1891111IXX

Da Libro bianco.

Il punto sul caso Heidegger

MondOperaio, 11 novembre 1989


Sergio Benvenuto


Ancor prima che si profilasse la distensione tra le due superpotenze, già gli intellettuali - e i filosofi in particolaire — stavano creando tra loro un clima di coesistenza pacifica. E questo persino in Italia, dove invece dagli anni '50 fino agli inizi degli '80 avevano dominato i manicheismi. Oggi intellettuali provenienti da contrapposte sponde politiche dialogano in modo spregiudicato. Cacciari si interessa a Jünger e ad Evola, Toni Negri scrive un libro su Gentile, la rivista di sinistra americana «Telos» dedica un numero speciale a Carl Schmitt, il MSI scopre Pasolini, il sinistrorso (ed ebreo) Derrida scrive un libro sul decostruzionista Paul de Mans, a suo tempo nazista (creando un «caso» clamoroso in America), eccetera. Questo perché non riescono più ad esser visti i confini stessi tra l'essere a sinistra o a destra; e in questo clima R. Rorty può dichiarare (nell'«Herald Tribune», 13 aprile, In US schools, a move to soften accent on Europe), con un'espressione purtroppo intraducibile in italiano, «as usual, the left is shoving us in the right direction».

Questa smobilitazione delle trincee non investe solo i colori politici degli intellettuali, ma soprattutto i loro «partiti» filosofici e stilistici. I filoni di pensiero riescono non solo a vedere la trave nell'occhio dell'avversario, ma anche la pagliuzza nel proprio (ben sapendo, come l'infortunio nazista di Heidegger ci insegna, che certe pagliuzze filosofiche diventano presto travi storiche.)

Da oltre mezzo secolo il mondo filosofico occidentale si era diviso in due «imperi» reciprocamente impenetrabili: da una parte, egemone nei paesi anglosassoni e scandinavi, garantita dal Sacro americano impero, la filosofia analitica, nel doppio «dialetto» pragmatista e positivista, assorbita da questioni di logica e di epistemologia delle scienze, e per lo più disinteressata della politica; dall'altra, con epicentro alcune università tedesche e Parigi, dominata dal Deutsche Reich filosofico, straripava la tradizione che va da Nietzsche a Heidegger, fino a Derrida, Gadamer e Foucault (fenomenologia, esistenzialismo, post-strutturalismo, ermeneutica, ecc.).

Da qualche anno però la cortina di ferro tra i due imperi si sta indebolendo, le carte si mescolano, meticci del pensiero che non rispettano le giurisdizioni territoriali ascendono come nuove stars. Da una parte proprio sul terreno più esclusivo della tradizione analitica — la filosofia della scienza — sta fiorendo tutta un'epistemologia «romantica» che rivaluta il relativismo storico (Kuhn, Sellars, Hanson, Feyerabend); Rorty, formatosi nella tradizione analitica americana, dichiara il suo debito nei confronti di Heidegger, e tenta una combinazione tra filosofia analitica ed ermeneutica. Il premio Nobel in biologia Prigogyne decreta la fine della separazione tra «le due culture» (umanistica e scientifica), e sviluppa una teoria delle «forze dissipative» ispirata senza vergogna allo spiritualismo di Bergson.

D'altra parte, la cultura euro-continentale si apre alle scienze umane e naturali, alle teorie sistemiche della mente per esempio. Non è il trionfo della confusione e dell'eclettismo, ma il segno della perdita della fede in opposizioni ormai troppo rigide.

In questo clima di distensione e rilassamento dei muscoli intellettuali esplode però la polemica — soprattutto in Francia attorno al libro di Farias Heidegger e il nazismo. In apparenza è una «guerra» scatenata dalla filosofia bene o male «razionalista» non tanto per condannare Heidegger, in contumacia, quanto i rampolli vivi e vegeti dell'heideggerismo: il post-strutturalismo francese e il decostruzionismo americano, il «pensiero debole» nostrano e i corifei dell'ermeneutica, Cacciari e il marx-heideggerismo.

Il quadro si ingarbuglia quando però notiamo che critiche decisive al filosofo di Freiburg provengono anche «da sinistra», e in particolare da chi «heideggereggia». Parrebbe anzi che il ripensamento critico del pensiero di Heidegger sia iniziato, prima del libro di Farias, proprio da parte di Derrida e dei suoi allievi, «nipotini di Heidegger». L'ultimo lavoro di Derrida, De l'Esprit, è una critica serrata dei residui ancora spiritualisti ed «umanistici» di Heidegger. In altre parole, secondo Derrida, ciò che spiega il nazismo e il conservatorismo di Heidegger non sono i motivi antiumanistici, il suo irrazionalismo romantico (come pensano i critici liberal-razionalisti), ma proprio i residui umanistici, la permanenza delle categorie idealistiche del Geist e quindi della metafisica ottocentesca nel suo pensiero, pur così «decosiruitivo» di questa metafisica. In altre parole, occorre essere più heideggeriani di Heidegger per sfuggire alle sirene ideologiche totalitarie.

Altri sono intervenuti nella querelle per far notare il lato sospetto di essa. Per esempio Richard Rotry (Prendere sul serio la filosofia, in «Aut aut» n. 226-27/1988) scrive « è credere che acquisire notizie sul carattere morale di un filosolo sia utile per valutarne la filosofia, Ciò non serve affatto, non più di quanto conoscere il carattere di Einstein ci aiuti a valutare la sua fisica. [...] Van Gogh, Keats e Einstein erano brave persone; Wagner, Milton e Newton no. Tra i filosofi, B. Russell era un uomo per bene [...], ma ricavò la maggior parte delle sue idee buone (contrariamente a quelle cattive, derivate dall'empirismo inglese) dal grande inventore della semantica formale, Gottlob Frege; un vizioso, antisemita e protonazista. Paul Tillich parlava nello stesso gergo dell’"autenticità che Heidegger aveva adoperato […]; tuttavia Tillich era un onesto ed un buon socialdemocratico, ecc.». E quindi «l'unico motivo per cui crediamo che possedere un carattere moralmente positivo sia più importante per i professori di filosofia che per i professori di altre materie è che "filosofo" viene usato come il nome di un essere umano ideale: che riunisce perfettamente in sé sapienza e bontà». In altre parole, dietro lo «scandalo Heidegger» vegeta una vecchia idea sublime della filosofia che resiste alla secolarizzazione. «Nec philosophia sine virtute est, nec sine philosophia virtus», come diceva Seneca. Che un grande scrittore come Pirandello sia stato fascista, o un grande fisico come Heisenberg nazista, non crea eccessivi turbamenti. E' unicamente la poca saggezza dei filosofi che ancora pare scandalizzare. Il che rivela – anche tra pensatori che attaccano Heidegger in nome di valori «modernisti», positivistici, antidealistici – un pregiudizio che fu fatto proprio dall’idealismo, e che qualificherei di concezione dell’armonia olistica supposta; vale a dire, per spiegarla in soldoni, l’idea secondo cui una donna buona e intelligente in qualche senso deve essere anche bella e mai brutta, secondo cui un pensatore che ha scoperto qualcosa di vero deve essere anche un galantuomo, eccetera. Quando Croce, per fare un altro esempio, sostiene l'unità di forma e contenuto nell'arte — in breve, l'idea secondo cui una grande opera d'arte deve per forza essere moralmente e politicamente edificante — applica questo wishful thinking che prende per unità armonica effettiva una propria esigenza spirituale. Rompere con l'idealismo significa prima di tutto questo: non far coincidere il reale e il razionale, e quindi ammettere che un grande pensatore possa essere un mascalzone, e viceversa.

Il fatto nuovo, però, è che queste aspettative di armonia olistica stanno cambiando. Sembra che l'attuale fortuna della filosofia, in particolare tra i giovani, per lo meno in Italia, non si basi sull'attesa un po' infantile che il grande pensatore ci indichi la strada della saggezza e della felicità. Forse i giovani stanno scoprendo che il filosofo può essere affascinante anche se fallisce in quanto curatore di anime. Come un tempo al poeta si concedeva la malinconia, la tisi, l'alcolismo, o l'imbranataggine, oggi si cominciano a concedere al filosofo le sue eventuali debolezze — politiche o private che siano. (Non a caso è oggi di moda in Italia Michelstaedter, dimenticato per decenni dalle storie della filosofia italiana. A questa sua fortuna non nuoce il fatto che egli si sia ucciso giovanissimo. Nessuno legge quel suicidio come un’ammissione di fallimento della sua filosofia). Il filosofo appare errante come tutti noi, «umano troppo umano» anch’egli.

Per altri invece l'opzione nazista di Heidegger ci fornisce una chiave per il suo pensiero; essa metterebbe a nudo questo pensiero, il cui fascino rischia di accecarci sulle sue inevitabili conseguenze totalitarie. E' la tesi sostenuta per esempio, e proprio su chuesto mensile, da Dante Argeri (Heidegger e il nazismo, in «Mondo Operaio», dicembre 1987); e in modo sistematico, in Francia, da L. Ferry e A. Renaut (Heidegger et les Modernes, Grasset, Paris 1988; Heidegger in Francia, in «Lettera Internazionale», febbraio 19891). Questi critici sono colpiti da questo dato di fatto: nei paesi in cui l'heideggerismo ha fatto veramente breccia — la Francia e l'Italia (molto meno la Germania) — esso è stato recepito dalla cultura della sinistra radicale, marxista negli anni '60 e '70, per lo più liberal-ecologista negli anni '80, (Resta comunque da spiegare perché Heidegger sia risultato sostanzialmente estraneo proprio alla destra totalitaria, anche a quella culturalmente più sofisticata. Come suggerisce M. Perniola, dovremmo piuttosto chiederci «perché il nazismo non è stato heideggeriano?»). Il pensiero di Heidegger si presterebbe efettivamente a scelte totalizzanti sul piano esistenziale, e totalitarie sul piano politico, si schierino esse a sinistra oppure a destra.

Ferry e Renaut dicono: sta avvenendo nella cultura latina con Heidegger quello che dieci anni prima è avvenuto con il marxismo; vale a dire l'inizio del declino. Come ad un certo punto l'esistenza pratica del Gulag ha aperto gli occhi anche sulla teoria marxista, così la compromissione di Heidegger con il nazismo sta aprendo gli occhi sulla filosofia heideggeriana. Altri, al contrario, vedono tutto questo linciaggio come l'ultimo colpo di coda di una cultura neo-razionalistica contro l'ascesa impetuosa del pensiero heideggeriano, financo nei così poco tragici Stati Uniti. Questa analisi, che possiamo chiamare liberal-razionalista, sottolinea così che l'attuale convergenza tra l'ex «68-pensiero» sinistrista e il pensiero conservatore radicale — Nietzsche, Spengler, Schmitt, Heidegger, Jünger, ecc. – non sarebbe quindi dovuta, come abbiamo suggerito, al rifiuto della «guerra fredda» tra le filosofie, ma ad un’affinità profonda tra queste filosofie. In ambedue i casi si attacca in sostanza la modernità, e tutto ciò che la caratterizza – razionalismo scientifico, democrazia fondata sull’individualismo, priorità dei diritti dell’uomo sull’olon sociale, secolarizzazione e divinizzazione della vita, capitalismo mercantile, cultura di massa – in nome di una verità più originaria, di una nostalgia (a destra) o di una speranza (a sinistra) per una società non fondata sui valori della soggettività «borghese». Che si tratti di nostalgia o di speranza, comunque è il presente che viene condannato.

Il guaio è che alla base di questa sottolineatura – in parte corretta – c’è però un adagio imparato sui banchi di scuola: «gli estremi si toccano». Da questo alla deduzione «la verità sta sempre nel mezzo» (e quindi nel centrismo!) il passo è breve. E’ interessante allora che un democratico convinto, ed «americanista», come Rotry, critichi questa critica alla matrice antimoderna degli heideggeriani accusandola di essere essa stessa, senza accorgersene, alquanto antidemocratica. Il suo vizio è il «fondamentalismo», «il presupporre – scrive Rotry – che chiunque non sia d’accordo con una data dottrina religiosa o filosofica costituisca un pericolo per la società democratica. Nessuna specifica dottrina, presa per se stessa, è granchè pericolosa, mentre lo è l’idea che la democrazia dipenda dall’adesione ad una di tali dottrine». Il paradosso è che i critici democratici di Heidegger finiscono col risultare i più pericolosi antidemocratici. In questo senso il totalitarismo non è il carattere specifico di alcune teorie, per quanto opposte: è come una sorta di compiacimento – ad un tempo etico e metafisico – che attraversa tutte le ideologie, anche il liberalismo democratico. Compiacimento che attraversa lo stesso uomo Heidegger, ancor prima forse del filosofo Heidegger.

(Di passaggio, qui Rotry ripropone uno dei grandi problemi e paradossi della filosofia politica moderna: «una democrazia cessa di essere tale quando proibisce partiti antidemocratici? [E’ ad esempio democratica la Costituzione italiana quando proibisce il partito fascista?]. E se la democrazia moderna fosse costituita da partiti e forze in maggioranza antidemocratici, e comunque antimoderni? Se la democrazia non fosse altro, in ultima istanza, che un modus vivendi tra fascismi, e che quindi non esiste un’ideologia dai contenuti democratici, ma solo l’accettazione de facto di forme democratiche, in quanto tali vuote di contenuti?»).

Secondo i «democratici antifondamentalisti» come Rotry, la critica (di Ferry, Renaut, Argeri, Colletti) agli «opposti estremismi» pecca insomma di quel dogmatismo che essa vorrebbe programmaticamente estirpare. Essa parte dall’idea maniachea secondo cui da due o tre secoli a questa parte l’Occidente sarebbe agitato da una lotta ricorsiva tra le luci e le tenebre, tra un pensiero liberal-modernista e un pensiero che denuncia la modernità. Grosso modo, la lotta illustrata in Il nome della rosa tra il progressista Guglielmo di Baskerville e Jorge, non a caso cieco, vecchio, spagnolo e assassino. Marx Heidegger sarebbero le incarnazioni filosofiche del tenebroso Jorge.

Ora, questo modo di vedere è ingenuo perché vede solo la faccia appariscente della luna della modernità; essa non vede che la nostra moderna Kultur è un prodotto spurio e multicolore come certi gatti bastardi. In parole povere, è una combinazione di critica illuminista della tradizione e di senso romantico della storicità. Mi pare chiaro - come sottolinea anche Argeri nel suo articolo – che Heidegger si rifà, direi visceralmente, alla grande tradizione romantica tedesca, che egli ha contribuito a ri-attualizzare (se non altro attraverso le sue riletture di Hölderlin e di Nietzsche). Ma l’arcaismo dei contenuti o dello stile è davvero incompatibile con il modernismo? Gli storiografi positivisti devono ancora spiegare come uno spirito medievale, un vecchio barbogio quasi ai confini della civiltà, come Lutero, sia all’origine della più importante modernizzazione spirituale del proprio secolo. L’incantatissimo Lutero, che veniva tentato spesso da un demone puzzolente con la coda, ci appare oggi non meno moderno del disincantatissimo Machiavelli suo contemporaneo. Opera qui qualcosa che potremmo chiamare astuzia della modernizzazione.

L’illuminismo, per continuare ad essere credibile, ha dovuto man mano metabolizzare una quantità di valori romantici. Innanzitutto, il senso della storicità e una buona dose di ciò che gli americani, con affascinato orrore, chiamano cultural relativism. Possiamo essere illuministi e cartesiani quanto vogliamo, tutti riconosciamo – grazie ad un incombente senso della storia che a cicli si riacutizza, come certe artrosi si risvegliano con il freddo – che la storia fa l’uomo più di quanto l’uomo non faccia la storia. Dietro l’attuale ciarlare francese sulla complessità, sulla vulgata di E. Morin, che si annida se non la ricorrente consapevolezza, dopo sbronze festive di volontarismoe di decisionismo, che la nostra storia «feriale» ci pianifica molto più profondamente di quanto noi possiamo progettare la nostra storia futura? In questo senso i «romantici» Vico e Hegel hanno corrotto, temo/spero irreversibilmente, la nostra volenterosa in genuinità illuministica.

Se andiamo a vedere più da vicino, scopriremo difatti che molti aspetti delle scienze umane e del nostro scientific way of life non sono altro che razionalizzazioni di gusti e valori essenzialmente romantici. Si prenda ad esempio la moderna antropologia culturale. L’apparenza cartesiana dei suoi algoritmi e metodi di indagine copre a malapena il presupposto romantico di gran parte dell’antropologia, strutturalista o meno: l’idea che le società selvagge o arcaiche siano società autentiche, che esse siano più vicine ad una storia di verità elementare della socialità, verità offuscata e alienata nelle società «storiche».

Ora, tutta la riflessione heideggeriana sulla verità – come disvelamento, non nascosto, apertura, radura che si apre nel fitto bosco – riprende la rivendicazione romantica dell’autenticità, in quanto distinta dalla verità scientifica come concordanza del discorso con le cose. Passione che noi tutti abbiamo ereditato – tutti noi difatti, anche se siamo popperiani, preferiamo per esempio un’«autentica» città medievale come Urbino o Brugge alle finzioni di plastica di Dysneyland; tutti noi preferiamo una buona cucina popolare genuina agli hamburgers di gomma di MacDonald. In tutti i campi elogiamo la spontaneità autentica, la creatività geniale svincolata da ogni burocratica angustia, aborriamo nei rapporti umani, la repressione o rimozione dei nostri desideri profondi; insomma celebriamo le «ragioni del cuore» anche contro la ragione.

Da questa tradizione romantica tedesca Heidegger deriva anche il suo (certo complesso, e non riducibile alla caricatura che ne fanno alcuni, come Franco Rella ad esempio) antiumanismo. I grandi romantici sono stati spesso antiumanistici, e questo non perché fossero sempre totalitari o pangermanisti. La loro ossessione per l’infinito era un modo per mettere in luce come nell'uomo si sviluppino tendenze «sublimi» che lo portano fuori di sè, che non lo riducono mai ai suoi limiti «umani», a quell'insieme di convenzioni che noi chiamiamo umanità. Heidegger, facendo dell'uomo prima di tutto «il pastore dell'essere», ha ridato una nuova gioventù alle vecchie insofferenze romantiche.

Ma l'antiumanismo, se inteso come richiamo ad una verità che nobilita l’uomo in quanto questi ne ha cura, è un’esigenza che dopo tutto anche un positivista realista può condividere: l’uomo non è visto solo come una macchina per soddisfare i propri bisogni e desideri, non coglie del reale solo ciò che gli fa comodo, ma ha un rapporto di custodia, di salvaguardia, con qualcosa che trascende i suoi umani appetiti — questa trascendenza Heidegger la chiama l'Essere. Perciò la dialettica romantica dell'umanismo in in Heidegger non è riducibile agli slogan totalitari di nazisti, staliniani, ed althusseriani. Per lui è in quanto quanto l’uomo trascente l’umanismo che egli è autenticamente uomo. Insomma, quella di Heidegger è pur sempre una via, anche se romantica, di lotta al nichilismo, contro cioè una visione dell’uomo come prigioniero della propria solitudine, rinchiuso nell'egoismo della sua cieca «umanità». Esigenza etica che non mi sembra tanto diversa da quella di «realisti» come B. Russel o H. Putnam, per esempio.

Così, i razionalisti scientisti che attaccano, armati magari del ghigno di Voltaire, l’«irrazionalismo heideggeriano», rischiano di commettere la stessa svista di William Wilson, l'eroe dell’omonimo racconto di E.A. Poe: questi, quando riesce ad uccidere in duello il suo sosia persecutore, realizza che in qualche modo ha fatto tuori anche se stesso. Possiamo anzi trovare in Heidegger - e soprattutto in quello più tardo - una remora spirituale al totalitarismo, sia ideologico che etico. La sua «critica» della civiltà tecnica è difatti una critica al progetto totalizzante della modernità tecnologica, che lui fa tuttuno con l'essenza della metafisica occidentale tea al dominio totalitario del soggetto cartesiano sugli enti. Heidegger ha visto nei grandi progetti pianilicatori — così cari ai totalitarismi, di destra e di sinistra — l’apogeo della metafsica, dimentica completamente dell’Essere. (E’ davvero strano, anzi, che la critica di Heidegger non sia stata fatta propria dal pensiero «verde», che più degli altri denuncia la centralizzazione autoritaria della società tecnologica. Non a caso la scrittura Heideggeriana abbonda di metafore agresti: essa è tutta una meditazione che denuncia ilmondo tecnico come effetto di un oblio antico e radicale. A meno di non sostenere che c’è un filo diretto da Hitler ai Grüne, vedrei Heidegger più come filosofo ufficiale degli ecologisti che di Le Pen. Forse solo la compromissione fascista di Heidegger ha impedito questo connubio).

Di un heideggeriano come Sartre, ad esempio, si indica a dito la sua complicità con lo stalinismo totalitario in certi anni. Perchè non si fa più notare che l’heideggeriano Sartre, nei limiti di quella sua opzione «epocale» per il marxismo allora dominante, limitò pur sempre i danni del Dia.Mat. (del materialismo dialettico), dell'ottusità bovina del marxismo francese infeudato ad un PCF dogmatico? Surrealisti, artisti, avanguardisti, anarco-libertari, ecc., all'epoca resistettero molto meno di chi aveva letto Essere e tempo alla sirena millenaristica dell'ideologia sovietica.

Dunque, la perdurante fortuna di Heidegger segnala che non c'è un progressivo trionfo dell'illuminismo e del razionalismo, per la semplice ragione che la nostra concreta modernità non è solo illuministica, ma è il futuro di una tensione continua e — per fortuna – irrisolta (e forse irrisolvibile) tra pulsione illuministica verso l'universalità della ragione e pulsione romantica regressiva verso l’autenticità e la storicità (in quanto l'autenticità non può darsi fuori del tempo, ma solo all'interno delle particolarità storiche in cui viviamo). Questa tensione, o discordia, questo plemos, costituisce forse la vera creatività, dinamica e dominatrice, delle società più moderne. Perciò noi moderni, che della ragione illuministica facciamo la nostra ubris; la nostra romantica smisuratezza, possiamo dire di noi stessi quello che i Corinzi, secondo Tucidide, dicevano già degli Ateniesi: «Sono nati per non essere mai in pace con se stessi, e per impedire di esserlo al resto dell'umanità». Per portare un esempio tra tanti. L. Colletti, in un suo recente intervento (Sull’anomalia tedesca, in «Lettera Internazionale» n. 19, inverno 1988-89), sottolinea il carattere antimoderno, sostanzialmente nostalgico-regressivo, della grande cultura tedesca, e soprattutto di quella romantica. Se il pensiero illuminista moderno e fiorito soprattutto in Francia e in Inghilterra, «il grosso della cultura tedesca [eccetto Kant] è una rivolta contro quell'Occidente che non è soltanto un punto cardinale ma è appunto la società degli scambi e dei commerci, lo Stato rappresentativo moderno, lo Stato parlamentare, la scienza moderna, il non organicismo della società moderna e cosi via». Giustissimo, c'è un fondo medievaleggiante, Blut und Boden, nella cultura germanica, querula contro la modernità e critica del progresso. Ma ciò che Colletti non ci spiega è come un paese come la Germania, intriso di questi motivi antimoderni, sia oggi il paese europeo con l'industria più efficiente e con lo Stato più moderno, certo più avanti — nelle performances economiche e nella produzione scientifica — di quella Francia e di quell' Inghilterra che hanno partorito le ideologie più moderniste. Insomma, pare non esserci un rapporto lineare, di corrispondenza biunivoca, tra filosofie moderniste e modernizzazione di fatto. E se avesse allora ragione Heidegger nel leggere tutto quel romanticume germanico (da Lutero fino a Wittgenstein, come precisa Colletti) non superficialmente come un nostalgico rifiuto del mondo capitalistico moderno, ma al contrario come la visione del mondo più adeguata alla moderna volontà di potenza, come espressione spirituale più consona al progetto di dominio scientifico crescente sull’essente. Per chi scrive, è un incubo il solo pensare ad un mondo fatto tutto di ragionieri positivisti, da cui sia stata estirpata ogni passione romantica e heideggeriana, come rabbrividisco alla sola idea di una cultura omologata da un «heideggerese» che, come le alghe nell'Adriatico, prolifichi senza intralci.

Che cosa salvare, malgrado tutto, di Heidegger? Direi una certa scontentezza nei confronti del mondo moderno — ciò che Freud aveva chiamato Unbehagen, disagio, nella Kultur, nella società civile. Perché questa scontentezza è parte integrante del dinamismo della nostra civiltà. Certo, una profonda insoddisfazione nei confronti del mondo così come è può portare a soluzioni molto varie — al fascismo o ad un abbonamento al «Manifesto», ad un culto satanico torinese o all'uso di sostanze stupefacenti, ad una lunga psicoterapia o ad un impegno ecologista, ecc. Ma, qualsiasi sbocco si darà a questa insoddisfazione per il proprio mondo, è importante comunque che essa venga salvaguardata, conservata e tolta (aufgehoben), proprio per dare sempre nuova linfa alla nostra civiltà che non vuol mai invecchiare.

Occorre isomma riconoscere quella che chiamerei la dialettica della modernizzazione e della scontentezza. E’ vero, la scontentezza così autenticamente moderna, dietro la superficiale querela antimoderna nei confronti del totalitarismo cartesiano produce forme spesso più nefaste di totalitarismo. Ma è anche vero che i danni del totalitarismo — la sua incuranza per gli individui particolari, per gli scarti e per i più deboli, per i bambini e per gli anziani, per tutto ciò che resiste al progetto eroico — vengono anche limitati da questa scontentezza; essa è una grande forza di resistenza al massacro omologante.

La questione dell'umanismo diventa allora centrale in questo dibattito. Lo strano è che la prima fortuna di Heidegger nelle filosofie latine si svolse all'insegna di una interpretazione radicalmente umanista di Essere e tempo da qui l'«esistenzialismo» di Sartre, di Kojève, di Merleau-Ponty. Poi, verso la metà degli anni '60, lo strutturalismo riprende piuttosto l'Heidegger dopo la svolta del 1935, e attraversoAlthusser e Foucault divulga, per cosi dire, i motivi non-umanistici di Heidegger. Che cosa è avvenuto nel frattempo, nella coscienza dell'intellighentsia, in Francia e in parte in Italia? Quando la sinistra era staliniana, valorizzava i temi heideggeriani della libertà, della decisione, insomma l'umanismo. Quando poi la sinistra diventa libertaria, l'antiumanismo, derivato da Heidegger, diventa una bandiera!

A questo paradosso non sono estranei i tatti storici, I tardi anni '60 videro tra l'altro la tragedia del Vietnam, uno spiccato massacro perpetrato, da una parte e dall'altra, in nome dei valori dell'uomo, nella variante comunista da una parte e nella variante liberaldemocratica dall'altra. Si notava che come il Gulag staliniano era stato giustificato dai valori della liberazione umana, analogamente la patria della Freedom si era impegnata in repressioni e guerre di sterminio in nome della libertà democratica. «C’è qualcosa di marcio nell'umanismo», si pensò allora. Forse — si pensava guardare l'uomo freddamente, come un oggetto di scienza, praticare senza cedimenti ed emozioni una sorta di «fisica sociale» era paradossalmente il solo modo per non macchiarsi più di crimini disumani. Attraverso Heidegger, si conduceva un attacco all’umanismo come all’ultima – alla più vicina e seducente – delle ideologie, che illudono tutte l’uomo.

In effetti, se una ideologia, buona o meno che sia, non si è macchiata di qualche sterminio, qua o là, scagli la prima pietra! Con il suo richiamo all’Essere, paradossalmente Heidegger ci distoglieva dalle ideologie assetate di bene per l’uomo, che proprio per questo si autorizzano i più micidiali disastri. L’opera di Brecht, ad esempio, miscela geniale di cinismo machiavellico e di filantropia, stava la a dimostrarlo. In questo senso quella «svolta» ancora oggi è difendibile. L’essere, spontaneamente, umanitari è testimoniato dal rifiuto di ogni atto di fede «umanistico». Quanto a Habermans (Il filosofo e il nazista, in MicroMega n.3/1988), egli riconosce che l’opera soprattutto del primo Heidegger è rivoluzionaria e importante, ma per lui non è stata sufficiente a liberare il suo autore dai pregiudizi della ideologia tipica conservatrice dei «mandarini universitari tedeschi» dell’epoca, visceralmente conservatori. Il pensiero più tardo di Heidegger è comunque «fascista» in quanto si vuole «un pensiero che e più rigoroso di quello concettuale»; da qui l'idea megalomane che «pochi possiedono un accesso privilegiato alla verità; essi dispongono di un sapere infallibile e si possono sottrarre alla argomentazione pubblica […]; [questi] disgiungono il sapere valido dall'esame e dal riconoscimento intersoggettivi». Fascista è insomma lo stile della meditazione heideggeriana, soprattutto di quella dopo il 1935. Commenti analoghi potrebbero essere fatti anche al pensiero di Nietzsche, non a caso favorito dalla destra.

Mi chiedo però anche se Heidegger, estremizzando gli aspetti di superbia e di arroganza di ogni riflessione filosofica, non abbia fatto altro che portare allo scoperto, senza la maschera di un razionalismo educato, una ubris che è in quasi ogni meditazione filosofica. anche in quella in apparenza più argomentativa, e anche qui nel pensiero di Habermans. Privo di ipocrisia, ingenuamente estraneo a ogni regola scientifica del riconoscimento e consenso intersoggettivi, il pensiero di Heidegger è temuto da molti filosofi proprio perché rischia continuamente di mettere a nudo un vizio di fabbricazione, per così dire, di ogni razionalità filosofica. Un orizzonte di rischio e di sfida assoluti che costituisce la specificità di ogni impresa filosofica.

Infine, è opinione di chi scrive che tutto questo revival del filonazimso di Heidegger – revival perché è qualcosa che, bene o male, era stato sempre noto – ha un valore di sintomo per tutte le correnti filosofiche, proheideggeriane o antiheideggeriane che siano. Via Heidegger, sono il valore e il posto dell’operazione politica – come momento più decisivo ed elevato della scelta etica – nella vita intellettuale ad esser messi in discussione. E questo è particolarmente drammatico in Italia, un paese dove, da secoli, il coronamento di una vita filosofica, lo sbocco e la verità di una costruzione riflessiva erano nell'impegno politico. Ben prima di Mao, per l'intellettuale latino sempre la politica è al posto di comando. La teoresi non e altro che un lungo percorso tortuoso volto a dare fondamenta profonde e sicure alla capacità dell'intellettuale di indicare alla politeia il suo bene. A questo proposito Fabio Ciaramelli (Il caso Heidegger, in MondoOperaio, ottobre 1988) parla di «sindrome di Siracusa»: la propensione ingenua dei filosofi, come come già di Platone, ad andare alla corte del tiranno per convincerlo a fondare la futura Citta del Sole. Ma la «sindrome di Siracusa», riacutizzatasi nel Terzo Reich, è solo un versante di una patologia più vasta, che include anche ciò che chiamerei la «sindrome di Billancourt», il quartiere operaio dove i filosofi parigini andavano ad arringare la classe proletaria. Comunque una lunga tradizione assegna un ruolo riformatore al filosofo, consulente del tiranno, o guru mas-mediatico delle masse, per il quale, per usare le parole stesse di Heidegger, «tra polis ed essere regna una relazione originaria» (cfr. J. Taminiaux, in «Ant aut», gennaio-aprile 1988).

Forse il fatto nuovo di questi anni è il declino di questo ideale, il disincanto dell’intellettuale sul nesso tra verità e vita politica – ed anche, diciamolo, tra verità e libertà. (Come siamo disincantai sul presupposto secondo cui il filosofo veridico debba essere anche virtuoso, così siamo inclini a pensare che il riconoscimento della verità non sempre ci libera, e che molte liberazion,i o emancipazioni, si pasciono di mito e di inenzogna).

Come ha già visto Cacciari (cfr. «MicroMega» n. 2/1987), il declino storico della sinistra classica coincide in realtà con il declino di questa archè, di questo comando della politica in genere sulle altre forme di pensiero e di vita. (Forse, ira i filosofi, al primato della vita estetica – e questa probabilmente è la chiave della popolarità dell’ermeneutica). In un mondo democratico – fondato sul consenso di masse sempre più immense, anonime, indifferenti alle teste d'uovo, assorte in problemi francamente incomprensibili ai professori che non coltivino la sociologia —• e dove persino la variante comunista pare confluire nel modello di quella dittatura delle masse di cui parlava Ortega y Gasset, il filosofo pare aver sempre meno da dire ai suoi concittadini, sempre meno pare cercare il loro consenso. La politica risulta sempre più gestita da tecnici, da specialisti del consenso, da yuppies della gestione del potere, che dei filosofi non sanno che farsene (se non come suppellettili decorative del Palazzo). Un'indifferenza che sta diventando reciproca. Gli errori patetici di Heidegger —• ma anche, perché no?, di Lenin, di Sartre, di Lukàs, di Gentile, di Russell, ecc. — diventano drammaticamente attuali, oggi, non perchè abbiamo ormai in mano la formula per non commettere più errori, né per non farli commettere ai nostri concittadini, ma proprio perché ci rendiamo conto, con riluttanza, che il filosofo errerà nè più nè meno degli uomini comuni. Che l'erranza, insomma, è ciò che fa essere il filosofo come chiunque, anche se è ciò che lo fa mettere sotto accusa più di chiunque.



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