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Da Libro bianco.

Lo disse Croce

Sta per uscire l'edizione italiana di "Heidegger e il nazismo", libro che è stato al centro di numerose polemiche. Anticipiano qui la prefazione che l'autore ha scritto espressamente per ribattere alle critiche dei filosofi di casa nostra


La Reppublica, 6 maggio 1988


Victor Farias


La casa editrice Bollati Boringhieri sta per mandare in libreria «Heidegger e il nazismo» di Victor Farias (traduzione di Mario Marchetti pagg 372, lire 35.000), che al suo apparire ha suscitato e continua ancora a suscitare discussioni assai vivaci. Per l’edizione italiana Farias ha scritto una prefazione in cui risponde alle critiche degli studiosi di casa nostra e che non mancherà di accendere nuove polemiche: la anticipiamo qui per i nostri lettori. Farias sarà a Bologna (Istituto Gramsci) il 20 maggio per discutere il suo libro con Giacomo Marramao, Gian Enrico Rusconi ed altri ancora.

L’IDEA fondamentale che ispira questa prefazione non è nuova. I lettori vedranno che nel libro ho espresso la mia ammirazione per il giudizio di Benedetto Croce su Heidegger e il suo scritto fondamentale dell’epoca, il Discorso del rettorato. Senza avere accesso ad alcuna documentazione particolare, senza aver, fatto l’esperienza dei successivi sviluppi del fascismo tedesco in tutto il loro orrore. Croce vide nel 1933 il nucleo più profondo del discorso filosofico-nazista di Heidegger, l’esplicita intenzionalità del suo contenuto e la prassi politica che tale discorso di per sé esigeva. L’aspetto inquietante e tragico della situazione di allora consiste nel fatto che pochi seppero e vollero vedere quel che vide Croce e ancor meno furono coloro i quali lo espressero con la sua decisione e certezza.

«Un uomo indecente e servile» Benché l’accoglienza riservata al mio libro in Italia sia stata nel complesso positiva, credo mio dovere richiamare l’attenzione su alcune opinioni e correnti di pensiero che mi sembrano preoccupanti. In effetti è allarmante che, dopo quel che è successo con Heidegger, la Germania nazista e le sue vittime, sorgano voci che cercano di scusare nel suo compromesso nazista un filosofo che mai si è discolpato né ha provato il minimo interesse a farlo. Più ancora, in Italia, e non solo qui, si presentano filosofi che, in un modo o nell’altro, ci fanno pensare alle pericolose ambiguità di un pensiero che eviti di fare i conti con la storia. Filosofi che, posti di fronte al fatto che l’orrore è iscritto nel cuore stesso della filosofia di Heidegger, non hanno altra risposta che parlare frivolamente di «abissi affascinanti» (Derrida) o di un «pensiero debole» che conosce soltanto un gioco tanto irresponsabile quanto incoerente. Ricordare ancora una volta quel che vide Croce in Heidegger è importante. Anzitutto perché sia i critici sia gli estimatori del mio libro ne hanno ignorato sistematicamente il giudizio. Solo un giornale, La Stampa, ha fatto allusione a Croce nel titolo di un articolo di Jacques Nobécourt, riproducendo la sua protesta: Heidegger è indecente e servile! Questo giudizio si basava, nella Critica, su due elementi: 1) per Heidegger la filosofia, cioè un’attività essenziale dell’essere umano in quanto tale, è solo un affare tedesco, a vantaggio del popolo tedesco; 2) lo «storicismo» su cui si basa il suo discorso è rozzo nella sua affermazione etnocentrica e razzista e può realizzarsi soltanto come esercizio di una legge della giungla adatta solo a «lupi e volpi, leoni e sciacalli». L’unico attore che resta assente è ciò che rende l’uomo tale: la sua umanità. Il giudizio di Croce, altrettanto preciso che brillante, è molto severo. Ci offre, tuttavia, lo spunto per delimitare l’ambito della riflessione sul tema. In effetti, ignorare quel che ha detto Croce è qualcosa di molto più grave che squalificare un singolo esponente della filosofia italiana; e lo in quanto d punto di riferimento ultimo del suo giudizio è un dato d importanza primordiale. Accet tare come feconda e su estiva. una filosofia che sorge dalla discriminazione tra gli esseri umani. che non può né vuole vivere senza l'affèrmazione della superiorità essenziale del popolo dal quale è uscita. equivale innanzitutto a un controsenso. Più ancora che siano proprio gli heideggeriani stranieri a sol levarsi con più furia in difesa di un maestro che visse convinto dell' inferiorità essenziale di tali discepoli risulta senz'altro grottesco. Ma questa i solo una parte della responsabilità dei custodi del Graal. La cosa veramente grave e è il fatto che. dietro la difesa di una filosofia discriminatoria, c'è l'attacco — implicito o esplicito —alla prima condizione di possibilità di quel che è l'essere umano, un attacco che assomiglia molto al comportamento dei «bambini cattivi»: a parte che in questo caso l'orizzonte non è precisamente quello del gioco. Tutte le critiche al mio libro partono da una convinzione comune: bisogna separare l'uomo e l'opera. Paradossalmente. però, nel tentativo di farlo alcuni dei critici sono giunti a riaffermare proprio i principi che orientarono la prassi di Heidegger e non solo il suo pensiero. In effetti, e l'inumanità in atto che parla nelle affermazioni di Emanuele Severino: «Ma se la nostra cultura ritiene che il concetto di verità è un mito, allora diventa un mito anche il concetto di errore. L'errore politico viene a equivalere al modo di pensare e di agire del vinto. Il genocidio è errore politico ed etico perché sulla terra è vincente il tipo di società che lo rifiuta. Se si prescinde dal vero “pratico” che ha questo tipo vincente di società, non esiste una ragione teorica, cioè concettuale, capace di dimostrare che la distruzione dell’uomo è un errore». E ancora: «La condanna dlla violenza si fonda da ultimo sul fatto che la violenza condannata è la violenza perdente…» (Panorama, 8 novembre 1987). Davvero, quando dopo il 1945 i figli degli ebrei, zingari, cristiani, comunisti e socialdemocratici massacrati industrialmente nei campi di sterminio condannarono i loro assassini, stavano facendo uso della violenza dei vincitori? Erano proprio «vincitori», ed erano i «vinti» che ne subivano le conseguenze? Forse che per Severino la protesta dell’oppresso è l’espressione della sua superiorità? Un filo, non invisibile, unisce il giudizio di Severino con i documenti che recentemente hanno mostratoli vero volto di Jean Beaufret, l’ambasciatore di Heidegger in Francia rivelando la sua convinzione dell’inesistenza dei campi di sterminio. Anche per Severino questa mostruosità si può far sparire con una formula magica che consiste nel trasformare la verità in un «mito» Nel Mito del XX secolo, per esempio!

Soltanto il popolo tedesco Così la scelta di Severino non è quella di un pensiero debole bensì quella di un ideologo militante: «Per un individuo non ha senso mettersi contro il proprio tempo. Ha un senso dunque, l’inverso: mettersi in una realtà che incarna il percorso della storia. Il contrario sarebbe velleitario, illusorio (ibid.). Nel tentativo di giustificare questa opinione, Severino fa appello a Hegel, ma in realtà si ritrova pericolosamente vicino a Hitler. In effetti, che «senso» poteva avere allora la «storia» per un ebreo o per un abissino, e qual’era l’orizzonte del suo «mettersi”? O forse Severino negherebbe all’ebreo o all’abissino il carattere essenziale dell’essere umano, cioè il «mettersi» con senso nella «storia»? Non tutte le voci critiche sono a questo livello. Tuttavia, diversamente orientati, alcuni giudizi portano a conclusioni analoghe. Quando Gianni Vattimo vuol far valere che «la storicità di un’opera di pensiero è fatta anche e soprattutto degli effetti interpretativi che suscita, degli sviluppi cui dà luogo» (La Stampa, 21 novembre 1987) non solo sta argomentando a partire da uno storicismo come quello che attaccava Croce, ma anche e soprattutto si allontana dal tema della discussione: il carattere fondamentale della filosofia di Heidegger. Certamente nessuno potrebbe trasformare Heidegger in un «filosofo nazista» qualsiasi al livello di Rosenberg o Krieck: Ma neppure nessuno può mettere in discussione che la sua filosofia non è pensabile (prima di tutto da lui stesso) senza l’affermazione fondamentale che soltanto il popolo tedesco, la sua lingua e il suo spirito si trovano nella condizione ontologica e storica di porre e risolvere la questione dell’essere. Nessuno può disconoscere la sua convinzione che il passaggio dell’eredità greca ai romani fu «un evento che ancora oggi ci impedisce un sufficiente ripensamento delle parole-base del pensiero greco» (Intervista con lo Spiegel, p. 151). Fu nel 1943, in piena guerra mondiale, nella lezione su Eraclito, che Heidegger ripetè agli allievi la propria convinzione fanatica: «Il pianeta è in fiamme. La natura dell’uomo è scardinata. Il senso della storia universale può venire solo dai tedeschi, posto che essi trovino e serbino ciò che è tedesco». « La vera massima prova dei tedeschi deve ancora venire» resta da sapere «se sono in accordo con la verità dell’Essere, se al di là della disponibilità alla morte sono abbastanza forti per salvare contro la meschinità del mondo moderno il primordiale nel suo spoglio ornamento». Nella seconda parte di questa lezione, tenuta nel 1944, Heidegger chiamò i tedeschi «salvatori dell’Occidente», e per questo e molto tempo presumibilmente da soli». I miei critici vogliono anche vedere la grandezza di Heidegger nella sua riflessione sulla tecnica, nella denuncia dei suoi pericoli. Ma anche in questo caso modificano il pensiero del maestro, che invece fu sempre chiaro e conseguente. Nel corso su Nietzsche del 1940, quando iniziava le lezioni col saluto nazista, Heidegger disse agli studenti che in Germania stava nascendo «una nuova umanità, corrispondente in sostanza alla singolare essenza della tecnica moderna». Gravi sono anche le conseguenze suggerite dalla critica di Diego Marconi, che parte dallo stesso principio («il nazismo dell’uomo Heidegger non compromette il suo pensiero») e giunge ad affermare: «Se un grande filosofo è stato, non superficialmente nazista, questo rischia di significare che il nazismo è stato da un punto di vista culturale (!) un fenomeno di maggior spessore di quanto appaia dai roghi di libri di Goebbels o dai deliri razzisti di Rosenberg» (L’indice, gennaio 1988). Si rivede all’opera qui la stessa dialettica che sta dietro l’argomentazione di Severino: Heidegger è creatore di diritto: per il solo fatto di essere grande, il suo pensiero trasforma tutto quel che finora sapevamo del primitivismo nazista. La questione centrale conviene mai posta: non sarà proprio nel cuore di questa filosofia che risiede il primitivismo annunciato da Croce? Anche Alfredo Marini cerca di giustificare l’«errore» di Heidegger e lo fa con una descrizione storica allucinante: «I tempi non erano quelli in cui chi fosse impegnato moralmente, politicamente potesse pensare in termini retorici. Erano tempi veramente di decisioni drammatiche, soprattutto dato lo stato di corruzione degli strumenti stessi dell’attività e dell’orientamento politico e morale: una situazione di «emergenza» diremmo oggi» (Alfabeta, dicembre 1987). Hitler come salvezza di fronte al caos! La democrazia di Weimar come periodo in cui la ragione diventa retorica! Marini giunge così a descrivere il «rinnovamento » dell’università come un «luogo comune» di tutta la Germania di Weimar, senza distinguere in assoluto le scelte e occultando il fatto della brutalità terroristica delle bande S.A. nelle università per «rivoluzionarle». Per lui è tutta questione di «ottica», e persino il fatto di esigere da Heidegger una dichiarazione autocritica, come fecero tra gli altri Jaspers, Bultmann e Celan, per esempio, è per Marini un «atteggiamento sentimentale» di fronte al problema. Più ancora, per lui l’adesione di Heidegger al nazismo sarebbe stata un «assumersi il massimo della responsabilità», cioè, testualmente, ciò che Hitler stesso intende come base dei Führerprinzip! Tutti i fatti denunciati possono soltanto, per Marini, «scandalizzare l’uomo della strada».

Che strana idea di libertà Ma nemmeno in questo caso i difensori sanno che cosa difendono. Quando nella sua conferenza di Brema del 1949 Heidegger diceva che «in essenza » la «fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio» era la stessa cosa che «l’agricoltura» come «industria motorizzata della nutrizione», non si stava rifiutando di esercitare una autocritica serbando un cocciuto silenzio. Stava banalizzando in modo provocatorio e sinistro mostrando chiaramente che la sua filosofia non è in grado di tematizzare tutto un campo del reale che si riferisce all’etica, a un’etica che non sia quella dei «signori». Umberto Galimberti distingue, mistificando, tra l’«effettuale» e .’«enigmatica idea di verità che Heidegger, dal’inizio alla fine, propone come uno dei fondamenti del proprio pensiero». (Alfabeta, cit.). Risultato: la condanna che Heidegger fa della libertà nell’Università di Weimar, condanna che ne implicava l’assoggettamento alle bande delle S.A., non era altro che «un'altra idea di libertà», peraltro mai definita né da Heidegger né da Galimberti. Croce giudicò Heidegger indecente e servile. Come giudicherebbe quanti oggi, dopo Auschwitz vogliono giustificarlo? Non è più tempo di ripetizioni, e non è stato ancora trovato il termine che qualificherebbe questi atteggiamenti. Dietro lo heideggerismo agisce un disinteresse per ciò che è umano nell’uomo che, senza darlo a vedere, aggredisce giocando. Cercando di separare il pensiero di Heidegger dalla storia, e dalla storia così come egli la intese, i suoi «difensori» lo stanno falsificando in quello che è il suo momento essenziale. E’ comprensibile: Heidegger, e non solo lui, è diventato un giocattolo da montare e smontare – decostruire – e nessuno vuol perdere i propri giocattoli. Sarebbe terribile il destino di questo «pensiero» se l’«uomo che sogna di un uomo che sogna che sogna di un uomo che sogna…» (Borges) si svegliasse.


Due domande a Lévinas

Sul •caso Heidegger. I filosofi, non soltanto in Italia. sono molto divisi. Tra quelli che non hanno dubbi circa il suo filonazismo oltre a Jürgen Habermas (del quale abbiamo pubblicato nello scorso ottobre una intervista sull'argomento) c'è Emmanuel Lévinas. allievo di Husserl, uno dei massimi interpreti della cultura ebraica. oggi ultraottantenne. In un intervento che risale al novembre '87, al momento cioè in cui divampavano in Francia 1e polemiche provocate dal libro di Farias. Lévinas raccontò di essere venuto a conoscenza delle simpatie naziste di Heidegger addirittura prima del 1933, quando cioè Hitler non si era ancora impadronito del potere. E raccontò del trauma che gliene era derivato: possibile che tra «l’odio delirante e criminale urlato sulle pagine di Mein Kampf» e il vigore intellettuale di un uomo, Heidegger appunto, che gli appariva come uno dei massimi filosofi del nostro tempo, non ci fosse una «distanza incolmabile»?. Nello stesso scritto, Lévinas osservava che nessuna ricerca storica, nessun dato di archivio nessuna testimonianza possono uguagliare, per ciò che riguarda la partecipazione di Heidegger al «pensiero hitleriano», «la certezza che ci viene dal silenzio da lui mantenuto sulla soluzione finale» nel (famoso «Testamento», apparso dopo la sua morte sullo Spiegel. Perché, soggiungeva Lévinas, tutti gli altri delitti commessi dal regime hitleriano potrebbero ancora essere attribuiti alle inevitabili immoralità della politica: e tutte le forme di compromesso e di servilismo, frequentazioni ignobil i, dichiarazioni e azioni indegne, potrebbero venir messe in conto alla e viltà o alla «prudenza». Ma mantenere il silenzio, già in piena pace, sulle camere a gas... non è come un consenso dell’orrore? In occasione della traduzione italiana del libro di Farias, abbiamo chiesto a Emmanuel Lévinas se voleva aggiungere qualche altra cosa a quelle da lui già dette. Ci ha risposto che, prima di Farias, lui stesso aveva documentato la persistenza, fino all’ultimo, del filonazismo di Heidegger (per esempio il fatto che a Roma. nel 1936, in occasione di un incontro con Karl Löwith, malgrado la pretesa rottura col regime portasse sul petto una decorazione con la croce uncinata). «Che un genio come lui sia stato hitleriano è una cosa che io non gli perdono, che nessuno gli può perdonare». Altra domanda: Lévinas, ritiene che abbia ragione Farias quando dice che c'è coerenza tra l'adesione al nazismo e la filosofia di Heidegger? «Io penso a Sein und Zeit («Essere e tempo»), che è un classico, un libro anticipatore. Non è un libro politico per scorgervi riflessi del nazismo, bisognerebbe guardarlo molto da vicino, forse troppo, voglio dire con idee preconcette. La filosofia va molto al di là della politica. E tuttavia il “caso Heidegger” resta un dramma». Nello scritto del novembre ’87, aveva osservato: «è difficile riconoscere il diabolico: per farlo, occorre uno sforzo intellettuale. Chi può vantarsi di riuscire a tanto? Il diabolico è intelligente, s'infiltra dove vuole. Che volete? Il diabolico dà da pensare».



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