1871201IAB

Da Libro bianco.

Il filosofo e la sua ombra

Alfabeta 1 dicembre 1987


Alessandro Dal Lago, Umberto Galimberti, Alfredo Marini, Pier Aldo Rovatti


La recente pubblicazione di una ricerca sulle responsabilità politiche di Heidegger durante il nazismo (Vietor Farias, Heidegger et le nazisme, Verdier, Paris, 1987) ha suscitato soprattutto in Francia e in Italia, vivaci dibattiti non solo sulla legittimità dell'opera del grande filosofo. ma anche sull'opportunità di richiamarsi al suo insegnamento. Al di là delle polemiche, non sempre documentate e pertinenti, sul caso specifico, è chiaro che queste discussioni investono un problema capitale della nostra cultura, il difficile nesso filosofia-politica. Per contribuire a una riflessione più articolata sull'intera questione, «Alfabeta» ha ritenuto opportuno pubblicare un ampio stralcio del documento che costituisce l'autentica pietra dello scandalo, e cioè il famoso discorso con cui Heidegger a assunse il rettorato dell' Università di Friburgo, il 27 maggio 1933 (Die Selbstbehauptung der deutschen Universität), e alcuni passi del Poscritto del 1945 in cui Heidegger interpreta il suo passato politico. Entrambi i documenti sono ora in corso di stampa, a cura di C. Angelino, presso «il melangolo» di Genova, a cui vanno i nostri ringraziamenti per aver acconsentito all'anticipazione. Abbiamo inoltre riportato un brano significativo del libro di Victor Farias, che contiene le sue tesi più importanti. Infine, abbiamo invitato a discutere il caso Heidegger e le sue implicazioni filosofiche Alessandri Dal Lago, Umberto Galimberti, Pier Aldo Rovatti e Alfredo Marini, il quale ha curato l'edizione italiana dell'intenrvista di Martin Heidegger a «Der Spiegel» del 23 settembre 1976 (Ormai solo un Dio ci può salvare, Parma, Guanda, 1987).

Dal Lago. Dai dibattiti e dagli interventi recenti sul «caso Heiddegger» (il libro di Victor Farias su Heidegger e il nazismo, il saggio su Heidegger nella raccolta di Habermas, Il discorso filosofico della modernità, il saggio di Derridda, De l'esprit) e anche dai numerosi interventi su quotidiani e periodici emergono, a mio avviso, due interrogativi di fondo: uno legato specificamente alla questione della «colpa» di Heidegger, e l'altro a un certo stile della storiografia filosofica, che sembra ormai obsoleto. Il primo quesito è: la filosofia di Heidegger prima della cosiddetta Kehre, e cioè quella che ha il suo culmine in Essere e tempo e la sua più interessante espressione «politica» nel Discorso di rettorato, ha avuto qualche effetto sulla cultura di destra in generale e sul nazionalsocialismo in particolare? Evidentemente, questa domanda riguarda una serie di autori, non solo filosofi, che negli anni venti e trenta hanno dimostrato simpatia per il nazismo o vi hanno aderito esplicitamente. Penso, ad esempio, a Gottfried Benn, Carl Schmitt, Ernest Jünger, e anche a Jung. In breve, dobbiamo ritenere le opere di questi autori, e in particolare di Heidegger, capaci di influire direttamente sulla loro epoca? Il secondo quesito è: con che tipo di sguardo storico-filosofico ci accostiamo a queste compromissioni di grandi pensatori o scrittori con il nazismo? Crediamo ancora che esista un rapporto di implicazione diretta tra la loro opera e il nazismo, come pensava Lukács negli anni cinquanta? Possiamo ancora applicare a questi autori l'etichetta di «irrazionalismo politico» - ciò che implica un giudizio preciso sulla loro responsabilità pubblica? Anche se può sembrare un po' azzardato, io risponderei negativamente ad entrambe le domande. Non credo che la filosofia di Heidegger, in quanto tale, abbia avuto qualche influenza sul nazismo, e non credo che si possa utilizzare più lo stile storiografico accusatorio che mette in diretta relazione un tipo di pensiero e un certo sviluppo politico. Per quanto riguarda il primo punto, mi sembra che lo stesso Farias sottolinei la sostanziale emarginazione di Heidegger a partire dal 1934 (indipendentemente dal fatto, inconfutabile, che egli mantenesse legami ufficiali con il partito e che si «sentisse» nazista fino alla fine della guerra, e oltre - come sostiene Farias). Francamente. la seconda qustione mi sembra ben piu importante, da un punto di vista filosofico o di storia della cultura. Ora, è abbastanza evidente che alcuni concetti che oggi vengono imputati a Heidegger come sintomi di cripto-nazismo (prima del 1933) o di nazismo dispiegato (dopo il 1933), e cioè il «radicamento», la «patria», il Geist, la «comunità», il «destino» e così via, sono tipici della cultura tedesca, o di un suo settore rilevante, tra Otto e Novecento. Penso non soltanto a Spengler, a Tönnies, allo stesso Mann delle Considerazioni di un impolitico, ma anche' all'insospettabile Maw Weber, di cui nessuno ha mai contestato lo spirito anti-totalitario. Pertanto, non credo che abbia senso imputare a Heidegger una terminologia e una problematica che fanno parte integrante della cultura tedesca almeno a partire dal Romanticismo. Allo stesso modo, non avrebbe senso sostenere che terminologia e problematica sono responsabili dell'avvento del nazismo. Sarebbe una hen strana storiografia. E vorrei aggiungere che c'è un altro motivo per cui mi sembra sostanzialmente futile riproporre la responsabilità del filosofo Heidegger, pur riconoscendo i suoi errori e, diciamolo pure, la sua miopia o meschinità politica. Hannah Arendt, allieva di Heidegger, ebrea e autrice di importanti riflessioni sul politico, ha sottolineato che il luogo del pensiero è altrove rispetto agli affari del mondo. Il pensiero è comunque separato dall'agire, nel bene e nel male. È giusto perciò che un filosofo sia chiamato a rispondere per ciò che pensa, non per ciò che fa nell'ambito del suo essere nel mondo.

Galimberti. Non credo a un'influenza diretta di Heidegger sul nazismo; in primo luogo, perché Heidegger era ininfluente quando Hitler è andato al potere - era ininfluente perché non conosceva nessuno in politica. Lo conoscevano all'interno dell'università solo pochi. A sua volta il nazismo non può aver influito su Heidegger perché Heidegger, secondo me, non aveva una sensibilità politica, delle antenne politiche. E allora rispondere a questa domanda vuol dire spostare il livello del discorso e rinunciare alla relazione diretta di tipo causale, e pensare se non esistono dei climi, delle cose che si respirano, che accomunano il filosofo e il movimento politico. Io chiamo simbolica questa ricerca - e quando dico simbolo intendo una sorta di arretramento rispetto ai modelli concettuali; potremmo per esempio parlare di antecedenti simbolici dei modelli concettuali greci, tedeschi, e così via. I concetti nascono da climi simbolici, e allora qui mi viene da pensare ad un'ipotesi: che sarebbe bello ricercare nel nazismo o nella dimensione politica che ci è nota un clima inconscio collettivo, e supporre di rintracciare la presenza di una dimensione esoterica: è tipico dell'esoterico ritenersi in possesso di una verità assoluta, è esoterico fare da guida agli altri perché gli altri non sono guidati dalla verità. La filosofia ha sempre avuto delle porentele con l'esoterismo, a partire da Platone, e allora qui si potrehbe trovare una sorta di parentela: sia Heidegger sia il nazismo si possono pensare all'interno di una simbologia esoterica. Quando il nazismo sorge, di Heidegger è noto Essere e tempo. Se lo leggiomo al di fuori della filosofia, al di fuori degli sviluppi che ha avuto, al di fuori delle svolte rispetto a cui si è proceduto, si può pensare ad un autore che sta scrivendo da un luogo che non è un luogo mediamente condiviso: la categoria di autentico e inautentico divide praticamente gli uomini in coloro che sono massificati, coloro che non sanno quello che fanno, che non sanno quello che dicono, che si muovono nell'uso delle cose, e coloro invece che sanno. Coloro che sanno sono gli autentici, sono coloro che sono fuori dalla massa, sono coloro che sono fuori dal Sinn personale, e Heidegger parla di questo luogo, come colui che sa, colui che oltrepassa il livello medio della discorsività, colui che sta al di fuori da dove mediamente gli uomini si conducono. Allora, penso che solo a questo livello si possa parlare di influenza, di parentela tra Heidegger e il nazismo, nel senso che entrambi partecipano a un clima simbolico di questo tipo.

Rovatti. Qual è il quadro dei fatti nuovi davanti al quale ci troviamo? Il libro di Victor Farias ci mostra, costruendo una complessiva biografia intellettuale ad hoc, che il rapporto tra Heidegger e il nazismo non è stato un flirt passeggero, e lo fa con una serie cospicua di documentazioni: ne risulta che Heidegger è rimasto fino al 1945 iscritto al partito di Hitler e che la sua, in realtà, è da considerarsi una vera e propria «militanza» fatta di interventi e di disponibilità nei confronti del regime. Inoltre, alcuni di questi dati mandano ombre ulteriori sull'uomo Heidegger, e sembrerebbero, per esempio, accertare che nell'intervista pubblicata nel 1976 da «Der Spiegel» (ma rilasciata dieci anni prima) e ora tradotta anche in italiano, Heidegger avesse detto alcune cose inesatte, di modo che la sua autodifesa risulterebbe perlomeno dubbia. Tutto ciò ha sconvolto non poco la sensibilità culturale, soprattutto quella francese. Su «Libération» del 16 ottobre Robert Maggiori ha fatto uscire un suo articolo intitolato Heil Heidegger che si conclude con la seguente domanda: come possiamo conciliare il fatto che da una parte abbiamo il più grosso pensiero filosofico di questo secolo, e dall'altra parte che Heidegger non solo non dice una parola ma si rifiuta di prendere una posizione, sia durante sia dopo, contro il genocidio degli ebrei? Ecco, se questo è all'ingrosso il quadro dell'attuale discussione, io non credo che esso possa essere completamente sottovalutato. Farei questa osservazione: la sinistra, uscita dalle secche lukacsiane, ha sempre cercato e cerca ancora nella filosofia di Heidegger qualche cosa come una «rassicurazione», e non riuscendo più a trovaria si trova decisamente spiazzata. Quale rassicurazione? Nel più grande pensiero del nostro secolo noi pretendiamo di trovare gli strumenti teoretici che ci mettano in grado di difenderci dalla realtà storica e politica, e quindi anche da quel fantasma terrorizzante che per ciascuno di noi è il nazismo. Io credo invece che nell'ipotesi che Heidegger sia il più grande pensatore della contemporaneità dobbiamo far rientrare anche questa non-rassicurazione. Siamo di fronte a un pensiero che non solo è contraddittorio ma in cui la contraddizione relativa alla funzione e al ruolo del filosofo è un elemento massimamente caratterizzante. Cosa voglio dire? Che nel pensiero di Heidegger noi vediamo riprodursi continuamente una questione riguardante l'originario (prima Galimberti faceva riferimento all'autentico). Nella questione dell'originario possiamo far rientrare tutti i temi che sono stati poi evidenziati e portati a prova per far vedere la prossimità teorica tra Heidegger e il nazismo: la terra, il popolo tedesco, la patria, la lingua (il privilegio della lingua tedesca), il tema del Geist (che risuona appunto nel discorso di rettorato del 1933 e sul quale recentemente Derrida ha scritto un saggio ricchissimo di problemi). Dall'altra parte, però - in se stesso e per noi - Heidegger è il filosofo dello spaesamento, della distanza e - io insisto particolarmente su questo punto - del pudore. Come può il filosofo della distanza e dello spaesamento essere anche il filosofo della Heimat e della prossimità originaria? Credo che l'operazione critica che ci preme e che ci può distogliere da una falsa esigenza di rassicurazione sia proprio quella attraverso la quale noi riusciamo a riguardare la filosofia come qualcosa che, per la sua essenza, noi non possiamo mai utilizzare come un possesso che ci permetta di aprire porte o di affrontare fatti storici. Questa operazione critica ci porta a dire che la filosofia è un luogo duplice, ambivalente. Per quanto sottolinei e pensi la distanza, il filosofo (e non solo il professore tedesco) tenderà a riportare sempre alla superficie una sua funzione-guida, o semplicemente il suo idealismo. È la storia della filosofia, perlomeno della filosofia dell'Occidente. In fondo è proprio quello che Heidegger crede nel 1933, quando si illude da filosofo di potere in qualche modo «cavalcare» i fatti politici, di essere lui quello che sta più in alto, al di sopra dei fatti storici. Ed è in fondo anche la tesi del libro di Farias che vede in Heidegger un critico del «deviazionismo») hitleriano. Ecco, se nella filosofia c'è sempre da qualche parte questa sindrome di potenza (anche e forse ancor più nelle filosofie «razionalistiche»), non è che cancellando o censurando questo lato noi irrobustiamo la filosofia. Nella sua rischiosità, il pensiero resta sempre - in fondo - contraddittoria volontà di potenza e tentativo critico di corrosione; quell'interna ed essenziale autoerosione che nel caso di Heidegger è appunto riconoscibile nel tema chiave della distanza.

Marini. Alla domanda se Heidegger abbia avuto un effetto sulla cultura di destra, risponderei senz'altro di no. La «cultura di destra» (anche se l'espressione è discutibile) in effetti, c'era, esisteva: i suoi rapporti anche di amicizia con Jünger, per esempio, sono veri e le somiglianze o consonanze che sono state trovate con Schmitt, anche se discutibili - esistono dei libri in proposito - sono probabilmente dovute ad un'atmosfera pre-concettuale, ad una situazione storica comune. Il che spiega anche le consonanze con la cosiddetta «cultura di sinistra» (si vedano le tesi di Goldmann su Heidegger e Lukács). Però, se noi guardiamo all'opera complessiva di Heidegger, ma anche soltanto fino agli anni trenta, queste consonanze sono assolutamente insignificanti rispetto a quelle esistenti tra il pensiero di Heidegger e la fenomenologia husserliana, la tradizione accademica della filosofia e, in particolare, le scuole neokantiane. Soprattutto una certa sensibilità ad un'atmosfera generale di crisi morale lo accomuna ad alcuni rappresentanti del mondo accademico che sapevano forse esprimere in maniera più efficace la loro specifica crisi, quella della coscienza e della funzione «intellettuale». Che poi ci siano stati degli influssi su Heidegger da questo punto di vista, io lo escluderei, o almeno: questi non sono facilmente visibili. Le grosse determinazioni del pensiero di Heidegger sono piuttosto il retroterra cattolico e l'esercizio assolutamente accanito della ricerca e dell'insegnamento universitario, la moralità coltivata proprio all'interno delle proposizioni teoretiche che esprimono l'attività e il rapporto sociale più autentico di Heidegger, che era quello con i suoi maestri, con i suoi allievi. Direi che questi sono già in lui due fattori di isolamento: il cattolico è già automaticamente emarginato in gran parte della cultura tedesca specialmente accademica (da sempre appannaggio dei figli di pastore protestante) e lo era in quel tempo forse ancor più di oggi («cattolico» all'interno della cultura tedesca fa certo rima con «popolare», ma anche con «romantico» e «reazionario» se non con «idolatra» e «corrotto»). Il grande lavoro compiuto da Heidegger con Husserl dal 1918 al 1928 non ne ha certo favorito la popolarità, né messo in circolazione il pensiero nel mondo accademico (Husserl dovette lottare contro vecchi pregiudizi per fargli avere borse di studio e incarico d'insegnamento). Ma Husserl era poi, per la sua parte, un personaggio il cui isolamento era proverbiale. Quando nel 1930 tenne quella famosa conferenza - che Heidegger cita nell'Intervista - a cui parteciparono varie migliaia di persone fu un fenomeno del tutto sconcertante: quella era la fama di un autore, qual era Husserl, che nessuno in realtà conosceva. Essa veniva sulle ali di una specie di mitologia: «È il più grande filosofo tedesco». Si andava a sentirlo, ma poi quello che in sostanza Husserl era in grado di dire alle folle, diciamo così, non era certamente niente di particolarmente focalizzato sui bisogni spirituali del tempo. Era qualcosa che poteva venire interpretato in molti modi e, visto superficialmente, si potrebbe benissimo considerarlo, come un po' di retotica della ragione, l'«eroismo della ragione» di cui si parla nella Crisi, ma non molto più di questo. I tempi non erano quelli in cui chi fosse impegnato moralmente, politicamente potesse pensare in termini retorici. Erano tempi veramente di decisioni drammatiche, soprattutto dato lo stato di corruzione degli strumenti stessi dell'attività e dell'orientamento politico e morale: una situazione di «emergenza» diremmo oggi. L'«esoterismo» è un altro punto che è stato toccato. Su questo non posso pronunciarmi. Forse ci si può riferire al primitivo concetto germanico della Gefolgschaft o a certi motivi jungeriani. Penso che si possa parlare di sindromi collegate al duplice isolamento a cui mi sono riferito, ma l'esoterismo è una dimensione psicologica e culturale specifica per la quale mi mancano gli strumenti. Quanto alla distinzione autentico/inautentico, che effettivamente esiste in Essere e tempo, vorrei ricordare che, anche se non è estranea all'uomo Heidegger (come a nessuno di noi), non è però uno specifico punto di vista né una scelta teorica e morale di Heidegger: è semplicemente la constatazione di una struttura ontologica dell'esserci. Heidegger la presenta come qualcosa di oggettivo che si rileva ad un'analisi fenomenologica dell'esistenza, quindi non è che faccia una scelta in questo senso e direi che su questo punto tutto l'esitenzialismo europeo ha equivocato circa Essere e tempo in maniera piuttosto grave. Direi che la distinzione autentico/inautentico, per l'impatto ideologico violento che sembra avere, netto, radicale, è molto più ravvisabile nella problematica dell'epoché fenomenologica husserliana che non in questo approccio di ermeneutica esistenziale heideggeriana. Contrariamente ai presenti, io non ho avuto la fortuna, la possibilità di leggere il libro di Farias. E quando un libro è pubblicato non c'è che leggerlo. Mi stupisce tuttavia sentir dire che la cultura francese sia rimasta «sconvolta» - il termine ricorre in una recensione italiana a questo libro - da una notizia come quella che si dice il libro di Farias abbia portato. Perché? Perché che Heidegger fosse iscritto al partito nazional-socialista, che abbia pensato addirittura che l'ascesa di Hitler fosse un'ottima occasione per fare grandi cose, (secondo appunto quell'idealismo di cui parlava Rovatti prima), cioè che fosse il momento per inserirsi e far valere in università le ragioni del rinnovamento, lo sanno tutti da cinque anni almeno. Di «rinnovamento» dell'università parlavano negli anni venti anche i sassi in Germania, era il luogo comune, la chiacchiera addirittura, e non c'è da stupirsi che qualcuno potesse anche prenderla sul serio, come si fa appunto con le chiacchiere. «Il più grande pensiero del secolo» non dice una parola sul genocidio. Questo è un problema che, come riferisce Rovatti, si sarebbero posti certi giornalisti francesi. Questo è molto importante, invece. Jaspers, che è stato amico di Heidegger per molti anni, e che, fino alla fine, non ha mai denunciato questa amicizia, che, anche nel 1945, quando la commissione alleata di epurazione gli chiese un parere su Heidegger, contrariamente e Hartmann, per es. (che col regime se la passò benissimo) non lo condannò, ma si espresse in termini possibilistici nei riguardi di Heidegger, anche Jaspers, dico, di una sola cosa fu veramente deluso, e cioè che Heidegger non abbia detto: «mi pento di aver preso la tessera del partito nazional-socialista», «mi sento colpevole per il genocidio», ed altre cose di questo genere. Il fatto che Heidegger non si sia assunto questa responsabilità è una delle cose che gli vengono in Germania, oggi particolarmente, rimproverate anche da chi gli vuole bene, anche da chi lo apprezza e vorrebbe difenderlo. Confesso che non condivido questo atteggiamento sentimentale. lo penso che Heidegger ha tentato subito, nel 1933, di assumersi il massimo della responsabilità. Heidegger ha fallito subito e ha ceduto il campo. Anche questo, subito. Chiedere ad una personalità come Heidegger di rifiutare la tessera nazista per il 1938 e il 1945 è forse ingeneroso, è un po' come chiedere a una persona il suicidio. Io mi stupisco che qualcuno possa stupirsi che un uomo che aveva preso la tessera il primo maggio del 1933 non finisca col rifiutare - e magari anche platealmente - la tessera in occasione del patto Molotov-Ribbentropp o, diciamo, il giorno dell'invasione della Polonia. Heidegger non era una persona che potesse pensare di trovare scampo all'estero, il cosmopolitismo, la visione internazionalistica, il pessimismo o l'ottimismo di Thomas Mann o di Ernst Cassirer non erano certamente nella mentalità di Heidegger. Per la sua mentalità valeva il principio dell'originario, del radicamento e della responsabilità in solido per l'essenza epocale del «fatto storico» alla quale, ritengo, non sfugge affatto. Circa la «rassicurazione», sono d'accordo con Rovatti. Anche a me pare che si tratti di uno stupore di questo genere, ossia che si vorrebbe un pensiero retorico. Ma il pensiero di Heidegger non è un pensiero retorico, non rassicura e non è un pensiero pratico in generale, cioè non serve, sul momento, a nulla. Chi si avvicina al pensiero di Heidegger (e di Husserl) resta più solo di prima e deve vedersela direttamente con le situazioni del tempo. In questo senso il suo, proprio perché è un forte pensiero, è un pensiero debole, indifeso. Tuttavia, la tesi di Hanna Arendt, citata prima da Dal Lago, e cioè che il pensiero di un autore, di un filosofo, non debba essere messo in rapporto con la sua situazione storica, non mi convince molto. A me pare una semplificazione eccessiva. Io penserei piuttosto che esistono, tra gli altri, dei fatti storici di un tipo che si chiama «un grande pensiero filosofico». Un grande pensiero filosofico deve poter essere considerato come un fatto storico alla stregua di qualsiasi altro. Anche se proprio qui casca l'asino! Io, siccome mi occupo di storia della filosofia, sono quasi costretto a sostenerlo anche se per caso avessi qualche dubbio. Ma non ho dubbi: esistono dei fatti storici di questo genere. Ora, la domanda vera sarebbe un'altra: qual è il fatto storico più difficile da interpretare: l'incendio del Reichstag del 28 febbraio del 1933 (di per sé una cosa da nulla, nonostante il suo volgare simbolismo neroniano, rispetto alla strage di democrazia che allora si fece in Germania!) oppure il pensiero di Heidegger? L'esistenza di «fatti storici» di quel genere ci dice che bisogna cambiare il modo corrente di concepire il «fatto storico». E non è forse neppure il caso di dare per scontato che noi sappiamo cosa è stato il nazismo e cosa è stato il genocidio, un genocidio, quello politico del XX secolo che ha imposto sia alle vittime che ai carnefici una divisa di universalità umana pesante come una croce, ma che non lascia spazio alla buona coscienza di nessuno. Io, per es., ho creduto per molto tempo di saperlo, ma ora sono caduto nell'imbarazzo, anche se so ancora cosa farei e come sceglierei (su chi sparerei) se messo alle strette.

Dal Lago. Sono sostanzialmente d'accordo con gli interventi precedenti. Ora, per cominciare, vorrei - a riprova del fatto che l'attuaie scandalo sollevato sul «nazismo» di Heidegger mi sembra un po' tardivo e comunque esagerato riportare l'esempio di René Char. Si sa che Char, uno dei capi partigiani nel Midi della Francia, ha intrattenuto con Heidegger stretti rapporti nel secondo dopoguerra, l'ha ospitato in Provenza e ha partecipato tra l'altro al seminario di Le Thor. Circola anche la storia (raccontatami da un amico di Char) che il poeta abbia chiesto spiegazioni a Heidegger del suo comportamento durante il nazismo. Se la storia è vera, non c'è motivo di dubitare che le spiegazioni di Heidegger siano sembrate sufficienti a Char, dati i rapporti che ha mantenuto con il filosofo. Questo è solo un aneddoto, di cui non ho potuto controllare l'autenticità. Ma il vero problema interessante, al di là del caso Heidegger, mi sembra quello sollevato da Rovatti, e cioè il ruolo non rassicurante e pericoloso della filosofia. Se non ho capito male, il pensiero, e in particolare la filosofia, è un campo accidentato e non rassicurante, che non segue i contorni della storia e dell'effettualità politica. Di fronte alla filosofia come luogo dello scarto rispetto al reale, episodi come l'adesione di Heidegger al nazismo sono abbastanza insignificanti, dal punto di vista filosofico (e anche in questo sono d'accordo con Galimberti e Marini). È chiaro però che a questo punto sorgono dei problemi ben più ampi, e ancora privi di risposte convincenti. È sempre stato vero che la filosofia si pone altrove rispetto al reale? E possiamo oggi essere soddisfatti di questa abissale impoliticità (resa manifesta e definitiva proprio dal tentativo «politico» di Heidegger)? Galimberti citava Platone. È evidente che gli occasionali commerci di Platone con i tiranni di Siracusa sono ben poca cosa rispetto all'opera che ci è stata tramandata. Ma se pensiamo alla nostra tradizione filosofica moderna, vediamo che da Spinoza a Hegel, e soprattutto in Kant, il legame con l'effettuale e con il politico, per quanto tenue, ambiguo o talvolta eccessivo, è stato mantenuto. Semplificando all'estremo, il legame si spezza a partire dalla crisi dell'hegelismo (Marx escluso, ovviamente). Schopenhauer, Kierkegaard o Nietzsche sono indubbiamente pensatori dello scarto o dell'ecesso. Ma poi è l'epoca della distanza, dell'incomprensione e - diciamolo pure, - della megalomania. Ci si scandalizza di Heidegger, ma la famosa affermazione di Husserl secondo cui il filosofo dovrebbe essere il «funzionario dell'umanità» è forse indizio di una maggiore sintonia con la realtà? Evidentemente no, e qui è proprio il grande problema che è posto dal caso Heidegger. Pier Aldo ha parlato del tentativo o dell'illusione di Heidegger di cavalcare il nazismo. Ora, la megalomania filosofica, oppure l'illusione di dominare l'effettualità sono entrambe espressioni di una dissonanza radicale tra pensiero specializzato e mondo reale nei suoi vari aspetti. Pur essendo d'accordo con gli interventi precedenti, mi sembra che questo distacco, divenuto nel nostro tempo clamoroso, debba costituire un problema capitale per noi, e non semplicemente una giustificazione della superiorità o della irresponsabilità dei filosofi.

Galimberti. Io penso invece che tra filosofia ed epoche ci sia una strettissima relazione. Heidegger pretendeva di parlare in modo trans-epocale, e teorizza questa trans-epocalità nella filosofia, ma io ho il sospetto che egli sia stato tremendamente epocale e il luogo della epocalità - va a suo merito quello di essere stato epocate - lo individua lui stesso in quella intervista al direttore di «Der Spiegeh del 1966, poi pubblicata nel 1976, quando giustifica goffamente la sua partecipazione al nazismo con il fatto di aver intravvisto nel nazismo il venire a maturazione dell'epoca della tecnica: non è una giustificazione, fa acqua da tutte le parti, ma è incontrovertibile che Heidegger è quello che nel Novecento ha detto le cose più precise su questa dimensione; molto più precise di quelle che può aver detto Habermas, che può aver detto Luhmann, i quali si sono organizzati all'interno di questo sapere ormai condiviso e divenuto palese a tutti. Ma Heidegger queste cose le diceva nel 1927, con enorme precisione. Ouando in Essere e tempo analizza questi aspetti, egli aveva capito questa riduzione delle cose a strumenti; e, secondo me, ciò era stato per lui sconvolgente, perché da un punto di vista biografico e psicologico Heidegger era un contadino, era un boscaiolo. C'è un bellissimo libro fotografico su Heidegger, pubblicato in Germania, da cui si può vedere il suo atteggiamento da contadino. Secondo me egli è stato sconvolto e traumatizzato dall'epoca della tecnica, ma l'ha capita bene. Ha capito, per esempio, che le soggettività spariscono, che si crea una sorta di soggettività meta-individuale rispetto a cui i singoli soggetti diventano insignificanti. Sarebbe interessante vedere tutte le figure dello sradicamento, le figure dello smarrimento, dello spaesamento proprio come crollo di questo modello con cui l'uomo si era da sempre interpretato attraverso impianti e categorie umanistiche. Queste cose Heidegger le dice esplicitamente e penso che sia stato il più bravo di tutti a capire il significato della tecnica. Egli era indubbiamente spaventato dal punto di vista psicologico. Ha poi mediato filosoficamente questo spavento come annuncio di quello che si attende. Sull'epoca egli ha avuto occhi molto acuti, direi che ha offerto una lettura epocale intelligentissima. Sono convinto, che questo è uno degli aspetti per cui deve essere considerato il più grande filosofo del Novecento. Egli ha visualizzato la tecnica come dimensione che richiede che si rinnovino le categorie con cui l'uomo sino ad ora ha interpretato se stesso.

Rovatti. Voglio ricollegarmi al finale dell'intervento di Dal Lago. L'effetto Heidegger agisce - per noi - proprio in questa direzione. Non deve allora sembrare bizzarro che vi sia stato un avvicinamento tra il pensiero (il travaglio di pensiero, se vogliamo dire così) di Heidegger e quello che in un dibattito recente è stato indicato come l'indebolimento del pensiero. Di questa questione, spesso e volentieri fraintesa, comprendiamo bene almeno un aspetto: se il pensiero si rafforza, se diventa pensiero forte, troviamo di conseguenza esaltati quegli aspetti di padronanza di idealismo che coappartengono alla filosofia. Se invece andiamo piuttosto a ritrovare in Heidegger quello che Gianni Vattimo ha chiamato il «declino dell'antologia», oppure per una via analoga l'indicazione - complessa e contraddittoria - verso un pensiero metaforico, comprendiamo bene come una filosofia che si identifica con la realtà sia il rischio massimo intrinseco alla filosofia stessa; mentre il pensiero che si depotenzia o tenta di depotenziarsi e riesce a creare, con tutte le contraddizioni e tutti i rischi, un gioco di distanza rispetto alla effettualità, è il suo modo di pensare che più ci riguarda e che possiamo «utilmente» evidenziare in Heidegger. Dicendo questo, non vorrei però che sembrasse che allora abbiamo una soluzione, e cioè che sia facile e conveniente staccare dalla filosofia il suo aspetto di padronanza e dominio. La lezione di Heidegger - per chiamarla così ci suggerisce infatti qualcosa di più rispetto alla ulteriore e astuta rassicurazione che noi potremmo ricavare da questa operazione critica di depotenziamento. Il fantasma del Geist, insomma lo «spirito», ritorna sempre nella filosofia, come scrive opportunamente Derrida. Heidegger ci fa vedere come il depotenziamento non è mai del tutto realizzabile e come resti sempre da fare un lavoro di distruzione della filosofia stessa. Possiamo intendere così la polarizzazione, da un certo punto in poi, del pensiero di Heidegger verso la poesia, cioè come un lavoro di erosione del filosofico e del suo potere. Ma poi, lungo la via di questo depotenziamento del pensiero, non è che il compito venga semplificato, non è che tutto diventi più duttile. Heidegger ci mostra che proprio in direzione della poesia noi troviamo non solo l'errare e l'errore del metafisico, ma anche la sirena dell'originario. E allora, tornando al discorso di rettorato, vediamo che lì Heidegger contrappone, alla tradizionale libertà dell'accademia, un'altra idea di libertà. Certo questa «altra» idea di libertà noi possiamo identificarla automaticamente con l'adesione di Heidegger all'effettuale, ma dobbiamo contemporaneamente farla entrare in risonanza con quella, in fondo, enigmatica idea di verità che Heidegger, dall'inizio alla fine, propone come uno dei fondamenti del proprio pensiero. Questa verità, come sappiamo, non è possesso di qualcosa, anzi è zona di non afferramento, è spaesamento, luogo che sfugge: qui è più importante la zona di nascondimento che la zona di luce. Allora, da questo punto di vista, possiamo riattraversare il pensiero di Heidegger come una contraddizione ineliminabile ed essenziale anche per noi, e capire come vi sia certamente un indebolimento in tale pensiero ma anche (e drammaticamente) il trovarsi di fronte a se stesso. Autocritica della filosofia non vuol dire che la filosofia rinunci al suo compito. Il filosofo continua a filosofare, e anche l'Heidegger che continua a dire di no alla filosofia, e anzi proprio per questo, sa di dover restare in qualche modo nella metafisica.

Marini. Di nuovo l'intervento di Rovatti mi sembra molto convincente (al di là delle formule, come quella del «pensiero debole», o del «pensiero forte»). Anzi, devo dire, proprio al di là delle formule questa tesi è convincente. L'immagine che comunemente si può avere di un filosofo che sia stato nazista e abbia appoggiato il nazismo non prevede certo che questo filosofo si ritragga dall'impegno politico e dal conferire alla sua ricerca filosofica implicazioni pratiche. Si penserebbe anzi, proprio il contrario. E invece l'adesione di Heidegger al nazismo è stata una scelta, una decisione che Heidegger ha compiuto da un punto di vista che non aveva niente a che vedere e continua a non avere niente a che vedere - per coloro che vogliono correttamente interpretare questi fatti - con la pratica politica e con un discorso di carattere ideologico mentre aveva qualcosa a che fare proprio solo col suo pensiero! L'ottica di Heidegger era anche allora l'ottica trascendentale di un'allievo di Husserl e la sua adesione al nazismo attraverso il problema dell'università e la carica di Rettore, è stata effettivamente un atto, che ha comportato molti piccoli compromessi che poi (come quello della tessera) posso immaginare si siano protratti per ragioni di sicurezza personale anche fino al 1945. Quello che conta, però, è l'ottica con la quale Heidegger allora prese un'iniziativa come quella che prese e il modo come la lasciò. C'è un saggio di Otto Pöggeler intitolato Den Führer führen, il quale allude alla pretesa di Heidegger di comandare al Führer. Heidegger non vide la specificità del movimento nazional-socialista nella sua ideologia quale poteva essere espressa in Mein Kampf (non mi risulta neppure che l'avesse letto) non la vide neppure nei metodi di lotta politica né, diciamo, sotto la specie politologica, (come molti opportunisti, per es. E. Spranger), vide semplicemente il nazional-socialismo come un Aufbruch di tipo sociale, come lui stesso si esprime, cioè come una «rottura» nel tessuto di quel mondo costituito, al quale poi noi possiamo dare i colori della Repubblica di Weimar e della crisi post-bellica ecc. (e colori anche più truculenti). Questo tipo di mondo veniva, secondo lui, rotto da un evento la cui possibilità di determinazione era ancora tutta da vedersi. E qui ci fu la sua scelta di cui poi si ricredette perché questo risulta dai testi, e si ricredette pubblicamente, ma molto prima di sapere del genocidio o di vedere gli esiti orribili del regime, anche se in Heidegger non c'era nessun presagio «ideologico» di simili enormità future. Comunque sia stata, buona o cattiva, questa scelta, quello che ci interessa è osservare che in questa specie di idealismo emerge anche il tema dell'epocalità e non-epocalità: il mondo costituito, l'epoca, che ha la sua logica stringente dalla quale non si può uscire, la necessità di aderire a una logica di questo genere o la possibi1ità di evaderne. Secondo me questo fu proprio un episodio nel quale Heidegger espresse col suo comportamento stesso, di cui fa parte anche il Discorso di rettorato, un problema che poi è anche uno dei temi essenziali della sua riflessione e cioè quello del rapporto tra attualità e inattualità, epocalità o trans-epocatità, o come altrimenti lo si vuole chiamare. Cioè il tema di una necessaria tensione che esiste tra il dato e la prospettiva totalizzante della riflessione filosofica, totalizzante o radicalizzante, a seconda che la vogliamo vedere in progressione o in regressione: comunque, la prospettiva della riflessione filosofica. A questo destino della riflessione filosofica, cioè di non essere mai a casa propria, ma di essere sempre al di qua o al di là di quella che è l'attualità politica, Heidegger ha tenuto fede in tutta la sua carriera (una carriera non proprio felice). Sarebbe facile riscrivere in termini teorici questo comportamento pratico di Heidegger. La discussione con Nietzsche, che Heidegger cominciò giusto in quegli anni, dopo i fatti del 1933 e del 1934, fu da lui sentita e concepita proprio come una discussione con quello che avrebbe potuto essere l'argomento e l'ideologia del nazional-socialismo e che apparentemente lo era, finché il nazional-socialismo assunse Nietzsche come filosofo tipico da proporre agli uomini del presente. Tutta l'analisi di Heidegger fu allora, per nove anni - in maniera indiretta dal punto di vista politico, ma in maniera diretta dal punto di vista teorico - una discussione radicale non col nazismo politico, né con la sua costituzione e i suoi atti politici, ma col nazismo in quanto manifestazione di un trend epocale che Heidegger, per la sua impostazione professionale, si sentiva tenuto a considerare nella sua purezza: e uno degli aspetti più puri di questo trend può essere identificato, come ha detto Galimberti, proprio nella tematica epocale della tecnica da lui ravvisata come dominante. Da questo punto di vista, ripeto, io non credo affatto che la cultura francese sia rimasta «sconvolta» dal libro di Farias, che tuttavia non ho letto, ma del quale suppongo che non possa contenere documenti più decisivi di quelli che sono già noti in Germania (pubblicati, dopo ricerche accuratissime, dal professore di statistica economica di Friburgo Hugo Ott). Da queste ricerche risultano, diciamo, tutti i fatti che possono scandalizzare l'uomo della strada. Ma purtroppo da queste ricerche di Ott, come anche da un certo modo di trattare questi fatti della vita di Heidegger anche da parte di altri studiosi - se ne potrebbero citare vari in Germania che hanno approfondito i fatti fino agli ultimi particolari, verificando date, nomi, retroscena e così via (tutte cose pubblicate) - risulta una singolare incapacità di impostazione del problema. Si pretende cioè, generalmente, di giudicare la personalità di Heidegger - che è determinata essenzialmente da un fatto fondamentale, che è il suo pensiero teorico - in base a fatti che viceversa non possono, data la personalità di Heidegger, che essere considerati secondari e dipendenti, e in base a questi, ricostituendo le connessioni di questi fatti, si finisce con l'ammettere Heidegger in una serie di giochi di potere dai quali era, e rimane, completamente estraneo, ma alla radice (talmente alla radice da non rendersi conto neppure di come lo stessero liquidando dopo aver sfruttato suo nome). Praticamente Heidegger dalla sua avventura politico-amministrativa come retore dell'Università di Friburgo e anche dalla partecipazione che ebbe alla progettazione di un nuovo statuto dell'università tedesca (che era uno statuto di tipo autoritario) - finì con l'uscire in maniera grottesca, cioè come quello che non aveva fin dall'inizio dominato in alcun modo questo tipo di tecnica della comunicazione sociale. Heidegger non fu capace di «comunicare» proprio nulla della sua impostazione, né ai suoi colleghi, né ai lontani né ai vicini, né ai politici, né agli studenti, ai seguaci e neppure ai nemici. Non riuscì a comunicme assolutamente nulla. Questo dimostra semplicemente il rigore dell'atteggiamento non tanto epocale, quanto «epochizzatore», cioè di questa impostazionc di stampo fenomenologico-husserliano (di radicalismo epocalizzatore) che Heidegger portava con sé. Da questo punto di vista, penso che, più emergerà questo aspetto essenziale dell'avventura heideggeriana (che, d'altra parte, già negli anni sessanta è stato messo in luce in maniera essenziale da F. Fédier in un famoso intervento su «Critique» - e, quindi è una vecchia storia) tanto più si scoprirà quanto profondamente Heidegger sia stato allievo di Husserl.

Dal Lago. Vorrei tornare sul caso Heideggcr solo per illustrarne un aspetto. Che egli incarni proprio quella dissonanza di cui si parlava prima non significa che anche nella sua filosofia manchi la consapevolezza del significato assunto dal nazismo. Penso ai corsi su Nictzsche, e in particolare a quelli elaborati intorno al 1939-1940. In essi lo sviluppo della metafisica secondo l'asse Cartesio-Nietzsche coincide con l'affermarsi della volontà di potenza, e quindi con la tecnica. Ora, se anche nel 1933 Heidegger ha visto illusoriamente nel nazismo una rottura rispetto al moderno (dato proprio il carattere romantico-agreste del suo temperamento, come sottolineava Marini), all'inizio della guerra egli comprende che il nazismo è proprio la variabile estrema della volontà di potenza. Non si può non vedere in quei corsi non una critica politica, di cui Heidegger sembra proprio incapace, ma una chiara diagnosi dell'epoca. A riprova di questo fatto, si può citare il rapporto che Heidegger aveva con i due fratelli Jünger, Ernst e Friedrich Georg. Se L'operaio di Ernst Jünger poteva essergli sembrato, negli anni trenta un manifesto del proimeteismo, ora gli appare come una rappresentazione della tecnica e della mobilitazione della potenza. I saggi su Nietzsche sono, secondo me, influenzati profondamente dalle riflessioni dei due Jünger sulla tecnica, come lo stesso Heidegger riconosce nel suo carteggio filosofico con Ernst Jünger, ora tradotto in italiano in Segnavia. Insomma, io non sopravvaluto il significato politico di queste prese di pnsizione di Heidegger sulla tecnica, ma è chiaro che la sua seconda filosofia, se vogliamo chiamarla così, non si accorda con il luogo comune secondo cui egli sarebbe sempre rimasto nazista. Per fortuna, la sua filosofia è ben più problematica sia delle sue uscite in pubblico, sia della retorica polilica di qualche suo critico.


Dal discorso di rettorato «L'autoaffermazione dell'università tedesca» Martin Heidegger

[...] Dalla decisione del corpo studentesco tedesco, di fronteggiare il destino tedesco nella sua estrema indigenza, proviene una volontà diretta all'essenza dell'università. Questa volontà è una volontà vera in quanto il corpo degli studenti, grazie al nuovo diritto studentesco, pone se stesso al servizio della legge della propria essenza e con ciò delimita e definisce prima di ogni altra cosa, tale essenza. La libertà suprema consiste nel dare a se stessi la legge del proprio agire. La tanto decantata libertà accademica è stata cacciata dall'università tedesca; infatti non era vera, genuina libertà, in quanto era volta esclusivamente a negare. «Libertà accademica» significa prevalentemente indifferenza, piacere di dare libero sfogo alle proprie intenzioni e tendenze, nell'assenza totale di vincoli tanto nel costruire quanto nel distruggere. Ma il concetto di libertà del corpo studentesco viene ora ricondotto alla sua verità. E da tale concetto provengono gli obblighi e i servizi cui sarà chiamato nel futuro. Il primo obbligo è rivolto alla comunità del popolo. Esso obbliga alla partecipazione in comune agli sforzi, alle asperazioni e alle possibilità di ogni corporazione e di ogni cittadino del popolo tedesco. Questo obbligo verrà in seguito stabilmente fissato e radicato nell'esserci studentesco mediante l'esercizio del lavoro. Il secondo obbligo è rivolto all'onore e al destino della nazione nel concerto degli altri popoli; esige la disponibilità al sacrificio supremo - è disponibilità resa sicura di sé nel sapere e nel potere e maturata nella disciplina. Questo obbligo comprende e penetra ormai l'intero esserci studentesco come servizio delle armi. Il terzo obbligo è rivolto alla missione specifica del popolo tedesco. Questo popolo agisce sul proprio destino ponendo la propria storia là dove si manifesta la ultra-potenza delle forze dell'esserci umano che danno forza al mondo: e ottiene quindi nella lotta, in modo sempre nuovo, il suo mondo spirituale. Così esposto alla più estrema problematicità del proprio esserci, questo popolo vuole essere un popolo spirituale. Esige da sé e per sé, nei suoi capi e custodi, la severa e spiccata chiarezza del sapere più alto, più ampio e più ricco. Una gioventù studentesca che trova ben presto il coraggio di entrare nell'età virile e dispiega la propria volontà per il destino futuro della nazione, obbliga se stessa radicalmente al servizio di un siffatto sapere. Il servizio del sapere non potrà più essere per questi giovani l'opaco, oscuro e rapido addestramento ad una professione «onorata». Poiché l'uomo di stato e l'insegnante, il medico e il giudice, il parroco e l'ingegnere, sono nello stato le guide dell'esserci nazional-patriottico e hanno il compito di sorvegliare le potenze formatrici dell'esser-umano, quèste professioni e l'educazione necessaria per il loro esercizio, sono rimesse e affidate al servizio del sapere. Il sapere non è al servizio delle professioni, ma al contrario: le professioni ottengono e custodiscono quel supremo ed essenziale sapere del popolo intorno all'intero suo esserci. Ma tale sapere il sua volta, non è la pacifica acquisizione di conoscenze intorno all'essente e ai valori in sé, sibbene il più alto cimento dell'csserci nel cuore dell'ultra-potenza dell'essente. La problematicità dell'essere in generale esige dal popolo lavoro e lotta e vincola indissolubilmente il popolo allo stato, al quale ultimo appartengono le professioni. I tre obblighi - mediante il popolo in direzione del destino dello stato nell'orizzonte ultimo della missione spirituale - sono aspetti cooriginari dell'essenza tedesca. I tre servizi che ne scaturiscono - servizio del lavoro, delle armi, del sapere - sono uguali per necessità e rango. Il sapere che lavora per il popolo, il sapere che si tiene pronto per il destino dello stato in uno con il sapere che riguarda la missione spirituale, formano l'originaria, compiuta essenza della scienza, la cui realizzazione ci è assegnata a condizione che noi siamo disposti ad accogliere e a far nostra la remota ingiunzione dell'inizio del nostro esserci storico-spirituale. A una scienza così intesa ci si riferisce quando l'essenza dell'uninversità tedesca viene viene definita come la scuola di studi superiori che dalla scienza e mediante la scienza educa e forma nella disciplina più severa i capi e i custodi del popolo tedesco. Questo originario concetto di scienza non solo obbliga e vincola alla «oggettività» effettiva ma innanzitutto all'essenzialità e semplicità dell'interrogare nel cuore del mondo storico-spirituale del popolo. Sì - solo a partire da tale concetto può fondarsi per la prima volta una verace oggettività cioè solo quest'ultima può trovare il mudo e i limiti del suo essere. La scienza così intesa deve diventare la potenza formatrice del corpo dell'università tedesca. In ciò vi è un duplice aspetto: corpo insegnane e corpo studentesco devono, nel modo che è loro proprio, lasciarsi afferrare dal concetto e in ciò perseverare. Ma nello stesso tempo questo concetto di scienza deve penetrare e intervenire nelle istituzioni fondamentali al cui interno professori e studenti svolgono quotidianamente il loro lavoro scientifico: nelle facoltà e nei politecnici. La facoltà è veramente tale se evolve fino a diventare una istituzione radicata nell'essenza della propria scienza, se diviene capace di dare a se stessa leggi spirituali per poter inscivere nell'uno e identico mondo spirituale del popolo le potenze dell'esserci che la incalzano. Il politecnico è veramente tale se si pone a priori nell'ambito di tale legislazione spirituale e con ciò spezza i limiti della specializzazione e oltrepassa tutto il suprfluo e l'inutile connessi ad un addestramento professionale puramente esteriore. Nel momento in cui le facoltà e i politecnici riprendono sulle loro spalle le questioni essenziali e semplici della scienza da cui traggono origine, professori e studenti sono già afferrati dalle stesse necessità ed esigenze ultime dell'esserci del popolo nel suo stato. Tuttavia il prender forma dell'originaria essenza della scienza esige un tale grado di rigore, repsponsabilità e superiore perseveranza che rispetto ad essa hanno ben poca importanza l'ubbidienza coscienziosa o la solerte revisione di procedure tradizionali di comportamento. Ma se i greci hanno impiegato tre secoli per porre sul suo giusto terreno e in una direzione certa la questione dell'essenza del sapere, noi non dobbiamo pensare che il chiarimento e lo sviluppo dell'essenza dell'università tedesca possa aver luogo nel semestre corrente o in quello futuro. Una cosa tuttavia sappiamo a partire dall'essenza dell'università che abbiamo indicato: che l'università tedesca può acquistare potenza e forma solo se i tre servizi - lavoro ......



Voci utilizzate nell'articolo

Silenzio di Heidegger


Metodi applicati

Altri articoli collegati