1880512IMA04

Da Libro bianco.

Esistenzialismo e barbarie

Farias gioca al ribasso, ed è seguito


Il Manifesto, 12 maggio 1988


Stefano Petrucciani


Libro che vanta il non invidiabile primato di essere stato moltissimo discusso e pochissimo letto, Heidegger e il nazismo di Victor Farias esce ora in traduzione italiana presso Bollati-Boringhieri. Nella polemica cui esso ha già dato luogo i giudizi, com'era inevitabile, si sono nettamente divaricati: per un Habermas che l'ha giudicato buono, ma quando l'aveva visto solo in parte, molti altri l'hanno liquidato come una cialtronata, non solo heideggeriani italiani come Vattimo, ma anche allievi di indiscussa statura come Hans Georg Gadamer. Ora, con in mano le trecento pagine dell'edizione italiana, proviamo a vedere con un po' di calma cosa in questi giudizi ci sia di vero, e quanto di sensato si possa salvare nella discussione di questi mesi, alimento prezioso per le stanche pagine culturali di quotidiani e periodici. Innanzitutto bisogna pur dire, a onor del vero, che i fatti relativi al nazismo di Heidegger, e le discussioni intorno ad esso, non sono certo una novità di quest'inverno: il problema, nel dopoguerra, era stato più volte discusso e dibattuto, soprattutto in Francia; i documenti principali del nazismo di Heidegger erano già ben noti, grazie soprattutto ai lavori di Guido Schneeberger, di Hugo Ott e di diversi altri studiosi. Il libro di Farias ha certamente il merito di aver approfondito l'analisi e di aver scavato in molti archivi, ma non mi pare che porti, sulla questione, degli elementi di novità che abbiano davvero un grosso rilievo. L'analisi che Farias dedica al periodo di più diretto impegno nazista di Heidegger (e cioè alla fase del rettorato friburghese, a cavallo tra il '33 e il '34) non presta il fianco, a mio avviso, a nessuna obiezione di sostanza. Anzi, essa critica efficacemente l'autorappresentazione che Heidegger ha dato di questi eventi, in due scritti che oggi sono anch'essi disponibili per il lettore italiano: l'intervista Ormai solo un Dio ci può salvare rilasciata allo Spiegel nel 1976 (Editore Guanda, 1987) e lo scritto sul rettorato che accompagna il famoso discorso del '33 su L 'autoaffermazione dell'università tedesca (Edizioni il melangolo, 1988). Heidegger sostiene in sostanza di aver assunto il rettorato quasi per salvare il salvabile, ed afferma persino che il suo discorso «venne inteso come se annunciasse un atteggiamento di opposizione», anche se poi non nega, evidentemente, le speranze che egli riponeva nel movimento nazista come chance per un rinnovamento del popolo tedesco. Rispetto a queste assai fragili autodifese, la documentazione che Farias presenta o riprende non lascia più margini di dubbio: il discorso heideggeriano (anche se tenuto sul registro di una certa ambiguità, che Farias preferisce non vedere) fu effettivamente un segnale importante nel processo di nazificazione delle università tedesche e come tale venne letto subito sia dai nazisti, sia dagli oppositori interni e esteri. Heidegger si identificò appieno con il nazismo inteso come rinnovamento radicale nazional-rivoluzionario, propose in questo contesto sue linee di adeguamento delle università e delle istituzioni culturali al nuovo corso, simpatizzò per l'ala nazista più radicale (le Sa di Rohm), denunciò al ministero colleghi politicamente invisi come il futuro premio Nobel Hermann Staudinger. Tenne inoltre molti discorsi di propaganda, tra cui spiccano quelli relativi all'uscita della Germania dalla Società delle nazioni e al plebiscito in favore di Hitler (novembre 1933); in essi insiste frequentemente (e tutti sanno che posizioni analoghe si svilupparono anche dal seno del fascismo italiano) sul fatto che la rivoluzione nazista è appena cominciata, anzi nelle università non è neppure all'inizio, e quindi la spinta rivoluzionaria del movimento, anziché acquietarsi, deve essere tonificata e rinnovata.

Si capisce bene, allora, come nel giro di poco tempo il nazionalsocialismo di Heidegger, che Farias definisce radicale, populista-rivoluzionario, non si trovasse più in perfetta sintonia con l'ufficialità del regime, che tra l'altro aveva bisogno di riallacciare, nell'università, un rapporto con settori accademico-conservatori. A partire dalla seconda metà del '34, perciò, dopo le dimissioni dal rettorato, si determina una situazione singolare : Heidegger, pur restando iscritto al partito nazista (ma non credo fosse una pratica molto diffusa, quella di restituire la tessera) ne sviluppa una critica larvata e in sordina, in nome di principi giusti che il nazismo avrebbe abbandonato; critica che gli procura diverse ostilità e qualche noia, ma che non porta a farlo considerare un vero e proprio oppositore, come invece Heidegger tenderà a sostenere nell'intervista allo Spiegel. Ma se il libro di Farias appare sostanzialmente utile e attendibile nella ricostruzione di questi fatti, peraltro in buona misura già noti, del tutto inutilizzabile è a mio avviso, la cosa va detta chiaramente, la lettura complessiva che Farias vuole proporre, e molto criticabile il metodo col quale costruisce la sua arringa. Cominciando dal punto di metodo, prendiamo ad esempio la questione dell'antisemitismo: Farias (che pure cita interventi di Heidegger in favore di professori ebrei come Fränkel, von Hevesy e Tannhauser) procede come se dovesse convincerci a tutti i costi dell'antisemitismo heideggeriano (peraltro negato da un testimone insospettabile come Herbert Marcuse. Ma come si può sostenere l'accusa sulla base di testimonianze vaghissime e discutibili, come quelle di Toni Cassirer e di un certo Petzet, mentre nessuna parola in tal senso è riscontrabile negli scritti propagandistici heideggeriani, pur prodighi di riconoscimenti al Führer? Perché insistere in associazioni indiziarle molto dubbie come Farias fa spesso e volentieri, quando i termini dell'adesione heideggeriana al nazismo (ma non all'antisemitismo) risultano invece da documenti certi? Insoddisfazione ancora maggiore suscita poi, almeno in me, l'impianto generale del libro. Un conto è evidenziare, e sollevare come problema da non rimuovere, l'adesione di Heidegger al nazismo; tutt'altra cosa, invece, è sostenere che, dal principio alla fine, l'evoluzione teorica di Heidegger resta fedele a una «matrice specificamente nazionalsocialista», ovvero che Heidegger è in quanto tale una filosofia nazista. Nel tentativo di rintracciare questa sostanziale continuità Farias si muove, va detto, con una goffaggine che sfiora il ridicolo: assolutamente risibile è il tentativo di inscrivere il percorso heideggeriano, nel suo insieme, sotto il segno dell'ammirazione per un ignoto monaco antisemita e antiturco, tal Abraham di Santa Clara; quasi illeggibili sono le brevi pagine dove Farias tenta di portare alla luce il nazismo implicito in testi come Essere e tempo o la conferenza su Hölderlin; semplicemente patetico è il pensare (come se non si fosse vissuta la storia del Novecento) che un filosofo politicamente compromesso (così come un letterato, un poeta ecc.) non possa lasciare una riflessione «feconda e suggestiva». Non Vattimo, ma proprio l'insospettabile Habermas ha sostenuto (in un'intervista recente al Corriere della Sera) che Essere e Tempo resta l'opera filosofica «forse più importante di questo secolo».

Non mi piace, insomma, chi con Farias conclude: è cattivo, perciò non leggiamolo più. Ma tantomeno mi convince, devo dire, la linea di difesa che hanno adottato, in questi mesi, gli heideggeriani buoni, «deboli» e ultratolleranti come Vattimo e Rovatti. (Nessuno comunque raggiunge le vette minimizzanti di Alfredo Marini, prefatore dell'intervista allo Spiegel, che arriva a sostenere che, quando il nazismo ebbe l'appoggio di Heidegger, non era ancora una dittatura: vedere per credere l'edizione Guanda, p. 22 e p. 59; lui se li merita, gli attacchi di Farias). Vattimo e Rovatti sostengono fondamentalmente la tesi che il pensiero di Heidegger è soprattutto un pensiero liberante, e che dunque l'adesione al nazismo o non ha nulla a che vedere con esso, eppure è addirittura con esso in contraddizione; ma così l'interpretazione monolitico-demonizzante di Farias viene semplicemente capovolta in una lettura «scissionista» che, se è possibile, è ancora più assurda della prima. Il radicale isolamento di vita e opera, pensiero teoretico e pensiero politico, non è solo un atteggiamento vetero-idealistico e paradossale, perché scinde l'unità inevitabile dell'oggetto d'indagine; è, soprattutto, assolutamente inapplicabile a un filosofo come Heidegger, che esplicitamente voleva pensare il proprio tempo e lo voleva pensare a partire dal suo «io sono» (come scrive in una lettera a Löwith del 1921). Entrambe le parti in causa, insomma, non sanno o non vogliono cogliere il vero problema che Heidegger ci pone; Farias perché crede di liquidarne la filosofia riducendola a nazionalismo fascista, sciovinismo, razzismo; Vattimo perché fa del nazismo un episodio isolabile, che alla fine proprio così risulta del tutto incomprensibile. La vera questione, evidentemente, è un'altra: è che Heidegger, che certamente è stato grande filosofo e anche grande interprete della sua epoca, e di cui dunque non possiamo né dobbiamo fare a meno, ha tuttavia anche scelto il nazismo, e non certo da ingenuo o da sprovveduto; che questa scelta si radichi e si motivi anche nella sua riflessione, non è certo cosa che si possa negare. Perciò quel che Heidegger ci lascia da pensare, tra le altre cose, è un problema che peraltro non coinvolge solo la sua figura: come è possibile che una delle più grandi filosofie di questo secolo abbia potuto produrre, dal suo interno, una complicità con la peggiore e più inumana barbarie? Ma se la domanda è questa, allora onestà impone di concludere che né il libro di Farias, nè la discussione da esso suscitata, si sono neppure avvicinati a una risposta soddisfacente.

Victor Farias, Heidegger e il nazismo, Bollati Boringhieri 1988, pp. 308, L. 35.000



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