1871201IXX

Da Libro bianco.

Heidegger e il nazismo

Saggi e dibattiti


DA FINIRE DI CORREGGERE

MondOperaio, Dicembre 1987



La complicità di Heidegger col nazismo è indiscutibile. E, se non fosse sorto il nazismo, egli si sarebbe rivolto a qualche altra forma di totalitarismo, tanto che nel dopoguerra finì per apprezzare Marx e il materialismo storico (il nazismo si era solo rivelato una falsa promessa). Se cerchiamo di capire le origini di questa complicità scopriamo anche il nesso che intercorre tra altri percorsi intellettuali e altre forme di totalitarismo, come quella che da Marx conduce a Stalin, compresi i trapassi, attraverso vasi intercomunicanti, dal radicalismo di destra a quello di sinistra. Per questo il "secondo" Heidegger attira oggi molti rivoluzionari delusi

Dante Argeri

La compromissione di Heidegger con il nazionalsocialismo e il suo assoluto silenzio, nel dopoguerra, sulla tragedia dell'olocausto erano realtà ben note e conosciute non solo dagli specialisti, ma anche dal pubblico colto. La novità portata dal libro dello studioso cileno Victor Farias sta nei fatti che riguardano non la compromissione in sé, ma la sua profondità, tenacia, durata. In breve: la simpatia, precedente la presa del potere da parte di Hitler, per l'ala «pura e dura», movimentistica del nazismo (per le SA insomma), di fronte al carattere «compromissorio» del regime; il rinnovo della tessera del partito fino al '45, la frequentazione o l'amicizia con i dirigenti «scientifici» dell'Istituto d'igiene razziale (responsabile ultimo degli «esperimenti» compiuti su cavie umane nei campi), la delazione alla Gestapo di due colleghi come «pacifisti» e filoebrei. Questi fatti, se appurati in modo documentariamente ineccepibile, sono di una gravità morale e politica estrema, perché espressione non di un disorientamento momentaneo, illusione o accecamento di un dotto inesperto delle lotte per il potere, ma di un consentimento attivo e prolungato a un regime criminale.

Fatta salva l'indubbia rilevanza del pensatore, il vecchio e sempre nuovo problema del rapporto uomo-opera si ripropone. E se fallace è il riduzionismo psicologistico che annulla o sminuisce l'opera in nome dei particolari biografici (ignorando che l'individuo è plasmato da ciò in cui si oggettiva, e che in quell'oggettivazione, in essa e per essa, da prova delle qualità che paiono mancargli nella «vita»), altrettanto fallace è la posizione di chi crede di poter fare dell'opera un assoluto, perfettamente chiuso e autosufficiente, dimenticando o volendo dimenticare che si tratta pur sempre della parola di un uomo, rivolto ad altri uomini.

Ineludibile, quindi, è la domanda se qualche nesso vi sia, e quale, tra la struttura stessa del pensiero di Heidegger e la realtà nazionalsocialista o le tendenze totalitarie del nostro secolo.

Anche qui, un fatto è indubbio: il linguaggio dell'analitica esistenziale di Sein und Zeit (Essere e tempo) si è immediatamente piegato, senza offrire resistenza alcuna, all'apologia del regime nei famosi, e famigerati, discorsi di assunzione del rettorato dell'Università di Friburgo, nel '33-34. L'EsserCi (Dasein) umano si è fatto subitaneamente tedesco, la «decisione» autentica si è riempita della «radicalità» della rivoluzione nazionalsocialista, l'Essere ha incominciato a intrattenere relazioni particolarmente intime con il Volk germanico; l'anti-intellettualismo dell'afferramento comprendente della situazione esistenziale — che precede ogni idea o proposito particolari — si è prestato a interpretare la brutalità hitleriana.

Come mai tutto ciò? Un abbozzo di risposta può essere il seguente: nell'opera del 1928 (sic), Heidegger aveva percorso fino in fondo la strada — già aperta da Nietzsche — che, a partire dalla morte di Dio e dal disincanto del mondo, radica ogni valore, etico o conoscitivo che sia, nell'atto valorizzatore dell'uomo. Si tratta di una tendenza globale del pensiero novecentesco. In fondo, un'etica della fedeltà alla propria «vocazione» si trova in autori diversissimi (come Ortega o Croce), per non parlare, appunto, dell'obbedienza al proprio demone, nell'eterna lotta fra gli dei-valori, di weberiana memoria. Il percorso heideggeriano, però, si distingue — come è stato spesso notato — per l'accentuata curvatura nichilistica che taglia via da tale problematica ogni contenuto, sia di tipo cristiano che illuministico-liberale, così come ogni adesione cordiale alla vita, mentre un atteggiamento intellettualmente elitario sembra irridere o disprezzare le banali virtù quotidiane del «borghesuccio». Affiora pertanto un atteggiamento che, quasi spolpando il motivo della responsabilità ultima dell'individuo nelle sue scelte (motivo di per sé alleato e non già nemico di posizioni razionalistiche e democraticistiche), sfocia nell'idea che unico valore sia la forma stessa della decisione. Pare quasi, insomma, che veramente valga solo la possibilità umana di valorizzare, irrompente su di uno scenario deserto di senso. Non conta, si direbbe, «ciò» che si sceglie, ma il fatto di sceglierlo in modo autentico, come già notava Loewith, rammentando con fine ironia l'aneddoto dei giovani lettori di Sein und Zeit, che erano ben «decisi», ma non sapevano a che...

Nel primo Heidegger, quindi, l'orrore per ogni reificazione della soggettività — di stile ancora vagamente trascendentalistico, via fenomenologia - si sposa con l'eco della tematica religiosa che denuncia lo smarrimento mondano dell'uomo. Il Dasein apre il mondo e lo illumina, ma si perde in esso, quasi lasciandosi inghiottire da ciò che in lui peraltro si radica, e pur non essendo mai «semplice presenza» — o un «utilizzabile» — finisce col concepirsi, per lo più, in termini cosali, o con l'usare se stesso. Per contro si erge, in un'atmosfera inevitabilmente eroica — a dispetto dell'assoluta non-valutatività dell'ontologia fenomenologica —, la decisione autentica, appunto, che anticipa la morte in solitudine angosciata. La decisione è allora una sorta di stampo che attende un contenuto e, nonostante le apparenze in contrario, un contenuto in qualche modo grandioso, drammatico, «radicale». O meglio, è come se il filosofo di Messkirch, con astuzia contadina, non si fosse precluso nessuna strada: la decisione, pur mantenendo lo stile di una solitaria, tacita, non appariscente conversione del singolo, ammicca a una possibile eroica dedizione totale a un progetto inauguratore di storia, a partire dalla propria temporalità temporalizzante. Per un verso pare riferirsi a un afferramento che transvaluta, senza alcun mutamento esteriore, l'anonimo mondo del «si», riportando ciascuno là dove semplicemete era. Per altro verso sembra formalizzare, svuotandola di ogni contenuto, quel tipo di scelta, a sfondo torbidamente religioso e insieme modernamente attivistico, propria di tanti intellettuali a partire dagli sconvolgimenti della prima guerra mondiale e dell'Ottobre russo, e di cui il Lukàcs di Storia e coscienza di classe, ex filosofo della vita e lettore di Kirkegaard, è stato un modello.

L'ambiguità non è casuale, bensì confitta nelle caratteristiche intrinseche del «progetto-gettato» di cui l'uomo consiste e del nesso tra Essere in generale ed essere del nostro EsserCi. Ad onta dell'insistenza sul mit-sein (essere-con), il progetto-gettato, nella singolarità del suo continuo poter-essere e aver-da-essere, è radicalmente solitario e nello stesso tempo privo di confini rispetto al Tutto o all'Assoluto. In virtù del circolo ermeneutico, che in Sein und Zeit non haun significato di filosofia della cultura (risalimento interpretativo delle tradizioni, semiosi illimitata et similia) ma una pretesa ontologico-fondamentale forte, l'essere dell'EsserCi è apertura o relazione all'Essere tout court, in una coimplicanza diretta di prospettiva monadologica e prospettiva totalizzante.

I’unico ponte — e quasi schema trascendentale — per concretare e intendere tale coimplicanza è il tempo, come proprio tempo, o tempo che diviene «proprio» nella forza inaugurante di una decisione originaria. L'esplicazione della temporalità propria di quell'ente, che nel suo stesso esistere pone ogni interrogativo ed esigenza di senso, permette di cogliere il «senso» dell'Essere.

In tutto ciò si afferma una paradossale ma coerente coincidenza di tentativo di estremo radicamento nelle scaturigini dell'ipseità e di sguardo quasi straniato e straniante (a-umano, se non dis-umano) sull'uomo, mentre il momento depressivo insito nell'insistenza sulla morte è tallonato da una possibilità inflazionistico-maniacale.

Si intende che tale pensiero, di per sé non politico, poteva avere qualsiasi utilizzazione, purché fosse integralmente ostile ed estranea alle varianti liberaldemocratiche dell'individualismo ed esaltatrice di una singolarità suscettibile di trapassare immediatamente o riconoscersi in una totalità. Occorreva, in definitiva, una forza politica che parlasse con accenti rivoluzionari il linguaggio della tradizione e che pretendesse di attingere un'origine appunto perché mossa da uno spirito eversivo; un tale movimento doveva atteggiarsi a potenza «epocale», costituendo un analogon dei progetti sorti dalla filosofia della storia ottocentesca, senza più compromissioni, neppure verbali, con il progressismo democraticistico e Io scientismo.

Insomma, se il nazismo non fosse sorto e non avesse vinto, il pensiero di Heidegger o non avrebbe potuto assumere alcuna piega politica, oppure avrebbe dovuto rivolgersi a qualche altra e storicamente più robusta forma di totalitarismo.

I discorsi di rettorato, giudicati da un interprete fine e accorto (anche se non filosofo «specialista») come Georg Steiner «robaccia pomposa e rettorica», non sono pertanto espressione di cedimento estrinseco. Non si tratta, semplicemente, della «sindrome del grande professore tedesco» di filosofia, o, se di «sindrome» si tratta, è quella del Fichte più illiberale, nazionalista e protosocialista, o del giovane Hegel non immune da premonizioni totalitarie, immerso nel culto della «libertà degli antichi» e aspirante a una nuova religione del popolo, capace di inverare l'attesa messianica suscitata dalla rivoluzione francese. E' una sindrome grave, perché costituita dalla torbida commistione di bisogno di un sapere assoluto e fondamentale e di irrisolta aspirazione al potere, placabile solo — forse — fondendo l'efficacia storica dei fondatori di religioni con quella dei conquistatori di imperi.

Cosi, neo-fichtianamente, Heidegger si illude di dare un'interpretazione profonda e «spirituale» della rivoluzione nazionalsocialista, avendone intesa — lui solo — «l'intima verità» e «grandezza». Verrebbe quasi voglia di dire che finalmente ha anche lui la sua rivoluzione, quella «autentica» s'intende, non quella senza radici (compromessa con lo spirito plutocratico-giudaico?), cui si sono già per altro piegati, con analogo sacrificio dell'intelletto, altri «filosofi» che l'autore di Sein und Zeit probabilmente giudica di più corte vedute, minore genio e maggiore impazienza... Solo in questo modo si spiegano le agghiaccianti parole sulla «intima verità» e «grandezza», appunto, del movimento nazista, nell'Introduzione alla metafisica, l'opera del 1935 dove più stridente e offensiva è la compromissione di ontologia fondamentale e attualità tedesca, in una specie di aggiornato e scaltrito mito socio-morfico.

L'Essere ha bisogno della storia, non solo, ma dell'Occidente europeo, anzi della Germania, stretta nella «morsa» dell'americanismo e del bolscevismo russo, che sono metafisicamente la sttessa cosa, spersonalizzante tecnicizzazione del mondo. Siamo, veramente, nel cuore dei temi politici della destra radicale; non per nulla, anche se in forma brutalmente razzistica, saranno questi i motivi dell'ultima propaganda «nazi» nella fase finale della guerra (la civiltà europeo-germanica da salvare contro le orde inter-razziali, e perciò neo-barbariche, dei russi e degli americani) e saranno altresì gli argomenti della «nuova» destra, dopo la seconda guerra mondiale.

Ma il punto è che Heidegger sta qui solo volgendo in forma volutamente nebulosa e neo-arcaicizzante una trama concettuale analoga a quella che, attraverso un certo Hegel, innerva il comunismo di portata epocale, ma insieme nazionalistico e inconsapevolmente antisemitico, del Marx del 1843. Ciò significa che il nesso intercorrente tra filosofia dialettica della storia e ricalco heideggeriano è analogo a quello che corre entro la profana vicenda dei totalitarismi, tra rivoluzione leninista, terrore staliniano, e nazismo.

Ben s'intenda: come non vi è un nesso consequenziario da Marx a Stalin (e al Gulag), cosi non vi è tra Heidegger e Hitler (e Auschwitz). Ma come vi è compromissione storica del pensiero di Marx con certi esiti del moderno totalitarismo, così (e anzi ancor più, per via della contemporaneità) vi è un rapporto di «compiacenza» del pensiero di Heidegger con il totalitarismo di destra. La rivoluzione nazionalsocialista può infatti essere considerata una …………….. nichilistica del potere totalitario, animata da volon …………………….. correnziale e mimetica rispetto a quel «bolscevismo ………………….. odia, ma in segreto ammira (per la già dimostrata capacità di trattare i popoli come argilla, di sterminare gli avversari, eliminare ogni alterila e dissenso, mobilitare le massein un'impresa totale, nutrita di gigantismo tecnico); in modo analogo, le idee heideggeriane del ' 33-35 possono essere viste anche quale reductio ad absurdum delle metafisiche romantiche della Storia e dell'Assoluto.

Si potrebbe dire pur sempre che tutto ciò non ha nulla a che vedere con il «secondo» Heidegger, il teorico del fidente abbandono all'Essere nel pensiero rammemorante, critico acutissimo di ogni pensiero della «im-posizione» e della manipolazione tecnica di uomini e cose. E' vero che l'impegno diretto e «deciso» del '33-34 è già trasfigurazione speculativa nel '35 e che, mentre la fondazione di un nuovo Stato è ancora considerata nel '36 uno dei modi dell'operare della Verità, nell'Epoca dell'immagine del mondo (1938) si guarda in modo disincantato a tutte le forme di organizzazione della vita collettiva sulla terra come concretezza di un unico destino metafisico. Tuttavia, la parabola che accompagna la «svolta» non sembra rovesciare quanto abbiamo detto. In fondo, gli ultimi fascisti «di sinistra» nel crepuscolo del '44-45 volsero le loro simpatie, o il loro interesse, alla sola forza rivoluzionaria e integralmente ostile alle democrazie capitalistiche che fosse rimasta in campo e anzi uscita rafforzata dalla guerra: la Russia staliniana; mentre intatta restava la loro ripugnanza per il mondo liberaldemocratico. Così, nell'ispirato antiumanesimo del '46-47 (Lettera sull'Umanesimo) Heidegger per la prima volta — in un pensatore avarissimo di citazioni precise e ben compreso dell'incomparabile unicità del proprio cammino — ha parole di aperto apprezzamento per Marx e il materialismo storico. Quest'ultimo è l'unico pensiero della Storia che almeno si elevi al di sopra delle forme di banale historismus e che sia in qualche modo degno di attenzione. Marx è l'unico pensatore, assieme a Nietzsche, che rifletta a partire dai tempi della distretta e dell'uomo senza patria.

Se si volesse tradurre in termini concretamente politici (e fermo restando il carattere comunque riduttivo di queste operazioni), poco e cambiato rispetto agli anni '30; solo si e avuto un piccolo — si fa per dire — spostamento. A quanto pare il nazismo era una falsa promessa, un episodio di quell'universale processo di massificazione che caratterizza la società totalmente amministrata. Non vi e però alcuno spartiacque morale o intellettuale tra democrazia e antidemocrazia, questo non è ovviamente, un criterio significativo rispetto alla storia epocale dell'Essere. Anzi, se almeno si può sospettare che nella vicenda dell'uomo Heidegger si sia verificata un'amara delusione perché l'«auto-rinnovamento» tedesco non era «altro che» un caso come un altro dello smarrimento di una modernità dimentica dell'Eessere, per altro si assiste proprio alla mossa tipica, di questi casi, dell'intellettuale non del tutto in pace e in chiaro con se stesso: la fuga in avanti, il gesto di alzare talmente la posta da far apparire vane tutte le altre mosse del gioco. Nei rari riferimenti all'«attualità» del periodo postbellico, il tono e apertamente messianico-escatologico: tutta la terra è deserto, quanto avviene è solo conseguenza di eventi già da sempre giocati. Despoti, massacri e guerre mondiali, tecnologia atomica, spaziale e cibernetica, non sono che particolari di un mondo già «morto», cioè volto meccanicamente e coattivamente a compiere quanto «destinato» da quell'«evento», esso sì decisivo, a quanto pare, che «si è dato» quando gli arcaici «pensatori» greci sono stali sostituiti dal tecnicismo filosofico di Platone e Aristolele.

Come è possibile non afferrare che, per quanto riguarda il significato concreto, siamo di fronte a una versione vagamente apocalittica, appunto, della «teoria della convergenza» Est-Ovest, aperta a possibili concezioni dell'identità di neo-capitalismo e fascismo tecnocratico (a suo tempo sviluppata dall'ex discepolo Marcuse)? o a vaghe ispirazioni ecologiche a tratti segnate da soprassalti di nostalgia per un destino germanico, certo ostile alla Russia, ma più ancora, forse, all'America? Insomma, un pensiero, ancora una volta, non politico, ma alto a giustificare tutti i possibili trapassi da un radicalismo di destra a uno di sinistra, e soprattutto a soddisfare e consolare tutti i via via delusi da una qualche «decisione» rivoluzionaria.

Occorre tutta la cecità dei professori di filosofia (quei medesimi che Benedetto Croce teneva per «incorreggibili») per non afferrare che il «secondo» Hleidegger, pur con oscillazioni e variazioni talvolta significative, ha in fondo continuato proprio un'opera di formalizzazione dissolutiva delle movenze di pensiero che soggiacciono — simultaneamente — alle filosofie della storia e alla brama di conversione individuale. Degli antichi contenuti che avevano sostanziato i progetti di salvezza colletti, a o l'aspirazione alla «metanoia» del singolo, rimane il guscio, senza più alcuna compromissione «ontica», cristiana o marxista che sia. Siamo nell'epoca della culminazione del male (senza più, però, valutazione «etica», cioè banalmente «umanistica» di questo male), nel tempo del deserto (e della notte dell'anima), siamo però pur sempre in attesa e in cammino (senza che si sappia di che e verso che cosa).

Il «secondo» Heidegger attira oggi molti delusi delle peripezie della sinistra, ex movimentisti o loro fiancheggiatori e critici benevoli o simpatetici, non già nonostante, ma appunto perché ha seguito l'arco di cui si è detto. Il suo pensiero non esercita effetti di libertà in contrasto con gli inessenziali cedimenti dell'uomo, piuttosto esercita il fascino un po' ipnotico del canto di una sirena. Meraviglioso ad ascoltarsi, s'intende, purché si sia prima provveduto a legarsi saldamente all'albero della chiarezza intellettuale e morale.

Resta il fatto, indiscutibile, che Heidegger non si riduce mai agli aspetti che abbiamo sottolineato. Nel magma di una parola quasi poetante stanno quelle pro-vocazioni che buona parte del pensiero contemporaneo ha continuato a raccogliere. Esse scaturiscono non solo dalla dichiarata «distruzione» dell'ontologia cartesiana e «platonico-aristotelico-scolastica», ma altresì dalla dissoluzione interna di quelle tilosofie che hanno cercato il segreto dell'Essere o della Realtà, ora profondendosi nell'analisi dell'esistenza del singolo, ora gettandosi alla ricerca di un senso che tosse consenso a una meta collettiva.

Quanto abbiamo detto, cioè, può essere considerato in modo non deteriore: la forza «decostruente» dell'autore degli Holzwege (Sentieri interrotti) investe insieme Marx e Stirner, Hegel e Kirkegaard, Sartre e i neo-marxisti. Si ha l'impressione che in lui si esaurisca quella vicenda che ha visto gli «esistenzialismi» scontrarsi, incontrarsi e avvinghiarsi alle filosofie della storia, in un rapporto di polemica, ma anche di concorrenza, simbiosi, reciproco scambio. Più ancora, nessuno, meglio di Heidegger, ha messo a nudo la strategia di quelle speculazioni che hanno cercato una via verso l'Assoluto, o il Tutto, mediante un'analisi del modo d'essere dell'uomo, colto a partire dalla presenza a sé del vivere, dell'esistere, del durare... E nessuno, meglio di Heidegger, ha chiarito che ogni interpretazione pan-oggettivistica del modo d'essere di qualsiasi esistente è solidale di un assolutismo della soggettività.

Ma questi e altri e consimili temi, per essere veramente messi a frutto, abbisognano di una paziente opera di purificazione delle scorie con cui si presentano fusi e confusi, e di una traduzione in termini chiari e pubblici, svincolati dall'idioletto d'origine. Occorre infine liberarsi da quel miscuglio di teoria impacciata e di calligrafismo interpretativo che continua a proliferare attorno ai «sentieri interrotti» del falso profeta; un miscuglio fondamentalmente evasivo e spesso ripetitivo che sembra avere in larga misura sostituito (almeno in Italia) analoghe operazioni compiute, fino a qualche tempo fa, sul corpo di Marx.

Non si tratta quindi di scatenare cacce alle streghe, né, tanto meno, di conferire in modo subdolo qualche «intima grandezza» al nazionalsocialismo, magari mediante la celebrazione acritica di autori come Spengler, Jünger, Schmitt... Si tratta invece di rammentare la spiacevole ma banale verità che la cultura europea, anche grande, non è stata innocente verso i fenomeni totalitari (che in molti casi ha attivamente auspicato e preparato, per poi prosternarsi di fronte ad essi), e che i trapassi più volte verificatisi politicamente tra totalitarismo di destra e di sinistra hanno il loro preciso corrispettivo anche nel cielo rarefatto della filosofia.



Voci utilizzate nell'articolo

Silenzio di Heidegger

Simpatia per le SA

Iscrizione alla NSDAP

Denuncia di colleghi

Fascinazione


Metodi applicati

Sollevare la Questione

Onniscienza teoretica

Coincidentia verborum


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