1900131IUN

Da Libro bianco.

Heidegger, miserie della politica (recensione a Bourdieu)

Unità, 31 gennaio 1990


Alberto Folin


Pierre Bourdieu «Führer della filosofia? L’ontologia politica di Martin Heidegger» Il Mulino, pagg. 154 Lire 15.000

Nell'ampio dibattito apertosi soprattutto in Francia sul rapporto tra Martin Heidegger e il nazismo, dibattito che si è esteso ben presto - soprattutto per merito della rivista Aut Aut alla questione della responsabilità del filosofo nei confronti della realtà effettuale, il libro di Pierre Bourdieu intende occupare lo spazio della neutralità sociologica, al di sopra delle parti, partendo dal presupposto che il discorso filosofico altro non sia che una e «sublimazione» di orientamenti politici o etici. Dato questo assioma come principio fondamentale dell'argomentazione, ne conviene ovviamente che tutta la complessa articolazione del pensiero heideggeriano, identificato con una strategia linguistica, si riduca ad una vicenda non solo e non tanto biografica, quanto generazionale da inquadrarsi sullo sfondo dell'università tedesca nel clima della Germania post-weimariana, percorsa da fremiti nazionalistici ed irrazionalistici: un'epoca nella quale il declino oggettivo della relativa posizione del corpo docente e la crisi specifica che colpisce le “facoltà di lettere” dalla fine del XIX secolo in poi (...) non poteva che rendere i decenti universitari inclini a partecipare alla deplorazione del declino della cultura o della civiltà occidentale. (p. 24). Su questa linea e secondo un metodo sofisticato che Bourdieu aveva già sperimentato in La distinction e Homo academicus, si sviluppa un'indagine che pretende di penetrare nel cuore «teoretico» del pensiero heideggeriano a partire dall'orizzonte dello Zeitgeist, dello «spirito del tempo» entro il quale nasce e prende corpo l'intera vicenda dell'analitica esistenziale. Per quanto il lavoro di Bourdieu sia vivace e, a tratti, sottile, esso tuttavia - in ultima analisi - soccombe fatalmente alle aporie proprie del metodo sociologico, quando esso voglia rivendicare per sé un carattere conclusivo e totalizzante. Con l'identificare, infatti, l'ossessione antimodernista e anti-tecnologica, di cui furono portatori, tra gli altri, pensatori come Jünger e Spengler, con il clima ideologico che si impone nella Germania pre-nazista, si finisce col perdere di vista la questione della tecnica nella sua portata «epocale».

D'altra parte, è solo il caso di ricordare che la denuncia della riduzione totalitaria dell'uomo a mero mezzo di produzione ad opera della tecnica, non è patrimonio esclusivo della «vecchia Europa» percorsa da una paranoica ossessione delle «origini», ma trova negli Stati Uniti d'America un luogo estremamente fecondo, con esiti politicamente differenti da quelli cui approdano gli intellettuali tedeschi: e sarebbe da indagare ulteriormente quanti scrittori come Theodor Dreyser (Una tragedia americana) o registi come Charlie Chaplin (Tempi moderni), cosi fortemente antimodemisti, abbiano avuto un e ruolo non secondario nel far i maturare una coscienza democratica ed antifascista in scrittori europei: basti pensare ai nostri Pavese e Vittorini, passati dal «fascismo di sinistra» all'antifascismo nel breve volgere di un decennio.

Che la separazione tra pensiero e responsabilità politica, sostenuta da coloro che intendono «assolvere» la filosofia di Heidegger dall'accusa di essere intrinsecamente «nazista» sia da rifiutarsi come posizione ingenua, non toglie, tuttavia, che una maggiore considerazione meriterebbe quel nucleo teorico - elaborato principalmente da Heidegger - che apre la strada a pensatori non certo sospettabili di nazismo, quali, per non fare che due nomi significativi, Herbert Marcuse e Annah Arendt. Certo, se l'ontologia negativa (che è altra cosa, con buona pace di Bourdieu, dalla «teologia negativa») cui la filosofia di Heidegger approda - con la conseguente drammatica constatazione dell'impossibilità dell'«oltrepassamento» della metafisica (posizione che differenzia radicalmente Heidegger da Jünger) viene ridotta a mera strategia di radicalizzazione al fine di «conservare tutto sotto l'apparenza di mutare tutto», (p. 93), ne risulta inevitabilmente una situazione di impoverimento del discorso filosofico. Questo impoverimento (come ha ben sottolineato Alessandro Dal Lago), anziché responsabilizzare il filosofo, lo solleva da ogni responsabilità: e ciò in virtù di un determinismo sociologico che decide a priori carattere ideologico e politicamente orientato di ogni scelta speculativa.

In realtà, sembra più utile interrogarsi - proprio a partire dalla dissoluzione dei soggetto, rilevata da Heidegger, e quindi dal nichilismo come estremo orizzonte della modernità - sulla responsabilità del pensiero e sulla sua capacità di misurarsi con un effettuale che, nell'epoca del nichilismo, è appunto del tutto destituito di «valore».

Sarà inoltre da rilevare che la tensione conoscitiva nei confronti della «cosa in sè», al di là della sua riduzione concettuale, ben prima di Kant e Husserl, è esigenza assai antica, e non può essere ricondotta ad una mera «astuzia», preoccupata di mettere «l'ontologia storicista al riparo della storia, sfuggendo, grazie all'eternizzazione della temporalità e della storia, alla storicizzazione dell'eterno». (p. 93). La domanda sull'essere, l'apertura dei pensiero nei riguardi del limite rappresentato dal concetto, sono atteggiamenti che è ridicolo presentare come «paradigma di tutte le strategie filosofiche della rivoluzione conservatrice in materia di filosofia»: altrimenti saremmo costretti a catalogare come «conservatori» scrittori quali Meister Eckhart, Pascal, Leopardi o Baudelaire.

Un libro questo, dunque, che ci invita a meditare su un possibile diverso esito del pensiero negativo: non è proprio il tentativo di Heidegger di «far passare» nella realtà effettuale, secondo una progettualità estetico-politica (quindi, ancora una volta, fornita di «valore») il suo pensiero, ciò che produce lo scivolamento del filosofo verso il nazismo e sostanzia il Discorso del '33? Assumere il politico nell'assoluto disincanto e fuori di ogni prospettiva di «salvezza», è forse l'unica prospettiva che resti al politico nell'epoca dei nichilismo compiuto.



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