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Da Libro bianco.

Heidegger. Nel corso del Tempo

Da Parmenide a Hitler. Vita e opere di un professore tedesco


Corriere della Sera, 16 settembre 1990


Saverio Vertone


Sono usciti due nuovi libri su Heidegger: uno di storia e uno di filosofia. Tutti e due affrontano il problema dei rapporti tra il pensatore tedesco e il nazismo, mettendo alla prova le accuse di Victor Farias. Il libro storico si intitola Sentieri biografici, ed è firmato da Hugo Ott dell'Università di Friburgo. Il libro filosofico si intitola La svolta (Die Kehre), e contiene un testo breve e poco conosciuto dello stesso Heidegger, seguito da un lungo saggio di Maurizio Ferraris. E' dimostrato che Heidegger aderì al nazismo e che la nomina al rettorato dell'Università di Friburgo gli venne offerto dal regime nel ‘33 per una certa consonanza di aspettative (che è qualcosa di più di una occasionale coincidenza di interessi politici).

NESSUNA INCERTEZZA. CARTA CANTA

L'attesa era il ritorno a sé dei tedeschi, il recupero di una missione già indicata da Fichte. Si trattava di concedere all'Europa nientemeno che la cittadinanza tedesca honoris causa riaffermando un cosmopolitismo che era tanto più disposto a identificarsi con la cultura del mondo in quanto la riteneva un prodotto della Germania. II discorso tenuto da Heidegger per l'assunzione del rettorato non lascia incertezze. Lì, una volta tanto, la carta canta. E in quel particolare momento biografia e filosofia coincidono. Ma dopo? Dopo, la carta non canta più con la stessa chiarezza. Ci sono le dichiarazioni al tempo stesso orgogliose e querule dello stesso Heidegger sulle ingiustizie subìte a partire dal '34, anno in cui il Nomina al rettorato gli fu tolto. Ma non risolvono il problema di che cosa abbia pensato Heidegger a proposito del nazismo anche dopo la sconfitta. E infatti Ott cerca prove esterne, ascolta testimonianze e interroga (senza trovare risposte plausibili) il caparbio silenzio del filosofo, chiedendosi perché non abbia mai pronunciato una condanna del razzismo anche dopo la fine della guerra. Ma il silenzio non è una prova. E perciò Ott rovista anche nei cassetti e nei tavolini da notte. Anzi entra nel closet di una vita e di una carriera non molto diverse da quelle, mediamente professorali, dei cattedratici del tempo. Ne escono le solite pantofole, le solite gastriti, le solite suscettibilità, le solite meschinità (proprie e dei colleghi) i soliti opportunismi, le solite poesie giovanili. Qualche lettera interessante come quella scritta a Rudolf Stadelman il 20 luglio '45, apre uno spiraglio inconsueto sullo stato d'animo con cui la cultura germanica ha affrontato la catastrofe. «Noi tedeschi», scrive Heidegger, «non possiamo decadere, perché non siamo ancora nati e dobbiamo ancora passare attraverso la notte». Ott fa bene a ricordare nella stessa pagina il finale del discorso per il Nomina al rettorato dove non di decadenza si parlava ma di nascita: «Possiamo comprendere appieno - scriveva Heidegger - la magnificenza di questo inizio solo se ci immedesimiamo in quella profonda sapienza dalla quale l'antica saggezza greca pronunciò la parola: "Tutta la grandezza sta nell'impeto" (Platone)». E fa doppiamente bene Ott a citare questa frase perché vi compaiono congiunte e quasi intrecciate le due ossessioni che hanno rovinato la Germania: il culto dell'impeto e l'identificazione con i Greci. Dunque Kleist e Hölderlin. Secondo Kleist solo «spagnoli, italiani e francesi possono accontentarsi della riflessione». Per i Tedeschi (come per i Greci) ci vuole altro. «II momento giusto della riflessione quello che viene dopo l'azione, non prima. Riflettendo prima di decidere, si soffoca la forza necessaria per l'azione, che sorge impetuosa dal sentimento». E per Hölderlin il cerchio stregato che abbraccia Germania, Ellade e India qualcosa di più della patria: è la fonte dalla quale sgorga lo Spirito, la scaturigine di ogni entusiastica meditazione sull'essere. Ott sfiora qua e là il legame non strettamente biografico tra Heidegger e il nazismo: il legame di pensiero. Non lo esclude ma non lo insegue. Il suo compito è un altro, e lo assolve con grande diligenza. Però, dopo aver letto il suo libro, sappiamo poco più di quel che sapevamo prima, magari con particolari più ricchi. Dal punto di vista biografico Heidegger è stato un nazista marginale, e si è perso ben presto per strada.

Più fruttuoso il percorso di Maurizio Ferraris, che insegue la svolta non nella vita ma nel pensiero. L'inversione di marcia tra Essere e Tempo e Tempo e Essere (le opere estreme che segnano la stazione di partenza e la stazione di arrivo di Heidegger) è assai più che un sentiero biografico. E' una mappa speculativa nella quale si possono leggere le ragioni sia dell'adesione sia del distacco dal nazismo. Ancora una volta le idee si dimostrano più loquaci dei documenti, perché scavalcano a pié pari le intenzioni e tracciano i confini del recinto culturale nel quale la volontà può scegliere i suoi fatti. Le scelte di Heidegger non erano libere, come non sono state libere le opzioni della cultura tedesca fin dal momento in cui ha tentato di stabilire un ponte genetico con la filosofia aurorale dei Greci, ricominciando a porre, a mezza strada tra la grammatica e le cose, il problema insolubile di un infinito verbale: l'essere. Dispiace ammetterlo (e dispiace ancor più constatarlo), ma una delle cause del tragico errore dei tedeschi va cercata proprio nella loro filosofia. Più precisamente in quel maniacale incagliarsi del pensiero sullo scoglio ontologico, sul quale si erano fermati i Greci. Seguendo i dettami di Kleist i tedeschi hanno riflettuto sui loro rapporti con la Grecia solo dopo averli istituiti nella cultura. L'impeto e l'Ellade li hanno imprigionati in un sortilegio filosofico. Certo, per stupirsi che «l'essere c’è e il non essere non c'e» si deve aver aggirato con l'immaginazione la presenza delle cose, approdando dall'altra parte, alla loro inconcepibile assenza. Ma solo una fantasia primitiva, sfidata da un intelletto già sottile, può compiere questo percorso. Solo un pensiero adolescente, provvisto però di una buona tecnica razionale, può descrivere il Nulla, come Parmenide (e sia pure per negarlo), o il Tutto come Hegel (e sia pure per spalmarlo sulla storia). Non la poesia ma la filosofia è il regno delle emozioni elementari che fanno risuonare anima intelletto e sensi, tutti insieme, e li tramortiscono. E le emozioni fondamentali percuotono le viscere di una cultura solo quando un animo infantile si apre improvvisamente alle figurazioni della mente. Infatti ci sono due sole filosofie nascenti: la greca e la tedesca, due filosofie che rispondono con brividi primordiali alle provocazioni di una coscienza matura. le altre filosofie sono normale riflessione, roba da adulti, e inseguono con scetticismo la spola illusoria tra il «dentro» e il «fuori», che li svolge tutta dentro la nostra mente. La quale sa di essere murata nel cranio. Queste filosofie adulte a fanno sentire il ronzio del pensiero, l'inquietudine del calabrone che portiamo in testa e che, ingannato dalla trasparenza, sbatte contro i nostri occhi credendo di poterne uscire. Ma noi non apriamo le finestre. Sappiamo che il calabrone non può sciamare per il mondo. Invece le filosofie nascenti non si rassegnano alla clausura, e tentano di raggiungere l’essere a costo di sfondare il cranio. La tragedia dei Greci è stata di aver fatto per primi questa esperienza. La tragedia dei tedeschi e di essere venuti dopo i Greci e di aver ripetuto un'impresa grandiosa, inutile e già fallita. Anche Heidegger ha riflettuto solo dopo aver pensato. E la svolta del suo pensiero è una scoperta già compiuta dalla aborrita cultura latina. La mente è un ponte che ci separa dal mondo, e tutta la nostra sapienza è un velo che nasconde l'essere, un velo che si ispessisce quanto poi si tenta di toglierlo. Heidegger non lo avrebbe detto, ma noi possiamo immaginare che il pensiero di un cane e il suo rapporto indifferente con una pietra (se mai ne ha uno) sia più adeguato del nostro all'albeggiante riflesso di una coscienza nella radura del mondo. Perché il cane non interroga l'essere ma si accontenta di essere quel che è, lasciando che la pietra sin come’è. E così, se cercare l'essere significa dimenticarlo e rimuoverlo, tanto vale non cercarlo. Come fa il cane. Il percorso di Holzweg (il sentiero nel bosco) che da Essere e Tempo, dove Heidegger ha cercato di fondare la mobilità nella stabilità, porta a Tempo e Essere, in cui ha dissolto qualsiasi stabilità nella inesorabile dissipazione della morte, è tutto qui.

SENZA IL PUNTO DI PARTENZA

E Ferraris ha documentato con grande pazienZa e intelligenza questo lavoro di Sisifo del grande Filosofo, che alla fine della vita si è ritrovato senza il punto di partenza, costretto a cancellare l’inizio proprio sul traguardo dell'arrivo. Ferraris lo segue mentre cerca di mantenersi «all’altezza del nichilismo», non trascurando di far sentire gli unisoni momentanei col nazismo e il loro progressivo dileguare nel silenzio. Resta un singolare contrappasso. Il tedesco che ha datestato la retorica dell'umanesimo latino, «così refrattaria al pensiero essenziale », e che ha condiviso il giudizio di Nietzsche sul «fatuo esprit dei francesi, incapaci di capire il nesso che salda la Germania alla Grecia», ha avuto come massimi eredi della sua filosofia proprio un francese (Derrida) e un italiano (Vattimo). I quali hanno colto nel risultato finale delle sue ricerche l’indebolimento del pensiero, e dunque un segno di resa all’umanesimo latino, all'esprit e alla retorica. Con in più la coscienza della definitiva clausura ermeneutica nella cultura. Perché, se l'essere si è ritirato dalla filosofia, a noi tocca interrogare non più le sue tracce ma le nostre.



Voci utilizzate nell'articolo

Nomina al rettorato

Discorso di rettorato

Silenzio di Heidegger


Metodi applicati

Onniscienza teoretica


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