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Da Libro bianco.

Forte maestro debole nazista

Il caso Heidegger. Escono in libreria una lunga intervista e una raccolta di saggi decisivi di uno dei padri dell’esistenzialismo

Le recenti polemiche sulle scelte politiche del filosofo tedesco sono inutili perché non si devono cercare in una biografia i fondamenti di un pensiero


Il Sole 24, Ore 8 novembre 1987


Umberto Galimberti


Che cosa vuol sapere Rosellina Balbi col suoi articolo nella pagina di Repubblica del 24 ottobre dedicata ad Heidegger e il nazismo? Che cosa significa chiedersi senza neanche un punto di domanda: «Se questo era un maestro?» Certo che Heidegger fu un maestro, il più grande maestro del Novecento, Così come fu un discreto nazista, perché al nazismo non negò solidarietà e consenso. Entriamo in questo intreccio, ma, per favore, non affidandoci alle ricerche d’archivio del filosofo cileno Victor Farias che ha speso tutta la sua vita a fare, negli archivi, l’investigatore privato della fede politica di Heidegger. Concedo a questo oscuro filosofo cileno tutte le cose che scrive nel suo libro edito in Francia da Verdier, un editore che non si è mai occupato di filosofia, ma solo per ricordargli, a commento di tutte le sue documentate accuse contro Heidegger, la conclusione della relazione consegnata da Karl Jaspers alle forze americane di occupazione che nel 1945 volevano sapere qualcosa di più circa la partecipazione di Heidegger al nazismo. La commissione di indagine era composta da Nicolaj Hartmann, da Romano Guardini e da Karl Jaspers che aveva pagato la sua opposizione al regime con l'esilio e la rottura della sua amicizia con Heidegger. Ebbene Jaspers, proprio quello Jaspers che nell'autunno del '45, parlando all'Università di Heidelberg, della colpa della Germania, era uscito con quella espressione: «La colpa di noi tedeschi è di essere ancora vivi», aveva avvertito le forze di occupazione alleate che «chi avesse fatto tacere una voce come quella di Heidegger si sarebe reso responsabile di fronte alla storia universale». Solidarietà tra colleghi? No, perché Jaspers e Heidegger, a partire dal 1933 fino o alla loro morte, avvenuta per Jaspers nel 1969 per Heidegger nel 1976, noi si parlarono più e si guardarono bene dal fare reciproco riferimento ai rispettivi pensieri nonostante la cultura europea li avesse di tempo accomunati quali massimi esponenti di quella corrente che oggi conosciamo come Esistenzialismo. A differenza di Jaspers Heidegger non aveva mai avuto una sensibilità politica; la sua adesione al nazionalsocialismo è provata, ma il senso di questa adesione è enormemente al di là del fatto, come la Repubblica di Platone è abissalmente al di là dello Stato che il filosofo ateniese pensava fosse possibile realizzare a Siracusa col tiranno Dionigi. Il pensiero filosofico è sempre al di là dei fatti, e l'attualità storica non é mai criterio di giudizio. Quello che Heidegger vide nel Nazionalsocialismo era il primo sorgere di quella dimensione, che poi diverrà mondiale, costituita dal dispiegarsi totale della tecnica, generatrice di un mondo così nuovo da non poter essere interpretato con le categorie con cui l'uomo occidentale aveva fino ad allora compreso se stesso, perché fino ad allora la tecnica era stata solo uno strumento nelle mani dell'uomo, mentre, da allora in avanti, sarebbe stato l'uomo a essere guidato dalla tecnica, fino agli eventi più insignificanti della sua condotta. Rispetto a questa assoluta novità che mai l'uomo aveva sperimentato, le categorie greche,quelle cristiane e le forme politiche (anche lo Stato di diritto e la democrazia) non si rivelano all'altezza del dominio tecnico che va via via assumendo l'aspetto di forma della Terra.

In questo senso Heidegger parla di «rottura» e di «sradicamento» e dà via a quel nuovo modo di «pensare» che è un «passare» dalle categorie pretecno-logiche, con cui l'uomo ha finora interpretato se stesso, a forme di pensiero tutte da inventare per un'epoca in cui l'incidenza della soggetevità dell'individuo nella storia diventa sempre più insignificante se confrontata con quella nuova soggettività anonima e totale, non più individuale ma funzionale, che é la tecnica. Questo discorso che ho abbondantemente documentato in un articolo su Panorama — «Professore dica '33», del 20 settembre 1987 — oltre a non essere un discorso da «interprete sofisticato» come scrive Claudio Magris sul Corriere dello Sera del 1° novembre 1987 è un discorso su cui dovrebbe meditare anche Jünger Habermas di cui la pagina di Repubblica diretta da Rosellina Balbi riporta un'intervista polemica. Il caro Habermas difficilmente avrebbe potuto scrivere Teoria e prassi nella società tecnologica se non fosse stato a scuola da Heidegger e da Heidegger non avesse imparato che cos'è Techne. Si possono sempre nascondere i propri debiti, ma non quando sono così immensi e quando si passa la vita a scrivere diecimila pagine a commento di quell'intuizione che Heidegger ebbe proprio a partire dal 1933 quando il Nazismo diede la prima dimostrazione dell'incidenza storica dell'individuo, se davvero si fosse compiutamente dispiegata l'età della tecnica. A questo proposito si legga l'intervista rilasciata da Heidegger al direttore di Der Spiegel ora edito in Italia a cura di Alfredo Marini per l'editore Guanda (tra qualche giorno in libreria), dove Heidegger dichiara che l'avvento della tecnica condizionerà sia l'americanismo sia il comunismo appiattendone le differenze, Habermas nei suoi libri dirà le stesse cose, ma allora perché non riconoscerne il debito?. Questo debito non lo nascose Jean Paul Sartre quando nel 1933, di ritorno dall'Istituto francese di Berlino, nel porre mano alla sua opera maggiore, L'essere e il nulla, dichiarerà di essere stato sollecitato a scriverla dal «desiderio di elaborare i fondamenti dell'ontologia heideggeriana». Non lo nascose Jean Beauffret, eminente figura della resistenza francese e destinatario della Lettera sull'Umanesimo di Heidegger, quando, nonostante l'abissale distanza politica e ideologica, disse: «Heidegger insegnava ai francesi a pensare». E poi Hans Georg Godamer, il fondatore dell'Ermeneutica, che, dopo aver sensibilizzato pensatori e poeti su che cos'è «interpretazione», «lettura» e «veritas», scrive: «A partire dal momento in cui, con Essere e tempo (1927), Heidegger riconobbe all'ermeneutica dell'esserci un ruolo basilare nella costruzione della filosofia, la teoria dell'interpretazione ha progressivamente perduto la fisionomia di disciplina "tecnica" per acquistare il rilievo di disciplina "filosofica"».

Ma qui le testimonianze nell'ambito delle varie discipline potrebbero moltiplicarsi senza difficoltà. Si pensi alla psichiatria costretta a rivedere il suo metodo di indagine e l'intero suo impianto categoriale dal giorno che Ludwig Bineschwanger incominciò a interpretare le forme della malattia mentale usando le categorie heideggeriane della temporalità per leggere «malinconia», «mania» e «schizofrenia». Da Binswanger Maurice Merleau-Ponty, Michel Foucault, Roland Laing, David Cooper, e tutta quella psichiatria sociale che ha incominciato a leggere la sofferenza psichica non solo come una vicenda che si svolge nel mondo chiuso dell individuo (Dasein) ma come qualcosa che inerisce alla convivenza (Mit-dasein degli individui al loro radicale esser - gettati - nel mondo per un pro-getto che la follia fa naufragare. Resta ancora da citare la teologia e il suo radicale rinnovamento linguistico e quindi ermeneutico ed esegetico che Bultmann e Barth riconoscono essere stato possibile grazie «al nuovo modo di pensare inaugurato da Heidegger», alle sue metafore che dischiudono uno spazio simbolico dove gli enigmi della fede possono trovare una loro apertura di senso. Tutto questo Heidegger. Quell'Heidegger discretamente nazista che non impedì a Pietro Chiodi, morto per i postumi mai risolti della sua prigionia in Germania, di tradurre per la Utet Essere e tempo. Ma qui potremmo citare anche Emanuele Severino e Gianni Vattimi, (e dico i maggiori filosofi oggi in Italia) che, per quanto divaricanti siano i loro itinerari, riconoscono in Heidegger un loro comune maestro da oltrepassare per Severino (vedi Corriere della Sera del I/11/'87), da continuare a frequentare per Vattimo (vedi La Stampa del 24/10/'87) per abitare la radicalità del pensare attraverso quelle parole che non cessano di essere miniere. Se questo era un maestro? Se alla filosofia oltre alla rigorosità del pensiero dovessimo chiedere anche la testimonianza della vita dell'uomo, dovremmo chiudere la storia della filosofia con Socrate e domandare ad Aristotele perché, dopo la morte di Alessandro Magno, fuggì da Atene con la scusa che già la città si era macchiata di un delitto contro la filosofia, dovremmo chiedere a Cartesio cosa faceva con quella bambola idraulica a cui i marinai della nave che lo portava in Inghilterra imputarono il naufragio scampato, dovremmo chiedere a Schopenhauer che connessione c'era tra le case di tolleranza che frequentava e le sue lezioni sulla necessità della castità per sconfiggere la volontà irrazionale. E via narrando.

Ma alla filosofia spetta il compito della testimonianza esistenziale? E, in difetto di questa, dobbiamo misconoscerne intuizioni e pensieri? Heidegger è stato nazista, ma non è vero che «I filosofi hanno accolto l'annuncio con sorpresa», come recita La Stampa del 22 ottobre, per la semplice ragione che lo sapevano già, ma, da filosofi, non avevano mai pensato che i fondamenti di un pensiero si dovessero cercare nella biografia. Si legga dunque con tutta tranquillità Heidegger partendo magari dall'ultima opera pubblicata in Italia da Adelphi e che ha per titolo Segnavia. Li sono raccolti, a cura di Franco Volpi, i saggi decisivi che hanno «segnato la via» dell'itinerario di Heidegger. Ne ho fatto io stesso la traduzione, anche se il curatore e l'editore, presi com'erano dal rendere «alla lettera» le parole di Heidegger, hanno «dimenticato» di scrivere che la traduzione era mia.

Martin Heidegger, «Segnavia», Adelphi Milano 1987, pagg. 522, L. 60.000; «Ormai solo un Dio ci può salvare», a cura di Alfredo Marini, Ugo Guanda Editore, Parma 1987, pagg. 146, L.18.000.



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