1981101IRL

Da Libro bianco.

L'errore di Heidegger

MARTIN HEIDEGGER, Scritti politici (1933-1966), prefazione, postfazione e note di François Fédier, a cura di Gino Zaccaria, Casale Monferrato, Piemme, 1998, pp. 412, Lit 40.000


La Rivista di Libri, (18), Novembre 1998


Sandro Barbera


Scritti politici è un titolo pomposo per una realtà più modesta, da tempo nota e discussa: si tratta di una scelta degli interventi e allocuzioni di Heidegger degli anni 1933-1934 gravitanti intorno alla sua esperienza di rettore a Friburgo e al tentativo, come Jaspers testimoniò nel '45, «di arrivare spiritualmente al vertice del movimento nazionalsocialista» (1). Fanno parte della scelta anche l'autodifesa di Heidegger del '45 e la celebre intervista al settimanale Der Spiegel del '66. Corredati di un apparato di note e di una pre- e postfazione di François Fédier, già noto al lettore italiano per una sua crociata contro il vilipendio a Heidegger perpetrato dal libro di Victor Farías, (2) questi scritti vengono presentati dal curatore italiano come il testo che ribalterà il verdetto ingiustamente pronunciato sulla partie honteuse du philosophe. Purtroppo, essi non diventano meno deprimenti per il fatto che la traduzione, anziché sui testi originali, è condotta sulla versione francese (approntata nel '95 da Fédier per Gallimard) o, per usare l'eufemismo del curatore italiano, «mantenuta in costante riferimento all'edizione francese. Così, la traduzione franco-italiana rende la Selbstbehauptung del discorso di rettorato, solitamente "autoaffermazione", con una "quadratura" e "squadratura" che affliggono il lettore per tutto il volume, benché lo stesso Heidegger spieghi che il termine significa affermare, di una cosa, l'essenza originaria. Pur rassegnato all'argot degli heideggeriani, il lettore troverà forse eccessivo che «l'autosquadrantesi quadratura in se stessa dell'Università autorizza il risoluto inquadramento senziente di sé a trasformarsi nella genuina capacità di far quadrare autonomamente il proprio bilancio». L'amore di quadratura porta anche a intenzionali falsificazioni del testo. Dove Heidegger parla a esempio, con semplicità, di una decisione ultima che «tocca il confine estremo dell'esistenza del nostro popolo. E cos'è questo confine?», lo si costringe a dire in franco-italiano che la decisione «mette in gioco il nostro popolo fino all'estrema squadratura della propria esistenza. E qual è il punto, il confine che un tale squadrare tocca?». Ci limitiamo ora a fare tre esempi del modo in cui la volontà apologetica dei curatori deforma il testo heideggeriano con la traduzione, e mediante l'apparato delle note e la prefazione contribuisce a renderlo definitivamente impenetrabile. Gli esempi riguardano parole ricorrenti in questi scritti come "Führer", "opera" e "nazionalsocialismo".

Poiché Fédier è convinto, come già ci aveva fatto sapere anni fa, che bisogna restituire alla parola Führer la sua bonaria quotidianità, poi disonorata da un perverso uso politico (benché sia proprio in questo inequivocabile senso che Heidegger la usa), ci propone la traduzione "guida" e confida che il solerte lettore sappia distinguere da una guida alpina o turistica, o magari dal «poeta come Führer» di cui si parlava nel Circolo letterario di Stefan George. Ma esiste una vendetta del testo violato e succede così che per evitare il grottesco occorre ritornare – a esempio per Führerdiktatur o Führerprinzip – al sinistro Führer a cui tutti i traduttori si attengono. In questo come in altri casi, traduzione, note e prefazione cospirano a una strategia di decontestualizzazione che toglie i testi dalla duplice relazione attraverso i quali essi divengono intellegibili, ossia da un lato con l'evoluzione interna del pensiero di Heidegger e dall'altro con gli eventi degli anni 1933-1934, che scandiscono il suo rettorato e i connessi progetti di riforma dell'Università. Così nel lungo e importante discorso di Lipsia dell'11 novembre 1933, dove Heidegger collega intimamente la temperie politica con la «domanda sull'essere» o con il coraggio di sperimentare gli «abissi dell'esistenza» – e dove in particolare compare a tutto tondo la categoria di «opera», indispensabile per intendere l'intrico di filosofia e politica nell'Heidegger degli anni Trenta – proprio lì una traduzione ridondante e fuorviante della parola werkgerecht (conforme all'opera) cospira con il totale silenzio del commentatore. Da tempo invece la ricerca su Heidegger, grazie soprattutto alla puntigliosa analisi di Albert Schwan, (3) ha individuato in questo concetto la cerniera tra i testi filosofici e quelli politici, che addirittura vengono così ad assumere rispetto ai primi un valore di anticipazione. Nell'opera, in forma di opera d'arte e opera-stato, la verità dell'essere si fa evento storico e il popolo può collocarsi nel «destino» che gli è assegnato. Mentre la struttura della socialità, dell'«essere con», si determina in base alla funzione di «servizio» che lega gli uomini all'opera, la produzione e la salvaguardia dell'opera è affidata ai «creatori» e ai «custodi», assumano essi la figura dei poeti, dei filosofi, dei fondatori dell'ordinamento politico. La relazione del Führer al suo seguito mediante la «conformità all'opera» diventa un tema centrale della riflessione di Heidegger, e il principio del Führer la via regia della sua adesione al nazismo. Malgrado Fédier abbia anni or sono dichiarato la sua contrarietà all'interpretazione di Schwan – a lui evidentemente sospetta già per il fatto che istituisce una relazione stretta tra la filosofia e le opzioni politiche – e qui la eviti mediante l'ambiguità della traduzione e il silenzio dei commenti, i testi politici non cessano di offrirci concetti analoghi a quelli elaborati in sede di riflessione filosofica, o addirittura di anticipare in modo rudimentale argomenti perfezionati da Heidegger solo più tardi. Spesso nei suoi testi degli anni Trenta è difficile decidere se ci si trovi di fronte all'anticipazione politica di una riflessione filosofica o a ciò che Schwan chiama adattamento conformistico del lessico filosofico a quello della propaganda politica. E' quanto avviene quando si mette a confronto la parola d'ordine "Sangue e suolo" ripetutamente evocata nei discorsi del '33, e il tema della "terra" a cui l'opera rimane fedele, cosicché nel suo progettare un "mondo" non cade preda dell'usura e della manipolazione tecnica.

Tuttavia l'adesione di Heidegger al nazismo non è condizionata dal carattere regressivo di fantasie völkisch, ma per l'appunto dal confronto con il problema della massificazione e della tecnica. L'«intima grandezza» del nazismo sta, come recita una fin troppo discussa frase parentetica dell'Introduzione alla metafisica del '35, nel tentativo di risolvere l'incontro tra l'uomo moderno e la tecnica planetaria. E’ lecito suppone che Il lavoratore (1932) di Ernst Jünger, soprattutto per la dialettica che istituisce tra la tecnica come nichilistica furia del divenire che scardina ogni permanenza e il suo fondarsi sull'immobile quiete dell'essere rappresentata dalla «forma» o «tipo» del lavoratore/soldato, sia stato per Heidegger un'esperienza centrale, oltre che per affrontare il problema Nietzsche (come egli stesso dichiara), per individuare nel principio del Führer la via d'accesso per la soluzione del problema della tecnica. L'introduzione del principio del Führer nell'Università non solo ribalta la tradizione liberale humboldtiana come inadeguata alla nuova realtà politica, ma ha lo scopo assai più ambizioso di coordinare «opera» politica e nuovo sapere filosofico al fine di collocare il popolo nell'«epocale» apertura dell'essere. Ben lungi dal contentarsi poco ambiziosamente di ottenere – così Fédier – «una metamorfosi del sapere cui potrebbe condurre lo sforzo di così tanti colleghi», il disegno di Heidegger come Rettore/Führer è una trasformazione dell'Università che faccia di essa il luogo istituzionale in cui i saperi sono sottratti all'alienazione tecnico-scientifica e diventano articolazioni di una politica e di una filosofia che hanno saputo scorgere il destino a cui il popolo è assegnato. Il discorso di rettorato interpreta l'«essere all'opera» come teoria che scaturisce da una «prassi genuina», ossia non contaminata dall'alienazione tecnica, e inizia così una riflessione sulla natura del lavoro in cui di nuovo vi è più che un'eco di Jünger. La categoria di lavoro è tematizzata oltreché nel discorso del novembre 1933 "Lo studente tedesco come lavoratore", finora noto solo attraverso resoconti dell'epoca, nel discorso radiofonico "Perché restiamo in provincia". Sotto la scorza della stucchevole fraseologia völkisch anche qui il tema del lavoro, non come tracotanza tecnica ma come conformità all'opera e fedeltà alla terra, è affidato all'equiparazione tra il contadino, che manipola ma anche custodisce la terra, e il filosofo ritiratosi nella baita della Foresta Nera, due figure accomunate dall'opposizione alla vita cittadina, che vilipende l'essenza della terra ed è tecnica incapace di opere. Il progetto di riforma dell'Università e dell'educazione tedesca, che Heidegger cerca di imporre senza successo a livello nazionale, si basa sulla figura dello studente che è contemporaneamente milite e lavoratore (servizio di studio, servizio di difesa della patria, servizio di lavoro). Ma così come non si preoccupano di spiegarci i riferimenti filosofici sottesi a questo progetto, i curatori rifiutano sistematicamente di darcene le coordinate storico-politiche. Preferiscono impegnarsi in improbabili paralleli con Lassalle o Rosa Luxemburg, o in un esilarante excursus di due pagine sul "Sieg Heil!", che crea sì «imbarazzo» e «costernazionei» (s'intende presso i fans di Heidegger), ma che in definitiva è «equivalente al latino Ave», mentre l'espressione "Ski Heil!" viene usata dagli sciatori come reciproco augurio di buona discesa. Viene da chiedersi se gli editori, Gallimard e Piemme, si rendano conto di quel che pubblicano.

Quanto al contesto storico del rettorato di Heidegger, è umano che Fédier si avvalga di vistosi omissis su fatti come l'espulsione dall'Università dei docenti ebrei nell'agosto e nell'ottobre del '33, ed eviti di ricordare che il Baden è il Land in cui l'applicazione del «paragrafo ariano» della legge sui funzionari pubblici dell'aprile 1933 è molto più drastica e radicale che altrove in Germania, così da non permettere equivoci sulle prospettive di politica razziale del nuovo regime. Altrettanto umano è che, per minimizzare le responsabilità di Heidegger mostrando che le sue scelte erano conformi a quelle della maggioranza dei suoi colleghi, ricorra a meschini sotterfugi, come quello di dichiarare numerosi i professori che invitarono i tedeschi a votare "sì" a Hitler nel plebiscito del novembre 1933, dopo lo scioglimento del Reichstag: furono in realtà 8, una davvero selezionata avanguardia. Oppure che escluda dalla scelta documenti decisivi per mostrare la mentalità totalitaria del rettore Heidegger, come il testo della comunicazione al Reichsführer degli studenti relativo alla sospensione dell'associazione degli studenti cattolici Ripuaria (febbraio 1934). Ma l'omissione più grave di informazione, e tale da precludere del tutto l'intelligenza di questi testi, riguarda il sistema delle analogie che intercorrono tra i progetti riformatori di Heidegger e quelli provenienti dalle istanze del regime, del partito, delle SA, e degli studenti nazisti, analogie che erano note, prima ancora delle ricerche e ipotesi di Victor Farías e Hugo Ott,4 grazie alla ricca e sempre indispensabile documentazione raccolta nel 1962 da Guido Schneeberger. (5) La mossa davvero decisiva della traduzione di Fédier, e architrave di tutta la sua costruzione apologetica, consiste nel duplice arbitrio di sostituire la parola "nazionalsocialismo" con "socialismo nazionale" o con "nazismo". Il primo termine egli lo riferisce all'immagine propagandistica che soprattutto nei primi anni del regime si sarebbe vittoriosamente imposta ai contemporanei, il secondo al «regime quale noi lo conosciamo dopo il suo compimento», compimento di cui non veniamo qui a sapere la data inaugurale, ma che altrove Fédier stabilisce nel 1939. Importante non è dunque indagare la natura delle fantasie politiche di Heidegger, ma stabilire che lui e i suoi "contemporanei" avevano sì avuto torto, come Fédier concede, a non opporsi al nuovo regime fin dal '33, ma non potevano oggettivamente rendersi conto delle reali proporzioni di tale torto. Questa trovata sui due nazismi, accolta anche da Nolte, sia pure in modo più circospetto e sofisticato, nella sua monografia su Heidegger (egli parla per scagionarlo di una situazione che nel '33 sarebbe ancora fluida e aperta), (6) risale in realtà allo stesso Heidegger, benché egli, per quanto ne sappiamo, l'abbia usata una volta sola, per poi lasciarla cadere del tutto. In risposta a una lettera del vecchio allievo Herbert Marcuse che gli chiedeva conto del suo passato nazista, nel gennaio 1948 Heidegger rispondeva infatti in modo indiretto, accampando la difficoltà di discutere con persone che non erano vissute in Germania nel '33 e che giudicavano l'inizio del nazismo a partire dalla sua fine. Allora la discussione non poté procedere oltre perché troncata bruscamente da Marcuse, secondo il quale il parallelo, avanzato da Heidegger nella stessa lettera, tra lo sterminio degli ebrei e il destino dei tedeschi orientali eccedeva ogni possibilità di «conversazione tra uomini». (7)

A dimostrazione dell'alterità tra "socialismo nazionale" e "nazismo", e dell'impossibilità di giudicare il primo col metro del secondo, Fédier adduce una congerie male assortita di testimonianze, ma la più forte di tutte, quella che dovrebbe convincere i più ostinati, è desunta dalla prefazione di Hans-Joachim Schoeps ai suoi scritti degli anni Trenta, su cui Fédier si diffonde per quattro pagine e di cui cita l'affermazione che «è un impostore chiunque sostenga che negli anni dal '33 al '35 fosse possibile prevedere i crimini dei nazisti, ciò che naturalmente è un'asserzione lapalissiana se si prende il termine previsione alla lettera, e invece un impegnativo atto di revisionismo precoce se si intende stabilire una difformità di natura tra un periodo iniziale e un periodo finale del regime nazista. Ma chi era Schoeps? Lo si può veramente considerare un testimone imparziale dell'epoca? Vale la pena di considerare più da vicino, integrando magari le informazioni fornite da Fédier, questo che egli presenta come un modello di testimone distaccato e lungimirante degli eventi dell'epoca. Verso la fine degli anni Sessanta a Schoeps, docente di storia delle religioni all'Università di Erlangen, veniva chiesto dall'editore del giornale presso cui collaborava, il Berliner Tagesspiegel, di difendersi dall'accusa di avere fatto attività pubblicistica a favore del regime nazista e della sua politica razziale negli anni 1933-1935. Dopo avere invano tentato di diffamare il suo accusatore come spia della Germania Est, Schoeps si difendeva dall'imputazione (identica a quella rivoltagli nel giugno del '36 dall'organo degli emigrati tedeschi Pariser Tageblatt, che lo definiva «il più fedele a Hitler di tutti i riformatori dell'ebraismo tedesco») ripubblicando con il titolo Bereit für Deutschland! (Pronti per la Gemania!) (8) una scelta dei sui scritti politici di allora, che corredava di un'introduzione in cui per l'appunto si legge in funzione di autodifesa l'affermazione sugli impostori citata da Fédier. In quegli anni Schoeps era stato l'ideologo di un gruppo di giovani ebrei che, riconosciutisi prima nelle leghe naturistico-patriottiche del Movimento Giovanile, ne continuava le istanze con l'intenzione di unificare identità ebraica e tradizione prussiana in una sintesi avversa sia all'ideologia "liberal-borghese" dell'assimilazione, sia al sionismo. In scritti di notevole efficacia retorica, ispirati alla rivoluzione conservatrice e in particolare a Ernst Jünger per il tema del tramonto dell’individualismo liberale e dell'affermarsi del nuovo prussianesimo con il trionfo dell'uomo massificato, il soldato-lavoratore generato dalla guerra), nel biennio 1933-34 Schoeps attribuisce al nazismo il «merito epocale» di avere neutralizzato il bolscevismo. L'insistenza sull'elemento razziale e l'esclusione dei non ariani dal nuovo stato può bensì creare qualche difficoltà al riconoscimento della germanicità degli ebrei; essi debbono però capire che il richiamo all'elemento biologico si inserisce in una «terapia radicale» di «rinnovamento dei succhi vitali» del popolo, così da rendere necessario il «riferirsi ai temi elementari della razza e del sangue»: «Il nazionalsocialismo salva la Germania dal declino; la Germania vive ora la sua rinascita basata sull'elemento popolare (völkische Erneuerung)». (9) Nello scritto antisionista "Noi ebrei tedeschi" del giugno 1934, Schoeps dichiarava di non dover cambiare una virgola a quanto aveva scritto nel '32, quando esortava gli ebrei a non provare «risentimento» verso Hitler e i suoi seguaci, ma anzi a capire che se per questi ultimi l'ebreo è un «principio euristico» per riassumere tutto ciò che si odia, la colpa è soprattutto degli ebrei, anzi degli «ebrei sradicati» che si sono «legati in modo così esposto con le forze spirituali della sinistra». (10) Malgrado le fantasie di Schoeps, l'esodo di intellettuali ebrei dalla Germania comincia nei primi mesi del '33; in febbraio vi è la caccia ai comunisti, con il loro internamento in massa (il campo di Dachau è inaugurato ufficialmente e pubblicamente da Himmler in aprile); in maggio i roghi dei libri; dopo le elezioni di marzo si intensificano le violenze contro gli avversari politici e contro gli ebrei, fino al boicottaggio degli esercizi commerciali di questi ultimi, la legge sui funzionari pubblici e quella sulla percentuale dei non ariani nelle scuole, ecc. ecc. Non il '33, come è noto, poteva lasciare dubbi sul carattere terroristico e violento del nuovo regime: dubbi potevano semmai insorgere con la "normalizzazione" del giugno 1934, dopo l'eliminazione delle SA. Benché per Fédier tutti coloro che, come Heidegger, aderiscono nel '33 al partito nazista e collaborano in posizione eminente con il regime lo facciano per influire sul suo corso – mai per il fatto di essere d'accordo con la natura dei suoi scopi manifesti – solo una disinvoltura senza confini nell'esercizio dell'apologia può trasformare Hans-Joachim Schoeps da portavoce di una minoranza tragica, ma numericamente irrilevante, in testimone accreditato della communis opinio dell'epoca, per non parlare poi di quella degli ebrei tedeschi. Essa è rappresentata piuttosto da chi, come Victor Klemperer, tenace assertore dell’assimilazione e conservatore liberale (Fédier menziona per il suo libro Lingua tertii Imperii), non si era fatto accecare nell'osservazione della realtà quotidiane dai fumi dell'ideologia e dall'antibolscevismo a qualunque costo. Nei suoi diari del marzo-aprile 1933, che ci hanno dato informazioni insostituibili sull'atmosfera di allora, questo quieto e politicamente distratto professore di filologia romanza ci istruisce senza sosta sul clima di terrore, insicurezza, «nuda violenza», «come prima di un progrom nel più profondo medioevo e nelle plaghe più interne della Russia zarista» che vigeva in quei mesi, anche a dispetto del revisionismo di Fedier. (11) Non tutti saranno d'accordo con la tesi che la filosofia di Heidegger possa essere letta prescindendo dalle associazioni con il violento esercizio del potere nazista fino al 1934; tutti, penso, troveranno preoccupante che per sostenerla si ricorra a gravi e a volte tragicomiche distorsioni della documentazione storica.

Note Cfr. la lettera a F. Oelkers del 22.12.1945, in M. Heidegger e K. Jaspers, Briefwechsel 1920-1963, a cura di ‘W. Bimel e H. Saner, Monaco di Baviera, Piper, 1992, p. 272. V. Farias, Heidegger e il nazismo, Torino, Bollati Boringhieri. 1988 (ed. orig. 1987). A. Schwan. Politische Philosophie im Denken Heideggers, Colonia e Opladen, Westdeutscher Verlag, 1989 (2a ed. ampliata). H. Ott, Martin Heidegger: sentieri biografici, a cura (di F. Cassinari, Milano, SugarCo, 1990 (ed. orig. 1988). G. Schneeberger, Nachlese zu Heidegger, Berna, ed. in proprio, 1962. E. Nolte, Martin Haidegger tra politiva e storia, a cura di N. Curcio, Roma-Bari, Latenza, 1994 (ed. orig.1992). Cfr. la recensione di I. Sheeban, "Un normale nazionalsocialista", la Rivista dei Libri, n. 3 marzo 1994, pp. 34-36. In R. Wolin, The Heidegger Controversy. A Critical Reader, Cambridge, MIT Press, 1993 pp, 152-63 H.J. Schoeps, Bereit für Deutschland! Der Patriotismus deutscher Juden und der Nationalsozialismus, Berlino, Haude & Spener, 1970. Ivi, p. 106. Ivi p. 151. V. Klemperer, Ich will Zeugnis ablegen bis zum letzten. Tagebücher 1933-1941, a cura di W. Nowojski e H. Klemperer, Berlino, Aufbau, 1995, p. 15.

Sandro Barbera insegna Storia della cultura tedesca all'Università di Pisa. Recentemente ha curato i Manoscritti giovanili 1808-1818 di Schopenhauer (Adelphi, 1996) e pubblicato il volume Introduzione al "Mondo come volontà e rappresentazione" di Schopenhauer (Carocci. 1998).



Voci utilizzate nell'articolo

Discorso di rettorato

Allineamento dell'Università

Colleghi e studenti ebrei


Metodi applicati

Coincidentia verborum

Reductio ad Hitlerum

Presunzione di connivenza


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