1910316IUN

Da Libro bianco.

L’orrore del filosofo

Critica all’autocritica di Martin Heidegger sul nazismo

Una lettura del memoriale di Martin Heidegger «Il rettorato 1933-34. Fatti e pensieri», che il filosofo consegnò al figlio perchè venisse pubblicato postumo, propone in qualche modo il superamento della polemica sul suo filonazismo e su quanto esso ne influenzò il pensiero, per approdare ad una successiva riflessione. E' la lettura di Cesare Luporini, che divenne testo di una sua relazione ad un convegno di cui ora Franco Angeli pubblica gli atti a cura del professor Franco Bianco dell'università La Sapienza di Roma, che lo ringraziamo, insieme all'editore, per aver autorizzato questa anticipazione.


Unità, 16 febbraio 1991


Cesare Luporini


Mi sono chiesto sovente se non mi ero del tutto sbagliato in ciò che ero andato a cercare da Heidegger. Certo non una filosofia politica, della libertà politica. Nessuno poteva essere così ingenuo da cercare qualcosa di simile presso un filosofo tedesco nel nostro secolo che non era più quello di Kant o di Fichte o di Hegel (o anche di Marx). La teoria politica era stata abbandonata ai presunti specialisti. Anche questo nessuno forse lo ha meglio testimoniato di Karl Löwth, nell'opera sopra ricordata (La mia vita in Germania prima e dopo il 1933): la estraneità alla politica di quegli ambienti filosofici (e di lui stesso, allora). Ciò che consapevolmente cercavo in Heidegger era una fondazione prepolitica della libertà da cui poter trarre anche conclusioni politiche su mia propria responsabilità. E in questo solco continuai a scavare, per circa un decennio, con risultati, quale ne sia il valore, che vennero pubblicati in un libro. Fascismo ancora, durante. Ancora oggi penso che non sbagliavo: sono partigiano deciso della autonomia della politica dalla morale (che non esclude la sua morale immanente), ma sono tuttora con vinto che il problema della libertà nell'uomo la travalica e ha radici più profonde. Ma torniamo a Hedegger. Di recente mi è avvenuto di leggere – nella traduzione italiana – il suo memoriale Il rettorato 1933/34, Fatti e pensieri consegnato nel 1945 al figlio Hermann per pubblicazione postuma tanto più interessante a mio parere, della famosa, e un po' meschina intervista allo «Spiegel» (1966. pubblicata nel 1976). Il primo testo è stato accanitamente contestato nei suoi dettagli fattuali nel libro di Victor Farias, che tanta risonanza internazionale ha avuto. Non entro in questo tipo di particolari (né sarei in grado do di farlo). Ma sono stato assai colpito dagli aspetti filosofici (anche in relazione alla data di quel dettato), e soprattutto dal seguente passaggio, che insieme alla autogiustificazione contiene una specie di ammissione di colpa, tutta heideggeriana, che nulla ha a che fare con le imputazioni di cui Heidegger è stato fatto oggetto ripetutamente dopo quell'anno (il 1945, appunto), e di cui in sostanza, e credo con sofferenza, egli non ha inteso difendersi. Ecco il passo: «il caso del rettorato 33/34 per sé privo di significato, è solo un segno della condizione metafisica della scienza, che non è più in grado di determinare e provocare tentativi di rinnovamento e che nel suo mutamento essenziale si è lasciata imprigionare dai ceppi della pura tecnica. Incominciai a riconoscere questo processo negli anni successivi. Il rettorato fu un tentativo di vedere, nel movimento che era diventato potere, al di là di tutte le insufficienze e grossolanità, qualcosa di più vivo e proteso verso un orizzonte più ampio che forse un giorno avrebbe potuto condurre ad un ripensamento dell’essenza storica dei tedeschi. Non si deve negare che io allora credetti a tali possibilità e rinunciai alla vocazione più autentica del pensiero per un compito e un dovere pubblico».

Quando, come ho raccontato, nel prender congedo da Heidegger addussi quel pretesto - la sospensione del seminario, che non era poi solo un pretesto - non potevo immaginare che involontariamente toccavo una corda profonda di Heidegger la quale, se non forse allora, avrebbe ripreso a vibrare più tardi in lui, e che si esprime in quella specie di confessione racchiusa nella seconda parte del brano citato. (Ma esso andrebbe analizzato tutto). Faccio questa annotazione, o registrazione, per ragioni innanzitutto filosofiche, relative all'evoluzione del pensiero di Heidegger, dopo gli anni del suo sostegno al regime nazista. Dunque Heidegger biasima se stesso, nel 1945, non per il contenuto della sua azione pratica e volontaria («decisionista», come la definì Löwith apparentandola alla nota dottrina politica di Karl Schmitt), ma per aver ceduto, comunque, a una tentazione del genere, venendo meno alla «vocazione più autentica del pensiero» (ovviamente del «pensiero del pensiero»: nel duplice significato di questo «del», come Heidegger spiegherà). Pare che allusioni analoghe egli già facesse a se stesso, nei corsi tenuti dopo l'abbandono del rettorato. La mia convinzione personale è che sia una ricerca assai vana e capziosa - in ultima analisi indecidibile - quella di germi specificamente prenazisti, come è venuto di moda fare, nello Heidegger di prima del 1933, al di là degli elementi reazionari e conservatori (antidemocratici) che si possono a posteriori scoprire in quell'apolitico Heidegger (come in grandissima parte del resto nella filosofia tedesca del primo quarto del secolo). Per una ragione molto semplice: la dottrina nazista, nella sua essenza inderogabile, è basata sul razzismo (a cui viene appoggiato l'antisemitismo), cioè su un falso biologismo, che ne è il cardine pseudo-scientifico a cui essa si richiamava anche per il rinnovamento di una «scienza politica» ad hoc, tedesca. (Sarà respinta da Heidegger con ripugnanza filosofica). Senza quel fondamento di razzismo la dottrina nazionalsocialista cade nelle sue stesse conseguenze pratiche, che a un certo momento, successivo, portarono agli orrori del campi di sterminio. La filosofia di Heidegger invece - anche se egli la piegò allora a esiti comunque totalitari (come aveva fatto Gentile in Italia) era preventivamente e radicalmente antitetica a tutto ciò (onde i sospetti e la sorveglianza a cui fu sottoposto in ragione di essa): si è già visto come l'analitica dell'ontologia esistenziale escludeva in radice ogni possibile interpretazione biologistica e naturalistica dell'esistenza umana e della sua storia. Semmai peccava del contrario, troppo bruscamente resecandola delle sue basi nella vita animale.

Come Platone con il tiranno di dl Siracusa, è stato detto (da Hannah Arendt), Heidegger commise l'errore megalomanico di credere di poter sospingere verso le sue proprie tesi filosofiche il «movimento» nazista di massa, reinterpretandolo in base ad esse, con l'aggravante rispetto a Platone di avallare una tirannia nel proprio paese. Ora, nel memoriale del 1945 Heidegger incolpa se stesso di qualcosa che ha rilievo – ripeto – solo all'interno della sua evoluzione filosofica: e lo fa in termini che ai più possono apparire irrilevanti, o perfino irritanti (a paragone delle circostanze affrontate più o meno sinceramente nel memoriale). Ma questa autocritica per lui, evidentemente, era grave: «Rinunciai alla vocazione più autentica del pensiero per un compito e un dovere pubblico» (così aveva fatto apparire il rettorato)... Da un punto di vista non più soltanto filosofico ma pratico Heidegger si autodenuncia per il suo vuoto «decisionismo», pur difendendosi nel resto del memoriale circa il modo e le intenzioni con cui aveva agito, per riempirlo. Non lo sfiora, o per lo meno non lo interessa, il dubbio che egli avrebbe potuto altrimenti in base a un'idea di libertà; ma semplicemente si rimprovera di aver agito, perché, come dirà più tardi, l'azione del filosofo è il pensiero, il pensiero del pensiero appunto, e basta. Il che implica l'astensione su tutto il resto. Nel citato scritto di Löwith del 1940 (anch'esso un memoriale), l'autore ritrae così la figura o persona di Heidegger, che egli conosceva bene: «esistenzialista come Kierkegaard, con la volontà sistematica di Hegel, tanto dialettico nei metodi quanto monolitico nel contenuto, apodittico nelle affermazioni per spirito di negazione, chiuso verso gli altri e tuttavia curioso come pochi, radicale nelle cose ultime e pronto al compromesso nelle penultime (sottolineatura mia). Evidentemente Heidegger non vide nel nazismo una cosa «penultima» nel momento in cui lo appoggiò! E poi constatò il proprio peccato (non veniale per lui) nel 1945 (ma tutto induce a credere che fosse una conclusione a cui era pervenuto già molto tempo prima). Si può certo sorridere di queste sottigliezze, e considerarle con impazienza. Ma non dal punto di vista filosofico, non foss'altro perché la filosofia di Heidegger continua ad incombere su di noi, forse per la continuità profonda delle sue successive incarnazioni, nonostante le tante variazioni (prodotte prima di tutto da lui stesso) circa la «svolta» o le «svolte». Hannah Arendt, nel suo tormentato rapporto col proprio maestro (anche Löwith lo riconosce per tale, nonostante la durezza dei suoi giudizi, destinata a crescere) finirà per rimproverargli il punto di approdo nella «volontà di non volontà» con cui Heidegger pretese di superare il «nichilismo» di Nietzsche,e la «volontà di potenza.». Due estremi dunque, il decisionismo o risolutezza (Entschlossenheit) e il suo contrario, in cui Heidegger si rifugia; si rifugia come uomo, ma in questo rifugio egli addita poi un momento sacrificio per tutti, comandato dall'essere stesso, purché lo si ascolti (il che gli apparirà sempre meno probabile).

La tesi di comodo assai diffusa (e banalissima) che per appropriarsi della «eredità» di un filosofo bisogna separare la vicenda dell'uomo da quella della sua filosofia, e prescindere dalla prima, se è un poco ripugnante e comunque mutilante in generale, ove i dati sussistano (che cosa sappiamo della vita di alcuni dei presocratici?) è nel caso di Heidegger addirittura impraticabile (benché di continuo praticata), tanto si urta con l'essenza s del suo filosofare, preso nell'insieme. Allora il vero problema ermeneutico, a mio parere, è quello di individuare, o problematizzare, quanto abbia influito la vicenda del rettorato, quel tipo di adesione al nazismo e la successiva vicenda personale – questo fatto «per sé privo di significato» (così lo definisce Heidegger, si è visto, nel 1945!) su tutto il suo filosofare successivo, ivi comprese le oscillazioni di esso. (Mi pare che Habermas abbia in qualche modo toccato la questione, sostenendo che l'ultima filosofia di Heidegger non sarebbe altro che una sorta di trasfigurazione filosofica di quello che era stato il suo fondamentale errore, certo non giovanile, cioè l'adesione al nazismo: ma la questione è così appena posta, e va ulteriormente analizzata, differenziata, e internalizzata al pensiero di Heidegger). Già la data del 1945 è significativa: siamo alle soglie di quella prima autointerpretazione filosofica che Heidegger darà nella Lettera sull'umanesimo (1946) a cui seguirà un lungo silenzio pubblico del pastore dell'essere, sempre più esposto e passivo rispetto all'agire (se agire è comunque una «voce») di quest'ultimo: in un senso universale ovviamente, cioè valido per il destino epocale di tutti, secondo Heidegger.

In queste ultime considerazioni mi sono soprattutto appoggiato su Löwith e Arendt, cioè su due ebrei che la fatticità storica ha costretto (dapprima nolenti) a fare i conti con la propria ebraicità, e infine (assai tempestivamente per la Arendt) con l'ebraismo stesso, nei suoi dati moderni, istituzionali (Stato di Israele). Un terzo, fra i non pochi ebrei che hanno fatto parte della cerchia più stretta di Heidegger per non breve tempo, si affaccia qui ed è Marcuse. Che volle reincontrare Heidegger nel 1947, e che all'inizio dell'anno seguente ebbe con lui uno scambio di lettere, non ancora integralmente pubblicate, ma di cui si conosce l'essenziale. Si tratta della questione generalmente e universalmente nota come quella del «dopo Auschwitz». (Non entro qui nell'uso che si fa di tale espressione). Heidegger, nel corso del suo pensiero, ha detto cose molto importanti circa la «situazione emotiva fondamentale», la Befindlichkeit (termine che accetto): sui diversi modi e livelli di essa, anche secondo le fasi storiche. Ma in questi modi ne manca uno che la sta ria dell'Occidente ha messo nell'ordine del giorno, per così dire, e non ha più cancellato. E l'onore, il senso dell'onore, dinanzi alla soppressione violenta e perseguita, per una parte del genere umano, delle condizioni stesse basilari del con-essere: questa perdita del mondo, che riguarda implicitamente tutti i membri della specie. Ciò che è accaduto una volta può sempre ripetersi, anche se in altra forma. Ecco il perdurante orrore, per quanto lo si esorcizzi: «de horrida facie rerum»; in questo caso si deve aggiungere «rerum humanarum». Ciò non si poteva chiedere ad Heidegger in anticipo, ovviamente (voglio dire la identificazione di tale Befindlichkeit). Ma post factum? Di tutta la sua vicenda ciò che più sconcerta è questa insensibilità. Su tale punto mi sembra, debbono rispondere i difensori oltranzisti di Heidegger (il resto, a mio parere, conta poco).

Un'altra volta la sua vicenda personale tocca però la sua filosofa. La domanda è: questa inumanità lede nella sua essenza la problematica dell'esserci? (Perciò ho tirato in campo la nozione di Befindlichkeit). O i termini della questione non stanno piuttosto in altro modo: che si deve ammettere un livello profondo nella cosa umana che non ha più nulla a vedere con i tradizionali umanismi o umanesimi culturalizzati, ideologizzati, ecc.? Il che proprio la situazione contemporanea («dopo Auschwitz») ha portato allo scoperto. Credo sia così. Credo che il peggior servizio che si possa rendere ad Heidegger parlando della sua «eredità», sia quello di trasformarlo in oracolo o profeta (anche se egli ha avuto questa tendenza a partire almeno da un certo momento). Ciò che invece ci insegna è a interrogarsi, e poi ancora a interrogarsi, sul pensiero, sull'esserci e forse sull'essere, sulla finitezza, la storicità la temporalità: sul linguaggio umano, nella sua molteplicità di sensi e di livelli, me anche nel suo significato d'insieme, qualunque ne sia la nascita antropogenetica: quale costitutivo del nostro peculiare essere finiti in mezzo agli altri enti finiti, viventi e non viventi (lasciando da parte per il momento la questione dell'infinito e dell'eterno che si riaprirebbe qui).

Ho avuto occasione dl tornare sul tema centrale di questa conclusione in una «lettera» ospitata da La Stampa del 6 febbraio, in rapporto agli odierni eventi bellici della guerra del Golfo. Mi permetto di trascrivere qui il passo relativo: «Si ha pudore dei propri sentimenti, ma sperimentiamo tempi così speciali che credo sarebbe un bene di tutti riuscire a comunicarseli vicendevolmente. Sono dominato da un'angoscia anzi da un senso dell'orrore, per quel che sta accadendo con questa guerra e che può accadere in seguito. Ora tale sentimento di fondo credo sia in moltissimi, anche fra coloro che non lo sanno ed in vari modi cercano di esorcizzarlo o di distrarsene».


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