1970501IXX

Da Libro bianco.

Les liaisons heideggeriennes

Belfagor, 31 maggio 1997


Sossio Giametta


Conta piú la vita o l'opera? A questa domanda non si può veramente rispondere, perché tutte e due sono importanti, ma su piani eterogenei. Diverso è il caso quando all'opera si riconosce grandezza, mentre la vita è deturpata da brutture, come è avvenuto per Martin Heidegger.

Che la vita di Heidegger sia macchiata di egoismo, grettezza, slealtà, perfidia e viltà, nessuno, infatti, vorrà negare dopo aver letto ora Elzbieta Ettinger Hannah Arendt e Martin Heidegger. Una storia d'amore (traduzione garzantiana di Giovanna Bettini). Nella sua scarna essenzialità, questo racconto sembra il verbale di un processo, celebrato, bisogna dire, da un giudice sensibile quanto rigoroso. Esso ha una tesi, ma questa tesi è formata, ci sembra, in modo giusto ed equilibrato, in base ai fatti illuminati da una capacità d'introspezione che non lascia a desiderare quanto a scrupolo ed esperta umanità. È una storia di lotta dei protagonisti, tra loro, con la vita e con se stessi, una storia d'amore e d'amicizia, ma anche di lotta contro la schiavitú dell'amore e dell'amicizia; di conquista, ma anche di sconfitte e perdite. Ma il dramma è paradigmatico per il valore rappresentativo dei protagonisti: 1) Martin Heidegger, il maggior filosofo del Novecento; 2) Hannah Arendt, l'ebrea tedesca che gli si contrappose sul piano della filosofia politica; 3) Karl Jaspers, a sua volta uno dei pensatori piú significativi del nostro secolo. La loro storia d'amore e d'amicizia coinvolge altri personaggi importanti, come Karl Löwith, Hans Jonas, Eugen Fink, Elfride Heidegger ecc.

Fin dall'inizio, quando nel 1924 Hannah Arendt, diciottenne, si iscrisse a filosofia all'università di Marburg, il trentacinquenne Heidegger, che vi godeva già di ampia popolarità le mise gli occhi addosso. E fin da quando, l'anno dopo, ne divenne l'amante, portò nella relazione sfruttamento e sopraffazione. Era sposato, padre di due bambini e stava terminando Essere e tempo, che lo avrebbe collocato tra i maggiori filosofi dell'epoca. La liaison durò cinque anni, ma già nel 1926 divenne scomoda per Heidegger. Questi costrinse moralmente la Arendt a trasferirsi altrove (in una lettera del 9 febbraio 1950 lei glielo rinfacciò: «Ho lasciato Marburg esclusivamente per causa tua»). Ma passando all'università di Heidelberg, dove insegnava Karl Jaspers, amico di Heidegger, Hannah omise di comunicare all'amante il suo nuovo indirizzo. Forse perché, come molto piú tardi ebbe a scrivere al marito Blücher: «Una donna ha sempre il terrore che il suo amore o l'esuberanza del suo amore vengano percepiti come un fardello». Con Heidegger non sbagliava, ma l'omissione era per lui un cattivo scherzo. Anche se desiderava muoversi liberamente, egli non intendeva infatti privarsi di tutto quel che Hannah rappresentava per lui. Non osando, però, scriverle all'università né rivolgersi a Jaspers, tenuto all'oscuro della relazione, dové vivere male finché un suo studente, Hans Jonas, non gli procurò l'indirizzo desiderato.

Da allora, comunque, gli incontri e la corrispondenza si diradarono. Però, quando Hannah tentò di recuperare la sua autonomia «mettendosi» con lo studente Benno von Wiese, Heidegger, dopo averle dato la sua benedizione, riprese a corteggiarla e a lusingarla per tenerla avvinta a sé. In realtà il rapporto con lei gli diventava cosí ancora piú comodo, ed egli giunse a dirle che lei poteva essere felice con un altro e continuare ad amare lui. Vent'anni dopo Hannah avrebbe detto di lui, che aveva intanto soprannominato «la volpe»: «Mente notoriamente sempre e su tutto, e tutte le volte che può». Nel 1928, ad ogni modo, Heidegger le disse che la loro relazione non poteva continuare. Era stato nominato ordinario all'università di Freiburg (al posto di Husserl, grazie a Husserl) e un'altra donna era entrata nella sua vita, Elisabeth Blochmann, compagna di studi della moglie. Hannah gli scrisse una lettera piena di angoscia, che finiva con le parole: «Io ti amo, fin dal primo giorno — tu lo sai, e io l'ho sempre saputo. "E se Dio vorrà / ti amerò anche di piú dopo la morte"».

Nel 1929 sposò Günther Stern, ma i suoi sentimenti per Heidegger non cambiarono. Lo attesta una lettera che gli scrisse nell'ottobre. In essa descrive una scena alla Anna Karenina. Heidegger e Günther dovevano prendere il treno per Freiburg. Lei era andata alla stazione per vedere Heidegger ancora una volta. Contemplando i due uomini che, in alto, parlavano tra loro al finestrino senza vederla, si era sentita sola e insignificante. Dal 1933 al 1950 ci fu un'interruzione dei rapporti, durante la quale Hannah fu animata verso Heidegger da sentimenti ostili. L'ultima volta egli le aveva scritto nel 1933 per ribattere le accuse di discriminazione contro gli ebrei che lei gli aveva mosso. Hannah ignorava che, nell'ottobre 1929, Heidegger aveva scritto al Ministero dell'Istruzione per lamentare la crescente giudaizzazione (Verjudung) del corpo insegnante. Tuttavia lo spirito della lettera, che tracciava comunque una separazione tra ebrei e tedeschi, l'iscrizione di Heidegger al partito nazionalsocialista (mai revocata) e il suo discorso di rettorato, un'apologia del nazionalsocialismo, la indussero probabilmente a lasciare la Germania nell'agosto di quell'anno.

Aveva deciso di «non amare piú nessun uomo». Poi, invece, si sposò con Heinrich Blücher: era un profugo tedesco come lei, che aveva incontrato a Parigi, dove per sei anni si dedicò agli espatri in Palestina degli ebrei tedeschi. Blücher aveva combattuto nelle file dell'estrema sinistra spartachista e aveva poi aderito al partito comunista. Si fece amare per il suo nobile amore, per la sua saggezza ed equilibrio. Con lui Hannah fu felice. Perché, come gli disse, egli aveva fatto di lei una donna e le aveva fatto sentire di poter amare senza dover barattare la sua identità e indipendenza («Mi sembra ancora incredibile che possa avere entrambi, il «grande amore» e un'identità integra. E solo adesso so di avere il primo perché ho anche la seconda. Finalmente so che cosa è davvero la felicità»).

Nel 1936, tre anni dopo che con Hannah, Heidegger troncò i rapporti anche con Jaspers. Ma anche per Jaspers, come per Hannah, ciò non significò la fine del loro coinvolgimento sentimentale. E quando i rapporti ripresero, dopo la guerra, ciò avvenne proprio per iniziativa di Jaspers. Il desiderio di far visita al maestro diventato frattanto suo amico portò Hannah in Germania, nel 1949, e questa fu per lei l'occasione di rivedere a sua volta Heidegger. Nel tracciare la storia dell'amicizia di Jaspers e Heidegger, la Ettinger, elenca (cap. vi) le debolezze che l'attaccamento a Heidegger fece commettere a Jaspers e conclude dicendo: «I due migliori amici di Martin Heidegger nascosero al mondo intero l'intima conoscenza che avevano di lui». Ma intanto aveva dimostrato che la nascosero anzitutto a se stessi. Ciò assunse particolare gravità quando la Arendt e Jaspers fornirono a Heidegger mezzi decisivi per difendersi dalle accuse mossegli per il suo passato nazista e per riabilitarsi agli occhi del mondo. Lo dice Jaspers stesso rispondendo alla Arendt quando questa, dopo la famosa intervista a Heidegger su «Der Spiegel» (1966), disse che Heidegger «dovrebbe essere lasciato in pace». « "Lasciare in pace Heidegger"» non mi sembra una cosa auspicabile», rispose Jaspers. «Quell'uomo è una potenza, e lo è di nuovo oggi per tutti coloro che giustificano le loro compromissioni col nazismo». Hannah stessa, del resto, proprio prima di ricadere nella trappola dell'attrazione per il suo vecchio idolo, lo aveva denunciato apertamente, arrivando a chiamarlo, per quello che aveva fatto o avallato contro Husserl e per il pericolo che gli aveva fatto correre, «un assassino potenziale». Si era opposta con forza alla pubblicazione delle sue opere e, anche sul piano culturale, non gli aveva risparmiato le critiche. In una lettera a Jaspers del 1949 definisce «particolarmente atroci, chiacchiere e nient'altro» alcuni saggi di Heidegger su Hölderlin e certe sue lezioni su Nietzsche. Dice inoltre: «Questo suo vivere a Todtnauberg (nella baita che Elfride aveva fatto costruire per lui) imprecando contro la civiltà e scrivendo "Sein" con la "y" è davvero, se vogliamo parlare con franchezza, soltanto la tana del topo in cui egli si è ritirato partendo dal presupposto, per altro ragionevole, che un personaggio come lui ha bisogno di vedere solo uomini pronti a compiere un pellegrinaggio e sospinti da incondizionata ammirazione. Non è facile che uno salga fino a 1.200 metri per fare una scenata a quest'uomo. Se poi qualcuno lo facesse, troverebbe un uomo esperto nel mentire; costui farebbe affidamento sull'azzurro del cielo e sul fatto che nessuno, guardandolo in faccia, vi riconoscerebbe i tratti del mentitore. Egli ha creduto bene di poter pagare il proprio debito nei confronti del mondo, e quanto piú è possibile a buon mercato; di riuscire a svignarsela, con un imbroglio, da ogni situazione sgradevole, e di poter fare soltanto filosofia».

Ma, nel 1951, completa giravolta. Hannah cerca in tutti i modi di giustificare Heidegger, pur ammettendo con Jaspers di avere la coscienza sporca. Perché? Il 7 febbraio del 1950 lo aveva rivisto a Freiburg, e ciò le era bastato per credere a tutte le sue giustificazioni e per assumersi da allora in poi la sua difesa in ogni luogo e occasione. «Divenne», dice la Ettinger, «la sua agente fidata, per quanto non pagata, negli Stati Uniti: gli trovava gli editori, negoziava i contratti e selezionava i migliori traduttori». Come reagiva il marito? Blücher, che era un grande ammiratore della filosofia heideggeriana, «considerava i suoi sforzi come un contributo alla filosofia piuttosto che il protrarsi di un coinvolgimento emotivo». Hannah riversò su Elfride ogni colpa del marito. Cosí lo assolse, come personificazione del Geist (spirito), da ogni responsabilità. Ma, dice la Ettinger, soltanto perché «poteva cosí riacquistare in buona fede il proprio ruolo di musa» e crearsi un alibi per il perdurare dell'attrazione.

Un tira-e-molla parallelo ci fu con Jaspers. Che però alla fine non volle piú riconciliarsi con Heidegger, a causa del suo ostinato rifiuto di ripudiare il suo passato nazionalsocialista (per lo stesso motivo Herbert Marcuse si allontanò da lui con altri allievi). Su questo rifiuto diremo in seguito. Ma è vero che Heidegger non cessò mai di respingere le accuse, di negare ogni colpa e di presentarsi come vittima del nazionalsocialismo. Tutto ciò che ammise, quando versava in gravi difficoltà e aveva bisogno dell'aiuto della Arendt e di Jaspers per farsi riabilitare e riottenere l'insegnamento toltogli, fu che c'era stato non sapeva quale «diavolo», che lo aveva cacciato nei guai. Una giustificazione, questa del diavolo maligno, che la Arendt fece subito sua e fece valere tale e quale con Jaspers Ma Jaspers la rigettò. Urtato dal fatto che Hannah continuasse ad essere amica sua e di Heidegger (a essere la «e» tra Jaspers e Heidegger, come diceva quest'ultimo), a dispetto delle ragioni che militavano per una rottura con Heidegger, le rivelò particolari spiacevoli su quest'ultimo e le ingiunse di troncare rapporti con lui. Ma Hannah reagí con violenza, chiamando assurde le pretese del suo maestro e amico («Sono andata su tutte le furie e gli ho detto che non avrei accettato alcun ultimatum», scrisse al marito).

L'attaccamento di Hannah a Heidegger sfociava talvolta nel grottesco. Come per esempio quando, nel 1960, usci la traduzione tedesca del suo Vita activa ed ella fece inviare all'amico il libro senza dedica, spiegandogli poi che se i loro rapporti non fossero stati sfortunati, gli avrebbe chiesto di poterglielo dedicare. E ciò perché — diceva — «il libro ha cominciato a prendere forma già a Marburg e ti deve, sotto ogni aspetto, quasi tutto». La dedica che aveva scritto in versi su un foglietto a parte era: «Questo libro non ha dedica. Come potrei dedicarlo a te / mio fidato amico, / cui sono rimasta fedele e infedele, / e sempre nell'amore». Per tutta risposta, Heidegger si arrabbiò, e la puní col silenzio, rifiutando di vederla e vietando pubblicamente, come dice Hannah, anche a Fink di vederla. Ma c'è di peggio. Tutto quello ch Hannah faceva di buono e in particolare la sua celebrità gli erano invisi. «Io so quanto sia insopportabile per lui», ella scrive, «che il mio nome appaia in pubblico, che io scriva libri ecc. Per tutta la vita io l'ho praticamente imbrogliato, comportandomi sempre come se tutto questo non esistesse, e come se, per cosí dire, non fossi capace nemmeno di contare fino a tre, tranne quando si trattava di interpretare le sue stesse cose: allora per lui era sempre molto gradito che si vedesse che sapevo contare fino a tre, e certe volte fino a quattro. Ma improvvisamente l'imbroglio mi è venuto a noia, ed ecco che mi son presa un pugno sul naso».

Lo stesso Jaspers non era immune da debolezze nei confronti di Heidegger. Scrivendogli nel 1953, a settantacinque anni, si emozionava ricordando le frequenti visite che Heidegger gli faceva, non dissimilmente da come la Arendt ricordava il passato in comune con lui: «La vedo di fronte a me, come se fosse qui adesso», gli scrisse. E, in un momento cruciale, gli fornì la regina delle autogiustificazioni: «Mi perdonerà se Le dico ciò che qualche volta ho pensato: che Lei sembrava comportarsi verso il nazionalsocialismo come un ragazzo in preda ai sogni, che non sa cosa sta facendo ... e che presto si ritrova inerme di fronte a un cumulo di macerie e si lascia portare sempre piú in basso».

Nel 1966 Hannah compi sessant'anni. Rompendo un silenzio durato sei anni, Heidegger le scrisse una lunga lettera, le inviò una foto del paesaggio che si vedeva dalla baita e la lirica di Hölderlin intitolata Autunno. Lui aveva settantasette anni, Elfride settantatré, Jaspers ottantatré (sarebbe morto tre anni dopo). «L'epoca dello Sturm und Drang era finita», scrive la Ettinger. Nei rapporti di Heidegger con la Arendt cominciò un'epoca nuova, di affettuosità, collaborazione, aiuto reciproco, scambi di libri e lettere, di visite, consultazioni e confidenze, che durò fino alla morte di lei, il 4 dicembre 1975 (Blücher era morto già nell'ottobre 1970). Heidegger morì cinque mesi dopo, il 28 maggio 1976. Così, cominciata col dramma della passione, la loro storia finì con l'idillio dell'amicizia, quando la partita (lo Sturm und Drang) era ormai giocata e non v'erano piú motivi di contrasto. Essa suscita alcune considerazioni.

La prima è che ciò che accade nella sfera sentimentale nell'adolescenza e nella gioventú è in genere determinante per il resto della vita. Il corollario è che in amore le virtú non contano come la passione o, che è lo stesso, che la passione è indifferente all'immoralità della persona amata. Con ciò non si vuole affermare che gli amori e le amicizie successivi non siano importanti. Perché se la liaison di Hannah con von Wiese prima e il matrimonio con Stern dopo si possono chiamare delle mésalliances, cosí non si può chiamare il suo matrimonio con Blücher, felice e riuscito sotto ogni aspetto. Ma nessuno vorrà dubitare che la passione e la felicità-infelicità con Heidegger siano state, rispetto a quelle vissute da Hannah con Blücher, un'altra cosa, qualcosa di selvaggio e di primario rispetto a qualcosa di addomesticato e di secondario.

La seconda considerazione riguarda lo sfruttamento dell'amore di Hannah da parte di Heidegger. È questa una figura classica, di cui un altro esempio, ai giorni nostri, è l'amore tra Carl Gustav Jung e Sabina Spielrein. Essa ha un antenato illustre nell'amore di Enea e Didone. Da un lato c'è il grande uomo, dedito alla sua missione e dunque non disponibile per l'amore, dall'altro la donna innamorata, che si immola. Contro l'inferiorità all'amore di Enea ha scritto in modo vibrante, tra gli altri, Benedetto Croce, mentre l'«immoralità» di Jung con la Spielrein fu all'origine di fieri contrasti con Freud. Quella di Heidegger ha incontrato, da ultimo, una condanna esemplare in un articolo di Claudio Magris, pubblicato nel «Corriere della Sera» del 9 giugno 1996.

Questa condanna è stilata con acutezza e precisione e va dalla prima lettera con la quale Heidegger esercita la sua cinica seduzione alla tarda strumentalizzazione dell'ex-amante, diventata intanto una potenza nel campo degli studi politici e quindi un passepartout ideale per Heidegger. Tutto quel che dice Magris è vero e doveroso. E' una fortuna, per un paese, che ci sia qualcuno capace di distinguere cosí nettamente, in una pubblica sede, il bene dal male. Ma proprio questa nettezza fa sorgere l'interrogativo: avrebbe potuto Heidegger comportarsi in modo diverso — leale e signorile — e rimanere Heidegger cioè il creatore di quella filosofia cui si attribuisce grandezza? Pensiamo venga spontaneo a tutti di rispondere negativamente. Perché una risposta positiva non è in realtà neanche concepibile. Allora, però, dobbiamo scegliere: se riteniamo che la grandezza sia necessaria (e la grandezza è necessaria), dobbiamo accettarne le condizioni, per quanto pelose. Il giudizio morale dunque non basta. C'è anche un altro giudizio, che non possiamo non dare. È un giudizio più largo, che tiene conto di altri elementi, in particolare delle compensazioni alla vita e alla persona sfruttata, dei comportamenti negativi dei grandi.

La grandezza è un dono fatto all'umanità e la persona sfruttata trae dall'amore a cui si sacrifica un arricchimento assolutamente straordinario, che non avrebbe potuto trarre da niente e nessun altro. Il giudizio morale muove da presupposto che si possa essere grandi e normali, come se la grandezza fosse un'aggiunta, un ornamento in piú che alcuni fortunati ricevono in sorte. Ma anche se i grandi possono essere normali in moltissime cose, non è giusto pensare della grandezza nei suddetti termini. Essa è dramma, quando non tragediadia, e il suo parto avviene nella sporcizia. La sua struttura è diversa da quella normale e sconvolge quella normale. L'uomo grande è, specie all'inizio, stetto da ogni parte, oppresso dall'interno e non trova spazio per spiegare le sue membra spirituali. Lo spazio accordatogli dalla vita, scarso per tutti, diventa per lui particolarmente insufficiente. «Il Dio che alberga nel mio petto / può sconvolgere fino in fondo la mia anima, / ma colui che domina su tutte le mie forze / non può all'esterno muovere alcunché», dice Faust. Il grande è così spinto ad eccedere. D'altra parte i movimenti dell'uomo sulla scacchiera della vita sono fin dall'inizio limitati, dice sempre Goethe, e la grandezza è invece una forza selvaggia e irresistibile. Le colpe di Heidegger sono questi eccessi. Molti dei quali sono per lui stesso penosi, come Magris riconosce. Ed è vero che non c'è niente di piú brutto del parassita che vuole essere amato ma non vuole amare, come dice Zarathustra (con probabile allusione a Lou Salomé); ma Magris, che vanta nella visione delle cose del mondo un'«asciutta laicità» antisentimentale, che vede nella vita «un intrico di seduzione e di bruttura, di verità e di inganno», che esalta quegli scrittori come Mme Lafayette, Laclos, Flauber e Proust, che «hanno scrutato gli inferi della passione, il groviglio di perdizione amorosa e rapace crudeltà», sarà disposto ad applicare questi parametri anche a Heidegger, a sua volta vittima della passione per la conoscenza.

La grandezza è una forma suprema di amore e passione di cui l'egoismo, il vituperato «amore di sé» dei grandi («Heidegger ... conosce solo l'amore di sé») non è altro che il rivestimento, il travestimento e insieme il limite. Essa ha bisogno di sostenersi con ciò che piú consuma, l'amore o almeno l'erotismo rivitalizzante («travolto da un'emozione fino allora sconosciuta, sembrava posseduto da un demone»). Non esiste se non incarnata in un individuo come scopo egoistico dominante. «Insaziabilmente la vostra anima aspira a tesori e gioielli, perché la vostra anima è insaziabile nella volontà di donare», dice Zarathustra. La filosofia è il filosofo che la incarna e non può prosperare se non prospera la persona del filosofo. Questi, che subisce una potenza tirannica (la vocazione), ha un corpo che soffre tanto piú la solitudine quanto piú la sua anima vive in comunione con l'umanità. Dunque il fatto che Heidegger usasse ogni mezzo per svignarsela dalle situazioni sgradevoli allo scopo di fare filosofia e soltanto filosofia è vero, ma vale come motivo piuttosto di lode che di rimprovero. Per fare poesia e soltanto poesia, Orazio gettò lo scudo, e, per fondare Roma, Enea abbandonò Didone. La richiesta di comprensione per «la spaventosa solitudine della sua vita asceticamente sacrificata allo studio e alla conoscenza» rivolta da Heidegger alla Arendt nella prima lettera che le scrisse, non era ingiustificata. Con questa sua dedizione univoca si spiega anche quella mancanza di un qualsiasi carattere di cui la Arendt parla in una lettera a Jaspers del 1949: «Quella che Lei chiama impurità io la chiamerei mancanza di carattere, ma nel senso che egli non ha, letteralmente parlando, alcun carattere definito, neppure uno particolarmente cattivo».

Heidegger è «l'uomo di genio cui piace essere reso vitale da una donna, ma poi le dice di farsi da parte e di lasciarlo lavorare», dice Magris. Non fece lo stesso Goethe con Christiane, il suo Bettschatz (tesoro di letto), anche se la trattò con tenerezza e rispetto, sfidò per lei le convenzioni, invece di nasconderla, e finì addirittura con lo sposarla? Goethe era un signore e Heidegger uno zotico, un Hinterwäldler e Hinterweltler della Foresta Nera; ma cambiano queste differenze la sostanza? Goethe non era innamorato di Christiane, la possedeva (fin troppo, come risulta da una sua elegia) e glien'era grato. «Cosima credeva di essere amata da Wagner, ma lo era davvero? Rappresentava qualcosa per Wagner, oltre a essere lo strumento del suo successo? E si può amare uno strumento? Teseo amava forse Arianna? Aveva avuto bisogno di lei per non smarrirsi nel labirinto, e per sopraffare il Minotauro; ma, una volta compiuta la sua missione, Arianna costituiva solo un peso, e per questo motivo l'abbandonò», scrive Marc Sautet nell'introduzione all'epistolario Cosima-Nietzsche. L'ultima fase dei rapporti tra Hannah e Heidegger, la loro amicizia trasfigurata, che cosa significa se non che entrambi accettarono quello che c'era stato tra loro come fatale e positivo, con quella felicità rasserenata che è, proprio secondo Goethe, di chi può riunire la fine col principio della sua vita?

Hannah era stata per lui «lo specchio nel quale egli poteva vedersi riflesso in forma quasi divina», dice la Ettinger. Scandaloso, certo. Ma proprio di questo ha bisogno chi deve creare qualcosa di grande (di «divino»). La Ettinger aggiunge che Heidegger «era un uomo insicuro, perennemente bisognoso di venerazione e adulazione, che Hannah gli forniva in abbondanza». Hannah, come abbiamo visto, era anche quella che glielo rimproverava, nei tempi dell'ostilità. Ma il fatto che «il riconoscimento internazionale sarebbe arrivato solo qualche anno dopo», che sarebbe comunque arrivato — e arrivò, sempre piú grande, immenso — deve far pensare che il bisogno di Heidegger era legittimo e Hannah gli anticipava soltanto quello che tutto il mondo gli avrebbe poi riconosciuto. Ma non voleva la stessa Hannah che Heidegger avesse bisogno di lei, cioè che la sfruttasse? Non fa parte ciò dei chimismi dell'amore?

Del tutto diversa è la storia della filosofia stessa di Heidegger e del suo coinvolgimento con il nazionalsocialismo, oggetto della nostra ultima considerazione. Il libro della Ettinger dimostra senza possibilità di dubbio che l'uomo era in tutto e per tutto reazionario e che, per quanti motivi di dissenso possa aver avuto con l'apparato di partito, il suo cuore profondo batteva per la causa del nazionalsocialismo. Con la sua filosofia egli intendeva « "ringiovanire" la Germania salvandola dall'assalto della tecnologia, dalla decadenza e dal comunismo». Dopo la guerra ammise la sconfitta ma non cambiò idea. Come avrebbe potuto? La sua fede era stata la sua vita e la sua filosofia, ed era ancora la sua filosofia. La sconfitta aveva ucciso la sua speranza di vittoria, ma non la sua fede e (per lui) non la sua filosofia. «Solo un Dio ci può salvare», disse nella suddetta intervista del 1966. Ma in questo Dio credeva ancora. Rimase, dice la Ettinger, «impenitente, inflessibile, senza alcun rimorso. Non abiurò, non ritrattò, non condannò mai le atrocità naziste: né pubblicamente né privatamente, per esempio di fronte a Hannah Arendt o a Karl Jaspers».

Invece la sconfitta aveva ucciso anche la sua filosofia, sebbene solo da allora essa sia diventata popolare tra gli epigoni (come di solito accade). Con la sconfitta della Germania (e quella ancora piú sostanziale dell'impero britannico dietro la vittoria di facciata), la storia aveva fatto calare definitivamente il sipario su tutto quel sistema di valori aristocratici, legati al primato politico dell'Europa, di cui la sua filosofia era una grandiosa trasfigurazione.

Elfride Heidegger era stata nazionalsocialista fin dall'inizio. Aveva fatto leggere al marito Mein Kampf per il quale, secondo lei, bisognava tralasciare ogni altra lettura. Entrambi credevano che soltanto con un mutamento radicale, una Umwälzung, come diceva sempre Hitler, si sarebbe potuta ringiovanire la Germania e ristabilire la sua guida politica e spirituale nel mondo. Dopo il crollo della Germania, Heidegger «pensava che l'Europa non esistesse piú. Le forze del male, il nichilismo e la tecnologia, contro cui aveva combattuto, erano prevalse e la stavano uccidendo. La Germania e il nazionalsocialismo, il solo paese e l'unica ideologia capaci di invertire il processo di decadenza dell'Europa, erano falliti». Diceva: «Stalin non ha piú bisogno di dichiarare guerra. Ogni giorno vince una battaglia. Ma nessuno se ne accorge. Per noi non c'è scampo». Queste dichiarazioni spaventavano e facevano indignare Jaspers. Perché secondo lui Heidegger non capiva che la Germania aveva spianato la strada alla vittoria di Stalin e che la sua filosofia, che conduceva alla «visione mostruosa» di una distruzione persino peggiore, preparava il terreno a un'altra vittoria del totalitarismo, proprio come la «filosofia ... prima del 1933 aveva di fatto preparato il terreno per l'accettazione di Hitler». Non senza ragione esaltava su Heidegger la Arendt, che queste connessioni le aveva capite e mostrate nel suo Le origini del totalitarismo.

Era vero, la visione della Arendt era superiore a quella di Heidegger, ma era soprattutto posteriore. Tra loro c'era quasi una generazione di differenza e lei aveva vissuto in America, mentre lui se n'era rimasto di preferenza nella sua baita, in cui era mancata a lungo la luce elettrica e l'acqua veniva attinta da un pozzo, per non parlare dell'abbigliamento campagnolo bavarese, con cui Heidegger, dice Magris, sembrava uno dei sette nani. La Arendt era al di sopra di Heidegger perché vedeva la connessione essenziale, la coappartenenza, nella decadenza dell'Europa, di fascismo e comunismo, come movimenti opposti e simmetrici, accomunati dalla violenza totalitaria. Lei era uscita dal tunnel in cui Heidegger era rimasto, cioè dalla dicotomia di fascismo e comunismo. In questa dicotomia si apparteneva all'uno o all'altro, non v'era una terza cosa. Heidegger apparteneva al fascismo, altri (come, secondo lui, lo stesso Löwith) appartenevano al comunismo. Di fronte ai nuovi valori democratici che l'Europa aveva creato: il suffragio universale, il sistema parlamentare, l'uguaglianza al di sopra della razza e del sesso, la partecipazione alla politica del cittadino (nel senso illustrato da Vita activa) in genere la sana ragione e, certo, il progresso tecnico, insomma di fronte a tutto ciò che oggi chiamiamo civiltà: i due opposti totalitarismi si riunivano fuggendo verso il passato (sebbene proprio i valori democratici fossero iscritti nella bandiera del comunismo).

Questa diversa collocazione di Heidegger rispetto alla Arendt lo condanna con la sua filosofia, ma ne costituisce anche la giustificazione storica. La filosofia, in quanto contempla le cose sub specie aeternitatis, è indipendente dalla politica, ma si forma ogni volta intorno a un nucleo organico di sentimenti, che è invece sempre una concrezione storica. Heidegger era mosso dallo stesso pathos tardoromantico del « buon europeo» da cui era mosso Nietzsche, dal suo stesso amore dei valori aristocratici e della grande cultura creati dall'Europa. Volle quindi, come Nietzsche, farsene paladino con la forza, unico mezzo rimasto, contro quella che doveva apparirgli come l'invasione verticale dei barbari: la tecnologia robottizzante, l'ideologia egualitaria, distruttrice dei valori individuali, la corrosione dell'antico nerbo delle nazioni europee e il comunismo materialistico, calpestatore della tradizione, negatore dei valori della terra e del sangue e di ogni alta spiritualità. Erano gli ideali della maggior parte della cultura tedesca, prima di trasformarsi in genocidio e disumana carneficina. Adesso che i giochi sono fatti, che i problemi si sono evoluti in sensi nuovi e complessi, non si tratta tanto di accusare Heidegger, salvo per l'influsso che ancora esercita il suo pensiero, quanto di intenderlo e caratterizzarlo, affinché non sussistano piú a suo riguardo dubbi svianti e inopportuni. Oggi è quasi impossibile capire la direzione in cui filosofavano Nietzsche e Heidegger e in cui si muoveva tutta la cultura europea, perché la tendenza allora dominante si è rovesciata e tutto quello che prima era bene ora è male e viceversa. Ma chi si fa scrupolo di oggettività verso uomini e cose, non può non sforzarsi per farsi, della storia recente, un'idea piú adeguata. Il diavolo è finito nei porci, ma prima era apparso come un angelo risplendente.

Conta aver assodato l'indirizzo del pensiero di Heidegger, perché è una chiave indispensabile per interpretare una filosofia oceanica e caotica, immersa in una tale ambiguità che si può definirla, come una volta Löwith definí Essere e tempo, «teologia mascherata» e insieme «puro ateismo», senza meritare lo scherno con cui Heidegger commentò quest'apparente contraddizione.



Voci utilizzate nell'articolo

Discorso di rettorato

Il nazismo di Elfride

Antisemitismo

Ostilità verso Husserl

Riabilitazione

Foresta nera

Assenza di autocritica

Silenzio di Heidegger

Assassino potenziale


Metodi applicati

Acritica delle fonti

Associazione coatta

Alzata del Genio


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