1971012IUN

Da Libro bianco.

Quando Husserl capì che l’allievo Heidegger aveva voltato le spalle alla sua fenomenologia

Escono in Italia le glosse a «Essere e tempo»


Unità, 12 ottobre 1997


Sergio Givone


Nel luglio del 1929 Martin Heidegger, da poco chiamato sulla cattedra che era stata di Edmund Husserl all’università di Friburgo, tenne la sua prolusione su Che cos’è la metafisica? L’impressione fu enorme. Il giovane filosofo (non aveva ancora compiuto quarant’anni) proponeva di ripensare la questione dell’essere a partire dal nulla e quindi a partire dal sentimento nullificante dell’angoscia. Con questo venivano messi in discussione alcuni capisaldi della metafisica. Il nulla, l’impensabile, era fatto oggetto del pensiero e l’angoscia, emozione soggettiva, era considerata la via attraverso cui l’essere e il suo senso giungono a rivelarsi. C’era di che restare sconcertati. E anche di che gridare all’irrazionalismo. Come del resto farà lo stesso Husserl, che nell’«oscura mistica dell’esistenza» heideggeriana non tarderà a vedere «il pericolo più grande per la fenomenologia », cioè per la sua proposta di fondazione scientifica della filosofia e di rifondazione filosofica della scienza. E dire che proprio Husserl aveva voluto Heidegger come successore. In lui aveva visto fin dai primi anni Venti un «predestinato a diventare un filosofo in grande stile, una guida capace di condurre al di là delle confusioni e debolezze del presente», e da lui e dal suo «talento straordinario» (dirà poi a rottura avvenuta) si aspettava per la fenomenologia un impulso decisivo. Invece nella prolusione heideggeriana, vera a propria dichiarazione d’intenti per un futuro lavoro da compiere, la fenomenologia semplicemente era ignorata. Come se Heidegger di quel metodo, cui pure aveva dedicato anni di studio, non sapesse che farsene. E anzi lo giudicasse espressione di una tradizione filosofica da superare. Sentendosi tradito nella consegna, Husserl reagisce nel modo più degno e più serio per un pensatore: studiando a fondo l’opera di quel suo allievo eccezionale per capire le ragioni dell’abbandono. Infatti l’estate del 1929 è dedicata al riesame di Essere e tempo, che proprio lui, Husserl, aveva voluto pubblicare, oltre che alla lettura di Kant e il problema della metafisica. In margine ai due libri fioriscono le perplessità, le critiche, i segni del dissenso e del rifiuto. Sono glosse preziose per capire i termini di un confronto filosofico che forse non ha l’eguale del secolo. Finalmente pubblicate in Germania, appaiono ora tradotte per la Jaca Book da Corrado Sinigaglia, il quale è anche autore di una prefazione assai meritevole sia sul piano storiografico sia su quello critico-teoretico. «Benché la rinascita della metafisica sia un vanto del nostro tempo, la questione dell’essere è oggi dimenticata». Sono queste le parole con cui inizia Essere e tempo, l’opera che Heidegger aveva dedicato a Husserl senza tuttavia risparmiare un affondo mortale al progetto filosofico hesserliano. Ciò che Husserl non aveva visto o non aveva voluto vedere allora, quando lesse il manoscritto (lettura affrettata? eccesso di fiducia?), ora lo colpisce con la violenza di un’offesa.

La questione dell’essere, infatti, è precisamente la questione che Husserl riteneva di aver finalmente posto nei suoi termini esatti – e Heidegger affermava invece che di essa oggi si sono perse le tracce. Come dire: Husserl ha fallito completamente. Impossibile per Husserl farsene una ragione. Tanto più che secondo lui Heidegger non fa un solo passo al di là della fenomenologia. Non è la fenomenologia a insegnare che là dove le cose sono colte nel loro nucleo essenziale e nel loro ordine si mostra il senso dell’essere? Ma perché questo accada è necessario un atto della coscienza e dunque dell’io. L’io, con la sua intenzionalità, è il fondamento della conoscenza. Dunque, tra l’io e le cose non c’è opposizione, ma reciproca coappartenenza. E qual è l’obiettivo di Heidegger, se non il riconoscimento che il senso dell’essere è dato da un’autoriflessione del soggetto? L’unica differenza semmai è che Heidegger, rinunciando al metodo fenomenologico, non è in grado di giustificare il carattere puro e oggettivo dell’intenzionalità ricadendo suo malgrado nello psicologismo dell’esperienza vissuta. In realtà Heidegger cerca ben altro che un sapere in grado di giustificare l’oggettività dei suoi contenuti partendo dal soggetto. È la logica soggetto-oggetto ad apparirgli segnata da quel riduzionismo oggettivante che è il frutto avvelenato della metafisica. A misura che pretende di sistemare nel loro ordine tute le cose che sono, la metafisica riduce l’essere a cosa tra le cose, sia pure la più alta e la più comprensiva. E la fenomenologia husserliana resta prigioniera di questo orizzonte. Perciò vale per la fenomenologia quel che vale per la metafisica: la questione dell’essere è dimenticata. La può ricordare e anzi «rammemorare» solo un pensiero che concepisca l’essere non come realtà trasparente alla coscienza, quasi stesse tutta davanti agli occhi in una perfetta oggettivazione, ma come l’«altro» della realtà, ciò che la realtà non è mai ma ciò in cui la realtà ha la sua origine. Dunque, un pensiero che pensi l’essere a partire dal nulla. Ma anche un pensiero che non arretri di fronte ai paradossi. C’è un punto, in queste glosse husserliane a Heidegger, che fa toccare con mano tutta la distanza che separa i due filosofi. Ed è la dove, in Essere e tempo, Heidegger sostiene che «l’esser colpevole non è il risultato di una consapevolezza (una consapevolezza per questo o per quello), ma, al contrario, questa diviene possibile solo sul fondamento di un esser colpevole originario».

Qui Husserl si rifiuta proprio di capire. O almeno di accettare quella che sembra una palese inversione della causa e dell’effetto. Eppure Heidegger non fa che applicare all’esperienza della colpa l’idea dell’originarietà dell’essere. L’uomo è in grado di riconoscersi colpevole di qualcosa solo perché lo è originariamente, proprio come è in grado di riconoscersi esistente a misura che è Dasein, esserci, «ci» dell’essere: vale a dire, originariamente partecipe dell’essere e perciò capace di interrogarlo, metterlo in questione. Non stupisce comunque che la strada di Heidegger appaia destinata a separarsi definitivamente da quella di Husserl. Heidegger cercherà nel «dialogo storico-ontologico con i poeti» una risposta alle domande che emergono da quel fondo senza fondo che la scienza ignora e che non è se non l’abisso dell’essere, laddove proprio alla scienza, sia pure la scienza rifondata, Husserl guarderà come a un futuro modello di sapere per l’Europa. Davvero, due prospettive non conciliabili. E che tali rimangono nonostante i tentativi in senso contrario (tentativi cui il curatore della traduzione italiana di queste Glosse offre peraltro, e con grande finezza, più di un appiglio). Comunque la rottura del rapporto tra Husserl e Heideger, benché mai dichiarata, non avrebbe potuto essere più malinconica e più triste. Quasi che sulle loro divergenze filosofiche si stendesse l’ombra di una più profonda incompatibilità. Indubbiamente sarebbe un grave errore sovrapporre e confondere i due piani, quello culturale e quello politico. Però resta che l’avvento del nazismo vede i due grandi pensatori schierati su fronti opposti. Husserl, in quanto ebreo, è radiato da quella stessa università di cui Heidegger diventa rettore. Ma, potremmo dire, in questo caso non è più Heidegger a tradire Husserl. È Heidegger a tradire se stesso e la sua filosofia.



Voci utilizzate nell'articolo

Divieto a Husserl


Metodi applicati

Onniscienza teoretica


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