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Da Libro bianco.

Heidegger. L’opera in nero?

Processi. Un pensatore nazista o un professore caduto in errore: sette anni dopo le accuse lanciate nel 1987 da Victor Farias, interviene ora Erns Nolte.

La critica della modernità non porta ad Auschwitz. Verdetto assolto.


Corriere della Sera, 4 marzo 1994


Carlo Formenti


Nella stagione che, a cavallo degli anni '80, trovò alcuni filosofi italiani impegnati a elaborare quel «pensiero debole» che anticipò molti temi della crisi del marxismo, il pensiero di Heidegger ha svolto un ruolo strategico. Da sinistra questa operazione veniva contestata denunciando l'incompatibilità fra la cultura progressista e la metafisica «conservatrice» del filosofo tedesco. Il dibattito s'inasprì con l'uscita del libro, Heidegger et le nazisme (1987), del cileno Victor Farias. Il libro attribuiva a Heidegger un'etichetta ben più infamante di quella di conservatore: Farias esibiva una serie di documenti che dimostravano che il coinvolgimento del filosofo col nazismo andava al di là del noto episodio dell'adesione del '33, sancita dal discorso con cui Heidegger si insediò come rettore dell'università di Friburgo. Per Farias, l'intera opera di Heidegger riflette una sostanziale adesione al nazismo, adesione in cui non manca l'elemento antisemita, e che non viene meno dopo il crollo del regime, come dimostra la totale assenza di autocritiche dalla fine della guerra alla morte del filosofo nel 1976. Il libro (in Italia fu tradotto nell'88, da Bollati Boringhieri) ebbe uno straordinario successo, malgrado le critiche che sottolinearono come la maggior parte dei documenti citati da Farias non fossero inediti, e come molti di essi si prestassero a interpretazioni controverse. Ora escono due «apologie» di Heidegger destinate a riaprire la polemica: Heidegger e la politica (ed. Egea) di François Fédier, in libreria da alcune settimane, e Martin Heidegger tra politica e storia (ed. Laterza) di Ernst Nolte, che uscirà I'11 marzo prossimo.

Fédier (traduttore di Heidegger e allievo di Beaufret, il filosofo che introdusse il pensiero di Heidegger in Francia nel dopoguerra) lavora in due direzioni: confutazione delle prove di Farias; affermazione dell'incompatibilità fra il pensiero di Heidegger e l'ideologia nazista. Il primo punto occupa largo spazio, qui ne offriamo solo qualche esempio. Fédier cerca di dimostrare la malafede di Farias: Heidegger rimase iscritto al partito fino al 1945? Era una scelta obbligata! Era antisemita? Farias non adduce nessuna prova seria, è invece dimostrato che Heidegger si prodigò in favore di molti colleghi ebrei e che il famoso episodio del divieto di accesso alla biblioteca universitaria al suo antico maestro Husserl è falso! Il suo fu un errore, non un crimine. Gli accusatori più intransigenti, scrive Fédier, sfruttano un difetto di prospettiva storica: solo con gli occhi di oggi è possibile cogliere l'implacabile concatenazione che porta dalla presa del potere di Hitler ad Auschwitz, nel '33 essa non era affatto pacifica e scontata. Ma errore ci fu, e grave: Heidegger incarnò la volontà del pensiero, filosoficamente inaccettabile, di uscire dalla propria sfera allo scopo di prendere parte all'azione in quanto pensiero. Accettando il rettorato nel '33, pretese di far passare il pensiero nella realtà, di adattare la miseria della realtà nazista alle sue astratte utopie. Un accostamento impossibile. Il punto è decisivo per Fédier: se Farias avesse ragione, tutta l'opera di Heidegger diverrebbe sospetta, perché la convivenza fra un'opera sublime e una vita infame è appunto impossibile. E sulla natura sublime dell'opera Fédier non ha dubbi: essa ha saputo cogliere l'essenza del "nichilismo" moderno come trionfo della tecnica e oblio dell'essere; lanciando la sfida più radicale alla cultura del nostro tempo. Una sfida incompatibile col nazismo, ma anche con tutte le ideologie politiche contemporanee, e che per questo continua a fare paura. Il libro di Farias, conclude Fédier, ha avuto successo perché ci permette di ignorarla. Un giudizio pienamente condiviso da Pier Aldo Rovatti: «In Italia — dice il filosofo — il libro di Farias fu accolto con un sospiro di sollievo da quanti volevano chiudere un imbarazzante capitolo, rimuovendo il fatto che gli apporti più importanti alla filosofia contemporanea vengono proprio da Heidegger. Mettendolo "fuori gioco", si ottengono due risultati: non dobbiamo più interrogarci sulla provenienza dei problemi che ci troviamo di fronte e nemmeno riflettere sull'esempio che il caso Heidegger ci offre in merito al "rischio" del rapporto fra pensiero e politica».

Un rischio che è al centro del monumentale (400 pagine) saggio di Notte, lo storico al centro di polemiche per le sue tesi «revisioniste» sul nazismo. La lettura di Nolte si distingue da quella di Fédier in quanto afferma l'esistenza di una profonda e sostanziale continuità nell'opera di Heidegger, continuità rispetto alla quale l'episodio del '33 non costitui un «incidente di percorso», ma un importante elemento di comprensione. Certo Heidegger non aderì al nazional-socialismo «reale», da cui ben presto prese le distanze, ma restò per tutta la vita un «socialista nazionale» a modo suo. La sua delusione nei confronti di Hitler nasce dal fatto che il movimento si rivela una variante del fascismo radicale e non, come lui aveva sperato, un'alternativa sostanziale al nichilismo moderno. Il discorso di rettorato del '33 non vuole vedere l'esistenza quotidiana permeata dal pensiero, l'«autoaffermazione» dell'università tedesca di cui parla, allude alla lotta per ricondurre la scienza sotto il dominio della filosofia, contrapporre lo «spirito» alla ragione calcolante della tecnica moderna. Staccandosi dalle sue origini cattoliche e opponendosi alla minaccia comunista, Heidegger sceglie il nazional socialismo nella speranza che esso si incammini verso una sorta di polis tedesca. Il suo ideale politico non è il nazionalismo razzista, si ispira piuttosto ai greci, e Heidegger si allontanerà dal nazismo proprio perché, come il comunismo e il liberalismo, esso non pensa il politico come polis, ma in modo romano, imperiale. Per Nolte, insomma, Heidegger resta per tutta la vita un pensatore antimoderno, il figlio di una cittadina dell'Alta Svevia che rifiuta sdegnosamente il trasferimento all'università di Berlino in nome del proprio radicamento «al suolo svevo-alemanno». L'ultimo Heidegger non farà autocritica perché non ne ha bisogno: è rimasto costantemente fedele alla sua critica del mondo moderno, non rinnega il nazismo perché non è mai stato veramente nazista, e perché pensa che comunismo e «americanismo» si stiano incamminando ancora più decisamente verso l'oblio dell'essere, pensa che «quello che la scienza è diventata e quello che essa diventerà è incomparabilmente più rovinoso e terribile delle primitive dichiarazioni sulla scienza fatte dal nazionalsocialismo». La cifra del suo orgoglioso silenzio è la rivendicazione che «colui che nella grandezza pensa, nella grandezza è costretto a errare». E gli accenti «anarchici» e «verdi», come l'impegno per un pensiero europeo più «originario» e «religioso» (non in senso cristiano), che Nolte rintraccia negli ultimi scritti, confermano che con la sua sfida occorrerà ancora fare i conti.



Voci utilizzate nell'articolo

Discorso di rettorato

Assenza di autocritica


Metodi applicati

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