1980919IPO

Da Libro bianco.

Oltre il pregiudizio e senza revisioni. Il “Caso Heidegger”

Memoria/Storia del pensiero


Il Popolo, 19 settembre 1998


Rocco Ronchi


"Chi può lusingarsi di leggere correttamente?" Per Simone Weil una lettura non erronea era questione di giustizia e di carità. Le occasioni, infatti, sono rare - il ladrone sul Golgota non avrebbe più avuto una seconda opportunità -, corrispondervi significa riconoscerle. saperle leggere sfuggendo "le opinioni suggerite dalla pesantezza", quelle prodotte dal "Grande Animale", vale a dire dal conformismo sociale e dal pregiudizio. Una lettura giusta è allora, secondo la Weil, quella lettura che è sempre pronta ad ammettere "che un altro e altro da quello che si legge in lui quando è presente (o quando si pensa a lui), (...) che è certamente altro, forse totalmente altro da quel che vi si legge". Non si tratta solo del paradosso del Dio-uomo, al quale queste parole sulla lettura sembrano naturalmente riferirsi, ma di "qualunque essere", perché "qualunque essere grida in silenzio per essere letto altrimenti". Chi abbia avuto la pazienza in questi ultimi vent'anni di confrontarsi sistematicamente con quanto François Fédier ha scritto a proposito del tanto discusso "caso Heidegger" non può non riconoscere nella sua opera di paziente ermeneuta e di inflessibile storico questa urgenza etica. Si tratta di combattere, attraverso una lettura non erronea, lo scandalo gettato su di un pensiero e su di un uomo accusati, spesso con la fabbricazione di prove, di essere complici della peggiore e ineguagliabile barbarie del secolo: il nazismo e lo sterminio. Si tratta, dopotutto, di combattere una battaglia illuministica, perché, come scrisse Goethe, "il vero oscurantismo non consiste nell'impedire la diffusione di ciò che è vero, chiaro, utile, ma nel mettere in circolazione ciò che falso". E di falsità sul caso Heidegger ne sono state scritte molte e gratuitamente. Solo per citarne alcune, tra le più odiose: che sia stato antisemita, che abbia proibito l'accesso all'Università al suo maestro Husserl, che abbia magnificato l'aggressione all'Unione Sovietica, che abbia fatto lezione in divisa da SA, che sia rimasto segretamente nazista ben oltre le sue dimissioni da rettore dell'Università di Friburgo ecc.

Nel suo libro del 1988 Heidegger: anatomie d'un scandal, Fédier pone la parole fine su queste dicerie che, grazie al libello diffamatorio di Victor Farias (Heidegger et le nazisme, 1987), erano tornate in auge nella comunità filosofica e sulle pagine dei giornali. Fa quasi tenerezza l'acribia con cui Fédier persegue il suo obiettivo di giustizia nella lettura, perché dietro al rigore e allo scrupoloso esame dei fatti e delle testimonianze si intuisce l'amore e la riconoscenza verso un pensiero ingiustamente diffamato e la fedeltà nei confronti del proprio maestro francese, Jean Beaufret, il cui ruolo nella diffusione del pensiero heideggeriano in Francia è ben noto. Restano tuttavia quei testi, quelle allocuzioni, quegli appelli che documentano il concreto impegno politico assunto da Martin Heidegger in occasione dell'infelice anno di rettorato - dall'Aprile del 1933 all'Aprile del 1934. E tra essi un posto di assoluto rilievo è senz'altro occupato dal celeberrimo Discorso di rettorato pronunciato sabato 7 Maggio 1933 in occasione della cerimonia ufficiale di insediamento di Heidegger come nuovo rettore dell'Università di Friburgo. Con grande coraggio è proprio con questi testi così irrimediabilmente compromessi che si misura Fédier nella prefazione agli Scritti politici di Martin Heidegger. Quasi impietosamente ciò che Heidegger retrospettivamente definiva la "grösste Dummheit (la più grossa stupidaggine)" della sua vita è qui seguita passo a passo. Accanto a questi scritti ne compaiono altri relativi al periodo immediatamente successivo alle dimissioni da rettore, nonché le dichiarazioni fatte dal filosofo alle autorità universitarie nell'immediato dopoguerra. E' infine riportata la famosa intervista concessa al settimanale "Der Spiegel" nel 1966 e pubblicata solo dopo la sua morte del filosofo (1976).

E' ben nota la riservatezza di Heidegger rispetto ai fatti che lo videro coinvolto nell'anno di rettorato. I maliziosi in quel silenzio, rotto solo da qualche rara dichiarazione, non hanno certo perso l'occasione per leggervi un meschino tentativo di dissimulazione delle colpe accumulate. Come se Heidegger, dopo il 1945, tacendo o esprimendosi con grande pudore, avesse voluto lasciar cadere nell'oblio un passato quasi criminale. Fédier, invece, in quel silenzio percepisce il grido di cui parlava la Weil, quello che con cui "un qualsiasi essere" chiede, nel silenzio e attraverso il silenzio, di essere letto altrimenti. La premessa del ragionamento di Fédier non lascia adito a sospetti di revisionismo. Se Heidegger, egli scrive, fosse veramente stato un convinto nazista e un antisemita, non vi sarebbe motivo di leggerlo, di studiarlo e di discuterlo: "è mia convinzione che se un "pensiero" fosse essenzialmente nazista, esso non meriterebbe niente di più che l'energia sufficiente a liberarsene al più presto. Né sdegno né disprezzo, ma orrore" (Heidegger e la politica, pp. 115-116). Dunque occorre comprendere ciò che in quel fatidico anno egli ha effettivamente detto. E' innegabile che Heidegger abbia creduto nel 1933 alla possibilità di dare un fondamento, anche grazie alla rivoluzione nazionalsocialista a ciò che in Essere e Tempo aveva designato, con una bellissima espressione, "l'avventura della comunità, la storia del popolo". E' altrettanto innegabile che si sia trattato di un abbaglio, dalle conseguenza nefaste, dal momento che tale speranza passava sotto silenzio, considerandola meramente retorica e destinata ad esaurirsi presto, la caratterizzazione antisemita e razziale del programma hitleriano. Ma la questione sollevata da Heidegger - la lotta per il radicamento contro la disgregazione dell'Europa spirituale - era all'ordine del giorno nel dibattito intellettuale europeo. Alfredo Marini nella sua densa prefazione all'intervista dello "Spiegel", pubblicata da Guanda nel 1987, mostra come essa scaturisse direttamente dallo stesso impianto fenomenologico del discorso heideggeriano e come essa si ritrovi operante nella celebre conferenza di Praga del 1935 del maestro di Heidegger, Edmund Husserl. dove si può leggere che "le uniche battaglie veramente significative del nostro tempo sono battaglie tra un'umanità che è già franata in se stessa e una Umanità che e ancora radicata su un terreno (Boden) e che lotta appunto per questo inserimento o uno nuovo". E Simone Weil, in L'enracinement, pubblicato nel 1949, ma risalente ai primi anni della guerra, scriveva: "il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell'animo umano. E' anche uno dei più difficili da definire". E' anzi lo sradicamento, con il suo contagio irresistibile, ad essere foriero, secondo la Weil (ma anche secondo Hanna Arendt in L'Origine del totalitarismo), delle scorciatoie totalitarie. Al lettore italiano si potrebbe poi ricordare come Cesare Pavese, nel 1943, attribuisse allo slogan nazionalsocialista "Blut und Bloden", per noi senz'altro impronunziabile senza vergogna, quasi il valore di una dichiarazione di poetica. E tanti altri esempi (si pensi al dibattito in Francia inaugurato da Bataille e dal Collegio di sociologia) potrebbero essere addotti a riprova, del fatto che per un lungo e delicato periodo della storia europea del XX° secolo era diffusa e operante presso la più avanzata comunità intellettuale la convinzione di un tramonto inevitabile della civiltà liberale, accusata di essere strutturalmente incapace di dare un fondamento etico al legame sociale.

Una lettura corretta del Discorso del rettorato non può allora confrontare le tesi enunciate da Heidegger nel 1933 con ciò che il nazismo sarebbe divenuto a giochi fatti. Non si può, scrive Fédier riprendendo un motivo bergsoniano, far retroagire il vero e ricostruire un processo alla luce del suo risultato. Non solo si è ingiusti con Heidegger, ma si evita di comprendere quale sia la natura della questione che, anche grazie a quell'abbaglio, veniva là sollevata. Perché il problema del fondamento del legame sociale nell'epoca della tecnica, resta ancora più che mai questione aperta per noi che, oltre a dubitare della ricetta democratica e liberale, abbiamo visto consumarsi drammaticamente ogni tentativo "novecentesco" di soluzione. Quando Heidegger, nell'immediato dopoguerra dovette difendersi dall'assurda accusa di filonazismo (proprio lui che aveva dedicato gli ultimi anni di insegnamento friburghese a lottare corpo a corpo contro ogni interpretazione biologica, razziale e volgarmente politica della filosofia di Nietzsche!), sottolineò con enfasi come il suo Discorso fosse di fatto censurato dalle autorità naziste. Il che sta a testimoniare come egli rivendicasse positivamente nel senso di una opposizione al principio del nazismo, proprio il contenuto di quel Discorso che gli veniva rinfacciato come segno indubitabile della sua "colpevolezza"! Lungi dall'essere un discorso di circostanza o di compromesso, il Discorso del '33, come sottolinea Marini, deve dunque essere considerato per la sua densità filosofica "un testo capitale di Heidegger". Ancora nell'intervista concessa allo "Spiegel" Heidegger sembra gridare in silenzio perché quel suo indiscutibile errore sia letto altrimenti: come proposta di un radicamento della comunità umana universale nella differenza, in un ambito estraneo ad ogni mitologia dell'origine, ad ogni rassicurante feticismo di stampo folklorico e razziale. Proposta rivoluzionaria di un radicamento della comunità nello spaesamento essenziale che costituisce il tratto costitutivo dell'uomo esposto alla meraviglia dell'essere (dunque niente in comune con le certezze accecanti dell'ideologia). Forse il lettore auspicato da Heidegger manca ancora. Troppo forte è la ripulsa morale per tutto ciò che, anche soltanto di sfuggita, è passato accanto ai nazismo. Fédier, insieme ai suoi validi collaboratori italiani, ha senz'altro contribuito a sgombrare il campo per un confronto più libero, ma lungo è ancora il cammino, il quale non può certo concludersi con una semplice "riabilitazione" di Heidegger o con una normalizzazione del suo pensiero eversivo.

Martin Heidegger. Scritti Politici (1933-1966), a cura di Gino Zaccaria, prefazione e postfazione di François Fédier, Piemme, Casale Monferrato 1998, pp. 412. £ 40.000 Martin Heidegger. Ormai solo un dio ci può salvare, a cura di Alfredo Marini, Guanda, Milano 1987, pp. 156. £ 14.000 François Fédier. Heidegger e la politica, Egea, Milano 1993. pp. 273. £ 32.000


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