1880512IMA03

Da Libro bianco.

Come si esorcizza il totalitarismo di oggi

Heidegger


Il Manifesto, 12 maggio 1988


Giorgio Agamben


Il libro di Farias è tendenzioso, inintelligente e totalmente ignaro del pensiero che pretende giudicare; esso contiene, però, accanto a errori e travisamenti, dei fatti che è bene siano conosciuti da chi ancora non li conoscesse. Cercherò ora di spiegare perché non intendo parlarne in questa sede. Quando il libro fu pubblicato in Francia un anno fa, esso ha dato luogo a un dibattito che ha monopolizzato per mesi l'attenzione degli intellettuali e della stampa e che ancora non accenna a spegnersi. Curiosamente tale dibattito non ha contribuito in nulla a una maggiore comprensione del problema; esso è servito soltanto ad autorizzare qualche giornalista, che certo non aveva mai letto Heidegger, a dichiarare che evidentemente ora non era più il caso di leggerlo. Poiché fra le persone intervenute nel dibattito figuravano uomini intelligenti ed amici, era difficile per chi, come me, si trovava in quel periodo in Francia, reprimere l'impressione che l'accanimento nella discussione nascondesse un disagio di fronte a una realtà che era davanti agli occhi di tutti e che pure non si voleva ad alcun costo vedere. Questa realtà era che il clima politico e culturale del paese non era mai stato, da trent'anni, così irrespirabile e che, nella città in cui vivevamo, un arabo alla settimana veniva assassinato da una polizia le cui «sbavature» (singolare eufemismo che tutti ripetevano senza inorridire) il ministro degli interni aveva dichiarato esplicitamente di voler coprire. L'errore, di breve durata, di un filosofo tedesco nel 1933 funzionava così come un discorso di copertura (o, nel migliore dei casi, come proiezione distanziante) di fronte al fatto che, nel 1988, due francesi su dieci erano apertamente razzisti. La vittoria di Mitterrand non deve, da questo punto di vista, rassicurare: resta il fatto che, per la prima volta nell'Europa di questi anni un'elezione doveva decidere non fra destra o sinistra, ma fra il razzismo o la democrazia. Per quel che riguarda l'Italia, in cui ci si sente al sicuro da simili pericoli, nulla lascia pensare che le cose possano andare meglio. Il presupposto di un utile dibattito sarebbe stato la presenza, nella cultura italiana di un autentico confronto col pensiero di heidegger. Ora, un tale confronto semplicemente non esiste. Dopo il silenzio che ha pesato per decenni sulla sua opera, la maggior parte di coloro che, negli ultimi anni, si sono richiamati ad Heidegger, lo hanno fatto soltanto per trovarvi una cauzione per la pura e semplice abdicazione alle responsabilità della filosofia, quasi che il pensiero di Heidegger si riducesse ad alcune insipide tesi sul tramonto della metafisica o sulla fine della filosofia.

Se il problema dell'essere che Sein und Zeit intendeva riproporre fosse soltanto una sterile questione accademica o invece il problema decisivo dell'esistenza e della libertà; se l'Ereignis fosse solo il nebuloso pretesto mistico di esercizi ermeneutici o invece la possibilità più concreta di un'umanità giunta al limite più rischioso bella sua storia — ecco delle domande di cui si cercheà invano una traccia nel generale declino di ogni interrogazione propriamente filosofica. Mai un'epoca si è trovata così priva di pensiero e così impreparata di fronte a responsabilità tanto gravi. Poichè deve essere chiaro che non c'è attualmente in Europa alcuna forza, né politica né intellettuale né morale in grado non dico di opporsi alla rinascita del fascismo, ma anche soltanto di contrastare efficacemente, l'attuale, rovinoso indirizzo delle società occidentali. In nome di che cosa potrebbe farlo? Pochi anni sono bastati a fare il vuoto. Dopo aver ceduto in massa all'ideologia, gli intellettuali hanno approfittato del declino di questa per consegnarsi altrettanto entusiasticamente allo spettacolo culturale dei media. Trasformati in maestri di opinione, possibilmente con rubrica settimanale e fotografia, eccoli discutere, con aria compunta o gioviale secondo i casi, di questioni che sono sempre altri a porre all'ordine del giorno e che, comunque, non toccano mai l'essenziale. Nel giro di venti anni la cultura si è così trasformata in una gigantesca impresa di autorispecchiamento della merce. La rilettura delle pagine di Sein und Zeit sulla «pubblicità», la cui luce oscura tutto, mostra, in questa prospettiva, che esse non hanno perso molto della loro attualità. Quando appare un pensiero originale, che cerca in qualche modo di pensare alla radice il presente, esso è o totalmente ignorato (penso al singolare silenzio che è sceso sull'ultimo lucido tentativo di descrizione del nostro tempo, La societé du spectcle di Debord o, peggio, criminalizzato e esposto al linciaggio. In questa situazione, il modo più serio di riflettere su come la cultura europea abbia potuto cedere al totalitarismo di ieri è quello di riflettere su come essa stia cedendo al totalitarismo di oggi.



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