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Da Libro bianco.

Heidegger. Il camerata scomodo

Dagli “Scritti Politici”, in questi giorni nelle librerie, un ritratto dei vizi e delle virtù del grande filosofo

Il pensatore inciampò nella svastica convinto di realizzare un moderno socialismo nazionale. Affermazioni avventate o male interpretate contribuirono a creare la sua cattiva leggenda


Il Giornale, 11 luglio 1998


Luca Leonello Rimbotti


Il passo falso è stato grave, a quanto pare. Martin Heidegger, che a giudizio di molti è stato il maggior filosofo del Novecento, si compromise col regime nazionalsocialista, da cui accettò la nomina a rettore dell'Università di Friburgo nel 1933 e con cui per un periodo collaborò attivamente. Iscritto al partito fino al 1945, contribuì in pratica al prestigio del Terzo Reich in patria e all'estero. In più, ha lasciato alcuni scritti dai quali, relativamente ai primi anni, traspare un'evidente adesione alla politica di Hitler e a certi ideali della «rivoluzione nazionale». E come se non bastasse, nel dopoguerra si chiuse in un mutismo inquietante su delicate questioni (ad esempio l'olocausto), negando la soddisfazione di una condanna aperta dei misfatti nel frattempo venuti alla luce. Su tutto, infine, pesa l'utilizzo filosofico di alcuni termini e idee-forza che, per assonanza, corrispondono straordinariamente a quelli del vocabolario ideologico nazionalsocialista: dall'attesa per una «nuova Germania» alla ricerca di un «socialismo autenticamente tedesco»; dall'idea di «uguaglianza nel comando e nell'obbedienza» a quella di «comunità di destino». Con utilizzo di parole pesanti, in quegli anni fortemente connotate in senso ideologico: Führung, il comando; Volk, il popolo; Erbe, l'eredità; Gefolgschaft, la comunità dei seguaci: Bodenständigkeit, il radicamento alla propria terra.

Si tratta ora di usare un delicatissimo bisturi per separare il filosofo e le sue idee dai politici e dalle loro mistificazioni. Operazione difficile, dall'esito incerto. Ci prova François Fédier, nel presentare una ricca scelta di articoli, allocuzioni, interviste di Heidegger, raccolti in Scritti politici (1933-1966) (Piemme). L'intenzione lodevole è quella di sottrarre il grande pensatore all’infamante accusa di essere stato un convinto nazista, cosa, questa, peraltro sostenuta da alcuni studiosi di varia estrazione (Victor Farias, Heidegger e il nazismo, Bollati Boringhieri: Hugo Ott, Martin Heidegger: sentieri biografici, Sugarco). Dopo aver ricordato la differenza, che a noi postumi dovrebbe risultare chiara, tra l'ideale dignitoso di un socialismo nazionale e la pratica brutale di ciò che storicamente fu invece il nazionalsocialismo, Fédier così riassume il senso delle idee politiche del filosofo: «Heidegger credeva che, esponendo con chiarezza ciò che l'ideale di un socialismo autentico richiedeva e riservava al popolo tedesco, si sarebbe potuto avviare, nel cuore di quel popolo, un movimento capace di orientare, verso il socialismo nazionale, l'azione di un partito che portava esso stesso il nome di "nazionalsocialista". Quello che Heidegger dice nei suoi "discorsi" e nei suoi "articoli" resi pubblici durante il suo rettorato, può essere letto come il tentativo di far comprendere che cosa sia un socialismo e in cosa consista la particolarità tedesca».

Malauguratamente, per esprimere questi suoi pensieri, Heidegger si servì di concetti e termini uguali a quelli usati dai nazisti: la decisione del capo, la comunità di popolo, la volontà come legge dell'essere, la potenza delle «forze fatte di terra e di sangue», il cameratismo fra lavoratori manuali e lavoratori intellettuali, e così via. Tutto questo non era molto distinguibile, agli occhi dei contemporanei, da quanto affermavano e scrivevano in quello stesso periodo i maggiori esponenti del regime. Heidegger si lasciò sfuggire molte frasi che ancora oggi gettano nella costernazione i suoi molti allievi e ammiratori. Ad esempio, nel novembre del 1933, rivolto ai suoi studenti, così si esprimeva: «Il Führer stesso, e lui solo, è la realtà tedesca di oggi, ma è anche la realtà di domani e quindi la sua legge. Imparate a sapere sempre più profondamente: d'ora in poi, ogni cosa richiede decisione e ogni azione responsabilità. Heil Hitler». Basta scegliere a caso. Nel giugno dello stesso anno, aveva celebrato la festa - tipicamente nazionalsocialista - del solstizio d'estate, esaltando il fuoco, la lotta e l'azione: «La rivoluzione tedesca non dorme, sparge la sua nuova fiamma tutt'intorno e illumina il cammino sul quale, per noi, non c'è più ritorno». Bandiere, saluti, canti, e quell'impossibile distintivo che il filosofo portò all'occhiello fino all'ultimo giorno.

Mancava qualche cosa? Purtroppo, dobbiamo dire che rileggendo queste frasi, tanti dubbi rimangono. E' un fatto che fu Heidegger, e non i suoi vari biografi, a parlare di «grandezza e verità interna» della rivoluzione nazionalsocialista. Pur non essendo mai stato razzista nel senso violento a noi noto, egli si mosse pur sempre all'interno di un regime che conobbe altri casi di intellettuali apertamente schierati senza bisogno di suonare il dissennato tasto antisemita: da Carl Schmitt a Ernst Bergmann, da Arnold Gehlen a Otto Rahn. Cosa fu, allora? Debolezza di filosofo? L'idealista che sogna la comunità di popolo e sbaglia Messia? Può darsi. Ma forse, non è poi così importante dirimere la questione. Anche Platone andò a Siracusa, s'innamorò del tiranno, si illuse che le idee potessero essere realizzate in politica, si compromise. Ma è rimasto Platone.



Voci utilizzate nell'articolo

Silenzio di Heidegger

Frase sul Führer

Distintivo del Partito

Verità e grandezza interne


Metodi applicati

Coincidentia verborum


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