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Da Libro bianco.

Il punto su Heidegger nazista

Botta e Risposta


Il Sole 24 Ore, 28 giugno 1998


Massimo Amato e Maurizio Ferraris


Credo che la recensione di Maurizio Ferraris agli Scritti politici di Heidegger («Il Sole-24 Ore», 7 giugno) possa riassumersi nella domanda, da lui stesso formulata: «Ora, è davvero così importante venire in chiaro su questo punto?». Il "punto" è, ovviamente, il rapporto di Heidegger con il nazismo. Ognuno può pensarla come vuole. Resta tuttavia da chiedersi perché, e su quali basi, il recensore la pensi così. A questo secondo proposito, parrebbe che l'intento del libro gli sia pressoché sfuggito. Altrimenti gli sarebbe stato impossibile attribuire a Fédier la tesi per cui «i turbamenti del nostro secolo non hanno lasciato in pace nemmeno gli spiriti magni, sicché chi non ha scelto il comunismo è finito nel nazismo», dato che la tesi di Fédier è a questa diametralmente opposta. Per Fédier, Heidegger si è radicalmente sottratto all'aut aut, profondamente totalitario, per cui il mancato schieramento in un campo comporta automaticamente la "caduta" nel campo avverso. Che tale ipotesi consenta di gettare uno sguardo radicalmente nuovo sull'impegno di Heidegger e sul modo in cui egli vi ha posto fine, è quanto il libro si sforza di mostrare. Forse il fatto che "il punto" sia stato così gravemente frainteso è di per sé il miglior indizio del fatto che esso non è poi così ovvio, e che forse vale la pena venirne infine in chiaro. Dunque il libro porta con sé le ragioni della sua esistenza, chiaramente leggibili fin dalla presentazione di Zaccaria e dall'introduzione di Fédier, le quali, con la postfazione, mostrano la rilevanza politica e filosofica di un'istruzione del "caso Heidegger" che non sia improntata né ad agiografia né a sospetto, ma a spirito critico. La critica non è affatto esercizio del sospetto, ad esempio mediante l'arma della citazione decontestualizzante a fini accusatori. E proprio per questo non mi pare accettabile che il lavoro critico di contestualizzazione dei curatori, solo perché non denigra ciò che esso espone, debba essere automaticamente considerato un atto di devozione. Anche il dileggio è un'interpretazione, e dunque può essere criticato. Perché allora tale dichiarazione di irrilevanza, e di inutilità? Il libro tenta di far vedere in che senso il dibattito sul "caso Heidegger", lungi dall'essere chiuso, non sia mai ancora stato davvero aperto. Solo una volta aperto davvero sarà possibile comprendere che cosa in esso sia rilevante e cosa irrilevante. Ma, fino a quel momento, sforzarsi di imporre la tesi dell'irrilevanza del "punto" come tale, adducendo a pretesto presunte attitudini devozionali e giustificatorie, sarebbe piuttosto dar prova di mancanza di spirito critico. Certo, c'è anche la possibilità della malafede di chi, pur avendo ben compreso la posta in gioco, si dia da fare per occultarla. Se questo non è il caso del recensore, tanto meglio. Resta il fatto che il modo, e gli argomenti, con cui egli ha pronunciato il suo non expedit costituiscono la migliore prova dell'opportunità che un libro come Scritti politici sia stato pubblicato.

Massimo Amato


Temo che il solo modo «Per aprire un dibattito intonato a giustizia» (così vien reso, p. 371, il francese Pour ouvrir un juste débat) sia di dare ragione ad Amato, ma purtroppo non ne trovo il motivo, anche perché il "caso" è aperto da sin troppo tempo, al punto che la maggior parte dei testi ora riproposti era già accessibile in italiano. Il "punto", poi, è molto chiaro, e proprio per questo non è così importante tornarci ciclicamente: Heidegger è stato iscritto al partito, e rettore (1933-34), e professore a Friburgo sino all'arrivo dei Francesi nel '45, e membro di importanti istituzioni, come l'Archivio Nietzsche (e questo sino al 26 dicembre 1942, cioè grosso modo sino all'epoca di Stalingrado). Il "punto" è anche che, invece di indugiare su questi aspetti, è meglio studiare la filosofia di Heidegger, che fortunatamente non è quella che si esprime nelle allocuzioni agli studenti e ai lavoratori del '33-34. Quanto alla tesi di Fédier, non mi pare uno sguardo "radicalmente nuovo", perché consiste nel dire che Heidegger era sì nazista, ma a modo suo, perseguendo propri fini, per esempio la riforma dell'università. II che in un senso è fin troppo ovvio, e in un altro è un oltraggio a quelli che sono morti per davvero. Si vorrà comunque negare che Heidegger si è schierato per il nazismo? Quanto alle motivazioni "chiaramente leggibili, fin dalla presentazione di Zaccaria", sono forse le seguenti: «Il grande e coloro che ne hanno cura (cioè i curatori Fédier, Zaccaria e Amato?) non potranno mai invocare, a difesa della grandezza, la grandezza stessa, lo splendore, la rarità e la nobiltà che le sono propri, ma dovranno scendere nella pianura paludosa, nel luogo sregolato e indecente, e accettare di dover soccombere senza parole» (p. 15). A parte la prosa zarathustriana, è proprio ciò che diceva la signora Heidegger: «Era troppo grande! Tutta invidia! ». Ma un conto è la pietà familiare, un altro l'argomentazione filosofica e la ricostruzione storica.

Maurizio Ferraris



Voci utilizzate nell'articolo

Metodi applicati

Regola del 2 a 1


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