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Da Libro bianco.

Il suo «Essere e Tempo» può far dimenticare quel discorso nazista?

Cent’anni fa nasceva Martin Heidegger uno dei maggiori pensatori del Novecento


Il Giorno, 26 settembre 1989


Angelo G. Sabatini


Il Centenario della nascita di Martin Heidegger costituirà un’ulteriore occasione di riflessione sul ruolo che il massimo filosofo del Novecento ha svolto nella crisi della filosofia moderna, na anche il ritorno di una discussione sul suo rapporto col nazionalsocialismo. Due punti privilegiati di incontro che un lettore di Heidegger può realizzare col pensatore più discusso e più chiosato del dopoguerra.

Per il primo, le polemiche hanno come riferimento obbligato «Essere e Tempo» (1927) e la vasta produzione a esso seguita (specialmente «Kant e il problema della metafisica», «Dell’essenza del fondamento», «Dell’essenza della verità», «Commenti ad Hölderlin», «La dottrina platonica della verità», «Lettera sull’umanesimo», «In cammino verso il linguaggio», «Nietzsche») e possono avere il tono di una discussione di storiografia filosofica, dal sapore tutto accademico.

Per il secondo, invece, chiamando in causa la scelta politica di uno scrittore così distante dagli interessi collettivi, la discussione ha assunto e continua ad alimentare il tono di una querelle che si pone ai bordi di una scomposta veemenza. Come accade per altre dispute culturali, anche quella che coinvolge Heidegger si avvantaggia del beneficio della forte risonanza dei mass media, portati a privilegiare temi di facile presa sul pubblico. Il «caso Heidegger» sollevato dalla pubblicazione del libro di Victor Farias, «Heidegger e il nazismo», è pienamente adatto allo scopo. Ma non è solamente questo. Il fatto è che su tale disputa, di sapore politico, gravano due elementi. C’è la delusione di chi era abituato a colloquiare con un Heidegger tenuto nella rarefatta atmosfera di un pensiero alimentato di metafisicheria, anche se destinatosi al ruolo del più accanito critico della metafisica, e tirato giù, d’improvviso, nella poltiglia dell’impegno politico. E c’è l’ipotesi di chi interpreta la «svolta» nella riflessione di Heidegger (di cui egli stesso ha parlato nella «lettera sull’umanesimo»), attuata subito dopo «Essere e tempo», come conseguenza e ragione dell’adesione del filosofo al nazionalsocialismo.

Sul binario di tali motivi si è collocata l’accentuazione dell’interesse di questi anni per la dimensione politica di Heidegger. Un interesse, in verità, superiore all’effettivo ruolo della politica, nell’architettura del suo pensiero.


Massimo interprete della crisi filosofica occidentale A parte il senso della «svolta», di un presunto mutamento di indirizzo, neppure un accorto lettore riuscirebbe a individuare un vero e proprio luogo della meditazione heideggeriana per la politica. La breve parentesi «nazista», rappresentata dal molto citato discorso pronunciato in occasione della nomina a rettore dell’Università di Freiburg, nel 1933, non è certamente la traduzione di una visione heideggeriana della società politica, quanto piuttosto l’incombenza di un omaggio ad un incarico ufficiale che nel discorso di un filosofo come lui non poteva non assumere toni e rilevanze di sapore fortemente culturale.

Ciò che non va trascurato, in questa disputa, è quel momento della cultura tedescain cui si discorre della «patria perduta» che un filone di pensiero, esteticheggiante e fortemente decadentistico, aveva identificato con la mitica Grecia. La «grecità» era diventata il mito del «senso perduto», dell’unità frantumata; nel tempo si era configurata come la romantica categoria dell’Heimat (terra natia) da difendere in un’epoca di distruzione delle tradizioni ad opera dell’economia, della tecnica e dei mezzi di comunicazione di massa.

Dentro il discorso del 1933, «L’autoaffermazione dell’università tedesca», Heidegger riversava direttamente o indirettamente il ruolo etico-politico ei un germanesimo che, senza scandalo, si ritrovava in quel filone di forti tempre di intellettuali che avevano a paladini Schiller, Hölderlin, Nietzsche e tanti altri minori. Il primo nazionalsocialismo aveva sedotte molti con la promessa di salvare l’Heimat. Ben presto gli spiriti più accorti e illuminati intuirono, prima, e constatarono, poi, che il nazismo stava stravolgendo la categoria culturale di Heimat con quella biologica di «razza». La missione storica della Germania perdeva il sapore di un impegno etico-politico per assumere l’altro, molto pericoloso, di potenza militare.

Il distacco divenne inevitabile e Heidegger riprendeva, dopo un silenzio dettato dalle circostanze, il suo viaggio speculativo entro cui la politica non troverà diritto di vera cittadinanza.

Il problema del rapporto di Heidegger col nazismo continuerà ad essere un boccone giotto delle celebrazioni di questo giorno. Ci si allontanerà ancora di più da quel sano proficuo lavoro di interpretazione che in Italia ha dato ottimi risultati ad opera di studiosi fortemente impegnati quali Pietro Chiodi, Enzo Paci, Luigi Pareyson, Cornelio Fabro, Emanuele Severino, Gianni Vattimo e Giorgio Penzo. A costoro si deve lo sforzo di ridurre ad unità e pensiero, come quello di Heidegger, che per sua natura e per suo destino ha rappresentato l’indicatore più forte di un sentimento diffuso della crisi che la filosofia occidentale si ritrovava a vivere, sulla scia di un processo di decostruzione delle categorie metafisiche, caratteristiche delle tradizione platonico-aristotelica. Una crisi che Heidegger ha interpretato e favorito coniugando il rigore descrittivo di un’analisi fenomenologia della condizione temporale dell’uomo con le arditezze interpretative del senso e destino della cultura e civiltà europee elaborate da Nietzsche: lo scrittore cui Heidegger ha dedicato l’opera forse più importante dopo «Essere e tempo». L’Heidegger che deve interessare è questo; l’altro il politico, è marginale.



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