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Da Libro bianco.

C'è una rosa fiorita in fondo al suo pensiero

HEIDEGGER La vita raccontata da Rudiger Safranski


La Repubblica, 12 aprile 1996


Sergio Givone


"Tutto antico e così ben conservato, un posto meraviglioso, e in ogni vicolo c'è un ruscelletto d'acqua cristallina, e una fontana a getto, tutto intorno vigneti, e i terrapieni, costruiti un tempo a scopo di fortificazione, sono piantati a vigna". Così Friburgo in Brisgovia nelle parole di un contemporaneo di Goethe e non molto diversamente, nei primi decenni di questo secolo, e fino alla sua distruzione nel 1944, la città sarebbe apparsa a Heidegger. Questo l'osservatorio, ci ricorda Rudiger Safranski, autore di una vasta e penetrante biografia heideggeriana ora tradotta in italiano (a cura di Massimo Bonola; Longanesi; pagg. 575, lire 55.000), da cui il più grande filosofo del Novecento ha assistito per gran parte della sua vita agli immani sconvolgimenti del nostro tempo. Sappiamo della nostalgia di Heidegger per il mondo non ancora omologato dalla tecnica. E come in esso cercasse rifugio. Perfino Friburgo gli sembrava non abbastanza salvaguardata, ed eccolo nella sua baita di Todtnauberg, a riflettere sulla realtà contemporanea cercando luce nel lessico della tradizione. Ma la sua non era tenerezza arcadica e struggente per le cose del passato. Semmai, passione per ciò che non c'è più e che vale come paradigma negativo dello stato presente. Diceva suo fratello Fritz, fedele collaboratore, personaggio stravagante e geniale: di Martin s'incomincerà a capire qualcosa nel Duemila, quando gli americani avranno impiantato un supermercato sulla luna. Già, l'americanizzazione. Un tratto polemico da non sottovalutare. Heidegger vi vedeva una minaccia al patrimonio della civiltà europea, ed è questo il presupposto neanche tanto larvato che lo spinse a schierarsi dalla parte del nazismo. Il nazismo come baluardo d'Europa. Che dire, allora? Che Heidegger pensava il più sciagurato fenomeno dell'epoca con le categorie della propaganda? Non è esattamente così. Nel nazismo Heidegger vedeva anche, e soprattutto, il risultato di quel medesimo processo mondiale di tecnicizzazione del mondo che fa dell'uomo nient'altro che uno strumento dell'apparato produttivo: ciò che in Unione Sovietica avrebbe preso l'aspetto di un totalitarismo mascherato da comunismo e negli Stati Uniti di un totalitarismo mascherato da democrazia, pur trattandosi della stessa cosa. Stare dalla parte dei nazisti significò per lui tentare una cura disperata: si illudeva, ingoiando il veleno, di trovare un varco verso la salute. In quale errore fosse incorso, Heidegger dovette ben presto confessarlo a se stesso probabilmente già prima della guerra. Ma non lo ammise mai pubblicamente, neanche quando, dopo la guerra, sarebbe stato facile farlo. Forse proprio per questo. O forse perché, come suggerisce Safranski, egli riteneva di aver comunque offerti gli strumenti per decostruire l'ideologia nazista. Non era stato lui, Heidegger, a identificare la moderna volontà di potenza con la volontà che sottomette l'uomo e la natura alle sue "macchinazioni"? Non bastava che dichiarasse, come effettivamente fece, che questa volontà si esprime compiutamente nei campi di sterminio? Ora non si tratta di assolvere o di condannare il professor Heidegger. Assolto Heidegger lo fu dalla commissione nominata nel 1945 dall'amministrazione militare francese che credette alle sue giustificazioni. Condannato lo fu invece, l'anno successivo, dal senato accademico della sua università, che accolse il parere di Jaspers, secondo il quale l'insegnamento di Heidegger era illiberale e antieducativo, dunque da proibire. Così accadde che Heidegger fu congedato con pensione ridotta. Molto più interessante è cercar di capire come Heidegger, dopo la tragedia della guerra, abbia riproposto il problema che negli anni del nazismo era stato la sua pietra d'inciampo: il problema della tecnica. Magari sottraendolo alla vulgata heideggeriana. La quale afferma: la tecnica è il nostro presente e il nostro futuro, è la forma ultima e inoltrepassabile del dominio, è la necessità dell'essere. Dura necessità, che non si può aggirare. In realtà non c'è niente di più anti-heideggeriano di questo. Vero è che Heidegger fa sua l'idea, che era stata tra gli altri di Ernst Junger così come sarà di Gunther Anders, della tecnica come destino. Ma, domanda Heidegger a Junger, che cosa significa essere pronti a vivere sulla terra, grazie alle macchine, con sovrana indifferenza rispetto al luogo e alla tradizione, nel gelo di un "paesaggio morto" o di una "zona vulcanica"? Davvero non possiamo che prendere atto di una irreversibile deriva storica e soccombere ad essa? E se invece proprio questa dimensione di estrema povertà e rovina preludesse al suo capovolgimento? La risposta di Heidegger è che effettivamente la tecnica richiede da noi il più completo abbandono. Ma, egli dice, abbandonandoci alla tecnica noi facciamo esperienza di qualcosa che ne mostra il lato in ombra. L'essenza della tecnica è il produrre, il trar fuori, il disporre delle cose. Invece nell'abbandono le cose sono restituite al loro enigma, al loro misterioso esistere. Da una parte il produrre, dall'altra il puro e semplice lasciar essere. Nell'abbandono, noi incontriamo l'essere che è com'è, lasciato a se stesso e alla sua verità, senza scopo, senza ragione, senza perché. "Senza perché fiorisce la rosa", aveva scritto Angelo Silesio, il grande mistico del Seicento in cui Heidegger aveva intravisto l'annuncio di un pensiero ancora inespresso. Riprendendo Silesio, Paul Celan, il poeta per cui Heidegger, ricambiato, provava un sentimento di profonda affinità spirituale sia pur controversa (al punto da non sentirsi offeso quando Celan si sarebbe rifiutato di farsi fotografare insieme con lui a causa dei suoi trascorsi nazisti, salvo, il giorno dopo trascorrere la mattinata insieme nella famosa baita) canterà la "rosa di nessuno", che fiorisce al cospetto del nulla. Il nulla degno della nostra lode. E Heidegger, a sua volta, non esiterà a riassumere la questione della tecnica nella questione dello stupore di fronte a un evento come il fiorire. E' ancora capace il pensiero di "corrispondere" a questo stupore? Il domandare, l'interrogare è la pietà del pensiero, leggiamo in conclusione al saggio sulla tecnica del '53. Poesia e mistica ("abbandono" è il termine che Heidegger prende da questa tradizione) si configurano perciò come luoghi essenziali, e non certo evasivi o decorativi, del discorso filosofico. E' a partire da esse che la tecnica cesserà di apparire come il convitato di pietra che mette a tacere, prima ancora che siano poste, domande del tipo: siamo sicuri che l'ultima parola sul mondo sia quella della tecnica? E ammesso che la tecnica sia il nostro destino, chi ci dice che non ne siamo tragicamente responsabili? Ma allora dovremo prendere molto sul serio la tesi di Safranski, questo eccellente storico della filosofia che si presenta come un modesto biografo (lo è stato anche di Schopenhauer) e che tuttavia osa ricordare quel che filosofi più accreditati di lui sembrano aver dimenticato. Ossia che Heidegger "come nessun altro ha tenuto aperto, in un'epoca di laicità, l'orizzonte dell'esperienza religiosa".



Voci utilizzate nell'articolo

Nazismo privato

Assenza di autocritica

Silenzio di Heidegger

Foresta nera



Metodi applicati

Onniscienza teoretica

Promozione sul campo


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