


Metodi applicati

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