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Da Libro bianco.

Si stampi, disse il Duce Caso Heidegger. Un retroscena italiano

Mussolini impegnato a far pubblicare un saggio di Heidegger nonostante il veto dell'ideologo Rosenberg. L'episodio, rivelato dal libro-scandalo di Farias, era rimasto oscuro. Un filosofo italiano lo spiega a "Panorama"


Panorama, 20 marzo 1988


Maurizio Bono Intervista a Ernesto Grassi


Quella sera di primavera, nella prima settimana di maggio del 1933, di fronte all'università di Friburgo avanzava un carro tirato da buoi. Sopra, ammassati alla rinfusa, più di mille volumi proibiti, bottino del saccheggio nelle librerie della città. Di lì a pochi minuti sarebbero finiti in un grande falò, passati di mano in mano tra gli schiamazzi e i «Sieg Heil» degli studenti nazisti, entusiasticamente impegnati nella Kampfbund für deutsche Kultur, la battaglia a favore della cultura tedesca proclamata dal dottor Goebbels. «Ricordo quell'autodafè come se fosse successo ieri. E ricordo bene l'impassibilità indifferente di Martin Heidegger, all'epoca rettore dell’ateneo friburghese».

Il testimone di quel rogo di libri di 55 anni fa, preannuncio di ben altre barbarie, ha oggi 86 anni, è professore emerito all'università di Monaco di Baviera, la città dove vive, e gode di solidissima, benché piuttosto specialistica fama, tra gli studiosi del pensiero umanistico nella tradizione italiana.

Venti e più dotti volumi pubblicati in Italia, Germania, Francia, Stati Uniti su Platone, Leopardi, Guicciardini, Giovanbattista Vico e decine di prestigiosi giri di conferenze in Europa e in America all'attivo, Ernesto Grassi torna oggi però a smuovere le acque del dibattito storico-filosofico proprio riparlando degli anni che segnarono i suoi esordi: tra il 1929 e il 1942, in Germania, quando si consumò la tragedia nazista e quella politica-intellettuale di Martin Heidegger, ora al centro della documentata requisitoria di Victor Farias Heidegger e il nazismo pubblicata con scalpore in Francia lo scorso ottobre (Panorama 1125) e in arrivo in Italia in aprile (edita da Bollati-Boringhieri).

Un posto indiscutibile in tutte le bibliografie su Heidegger, del resto, Ernesto Grassi se lo conquistò fin da allora, giovanissimo. Col filosofo di Essere e tempo venne in contatto in un anno già infausto, il 1929, all'alba delle persecuzioni antisemite che in Germania costrinsero Edmund Husserl ad abbandonare l'insegnamento e coincisero con la salita di Heidegger sulla cattedra dell'ex-maestro. Grassi frequentò assiduamente Heidegger a Marburgo, a Friburgo e a Berlino a cavallo tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta: pubblicò per primo due suoi scritti fondamentali, II concetto di verità in Platone e Lettera sull'umanismo, introdusse il pensiero heideggeriano in Italia e fu diretto e partecipe testimone della vita e del lavoro del filosofo in quegli anni. Ma non ne parlò mai.

«Heidegger fu nazista? naturalmente si. Il problema, da un punto di vista storico, non si pone neppure» dichiara ora con tutta tranquillità Grassi. Ma per convincerlo a farlo c'è voluta la tenacia di Farias, che in una decina di pagine dense di date e circostanze, sotto il titolo «Heidegger e il duce», lo ha chiamato direttamente in causa. L'episodio, come è narrato in Heidegger e il nazismo, si svolge a Berlino nell'estate del 1942, anno terzo del «Patto d'acciaio» italo-tedesco. Grassi ha pubblicato il primo fascicolo del suo Annuario nel 1940 e per il secondo numero ha previsto il saggio di Heidegger sulla dottrina della verità in Platone. Ma Alfred Rosenberg, ideologo della razza e della supremazia germanica che finirà impiccato come criminale di guerra a Norimberga il 16 ottobre 1946, si oppone. Teme, scrive al ministro della Propaganda di Hitler, Lutz, che «la posizione di Heidegger contribuisca ad avallare le pretese avanzate da parte italiana di farsi valere agli occhi della scienza germanica», che «ingeneri confusione». Tutto finirebbe 11, probabilmente, se a favore della pubblicazione di Heidegger non scendessero invece in campo, pochi giorni dopo, il ministro fascista dell'Educaione Giuseppe Bottai, l'ambasciatore d'Italia a Berlino Dino Odoardo Alfieri, e persino Mussolini in persona. A chiudere l'incidente, che in piena guerra e sotto i primi bombardamenti di Berlino assume i toni di un giallo storico-diplomatico, alla fine sarà un secco memorandum del potentissimo Joseph Goebbels, al quale Mussolini si è rivolto: lo scritto di Heidegger sarà pubblicato e anzi si prepara, in Italia, l'edizione completa dell'opera del filosofo tedesco (che però non vedrà mai la luce). Victor Farias allinea l'episodio alle centinaia di altre testimonianze su Heidegger in quegli anni per completare il «j'accuse» contro un ideologo compromesso con il nazismo ai suoi massimi livelli. Ma da sola la vicenda apre una pagina inedita nella storia degli intellettuali italiani sotto il fascismo. Che cosa ha da aggiungere a questo racconto, professore? «Premesso che di quell’intervento di Mussolini io sono venuto a conoscenza solo recentemente» risponde Grassi «ciò che a mio avviso deve essere chiarito e che Farias non ha capito, pur avendo proposto una ricostruzione sostanzialmente vera e certamente puntuale del nazismo di Heidegger, è il ruolo che in quegli anni ebbe a Berlino l’istituto “Studia Humanitatis” che dirigevo, e la natura dello scontro che oppose Heidegger a Rosenberg a proposito della pubblicazione dello scritto nell’Annuario dell’istituto».

«La sostanza» prosegue Grassi è questa nel 1942, dopo anni di lavoro in Germania in cui mi era apparsa via via più chiara l'opposizione ideologica dei filosofi nazional-socialisti tedeschi (a cominciare da quella dello stesso Heidegger) alla tradizione umanistica latina che era già al centro dei miei interessi scientifici, parlai al filosofo delle religioni Enrico Castelli (allora professore a Roma) della necessità di fondare un centro a Berlino per la difesa delle nostre tradizioni». Fu poi Castelli, che aveva ottimi rapporti con l'intellighenzia fascista e gentiliana, a convincere Giuseppe Bottai, secondo il racconto di Grassi, all'impresa. Si aprì così un singolare «fronte culturale» che opponeva tra di loro gli alleati mentre la propaganda esaltava all'unisono, da Roma e Berlino, la compattezza italo-germanica alla conquista del mondo: diritto romano (una delle prime iniziative di Grassi fu di affidare l'inaugurazione in latino degli «Studia Humanitatis» al giurista Salvatore Riccobono, mentre il discorso immediatamente successivo di Giuseppe Bottai garantiva la massima protezione politica) contro il «diritto germanico» caro alle teorizzazioni deliranti di Rosenberg sulla razza; tradizione rinascimentale, vichiana e umanistica contro l'inevitabile superiorità dello «spirito speculativo» tedesco vantata dall'ideologo del nazionalsocialismo Wilhelm Brachmann. L'impresa, alla quale Bottai non lesinò finanziamenti e protagonistiche prestazioni personali (un suo articolo su L'arte di leggere infiora il secondo volume dell'Annuario, un intero volume a sua firma, in tedesco, sui destini degli studi umanistici in Italia esce per i tipi dell'istituto berlinese con prefazione di Grassi), avrebbe finito per innervosire, alla lunga, il già poco cordiale alleato. «Fino all'episodio ricostruito da Victor Farias» conclude Ernesto Grassi. Ma in esso si affaccia un improbabile Heidegger « filo-umanista » e meno fanatico della germanicità? «Assolutamente no» tiene a precisare Grassi. «Al contrario, l'autore di Essere e tempo, proprio come afferma Farias, fu un intransigente spregiatore delle tradizioni speculative latine e dello stesso umanesimo». Ma perché Rosenberg si accaniva contro di lui, allora, e d'altra parte perché Grassi lo voleva a tutti i costi nell'Annuario? «Perché Heidegger, che per me è stato per mezzo secolo un punto di riferimento essenziale – anche in polemica – per la ricerca sulla tradizione umanistica italiana, era indubbiamente un vero nazista, ma anche un genio speculativo in una compagnia di cretini. Ricordo che ce lo dicevamo spesso con Wilhelm Szilasi, un filosofo ebreo ungherese e mio caro amico: Heidegger prima o poi avrebbe puntato a-diventare lui stesso l'ideologo del nazionalsocialismo, e i Rosenberg e i Brachmann non avrebbero tardato a reagire. Del resto quella profondissima di Heidegger era una filosofia dell'angoscia, e il nazionalsocialismo concreto aveva bisogno invece di una filosofia della speranza. Ne avrei avuto una conferma un giorno che Heidegger mi disse di essere stato escluso dalla commissione incaricata della edizione critica di Friedrich Nietzsche, allora governata con pugno di ferro dalla terribile sorella del filosofo.

Nei ricordi di Grassi, la vicenda dei rapporti tra fascismo, nazismo e Heidegger emerge insomma assai più complessa di come la racconta Farias. Ma il filosofo umanista sarebbe il primo a indignarsi di fronte a una interpretazione della sua guerriglia filosofica di allora come un'astuzia tattica guidata anche dalle più nobili finalità politiche. Lo ribadisce ancora e instancabilmente nel suo ultimo libro pubblicato in Italia, proprio su Heidegger e il problema dell'Umanesimo (Guida Editori): ciò che gli preme è rivendicare alla cultura e alla tradizione dei Coluccio Salutati, dei Giovanni Pontano, dei Giovanbattista Vico un ruolo di alternativa all'antiumanesimo heideggeriano. Non l'avrebbe mai accettata l'Heidegger protagonista di un altro ricordo di Grassi, che risale al giorno del 1947 in cui andò alla casa di campagna del filosofo a Todnauberg, nella Foresta Nera, per prendere dalle sue mani il dattiloscritto della Lettera sull'urnanismo, che avrebbe pubblicato a Berna. «Era ancora un dopoguerra di fame» ricorda Grassi «e avevamo portato in regalo qualcosa da mangiare. La moglie di Heidegger, Elfriede, gli disse: “Non vorrai accettare cibo dai tuoi nemici!”: Heidegger restò un po' in silenzio. Poi prese solo un pacchetto di sigarette, per il fratello che lo aiutava battendo a macchina i suoi testi».



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