1990201IRL

Da Libro bianco.

Interventi. A proposito di “L’errore di Heidegger” di Sandro Barbera (n. 11, 1998, pg 18-20)

La Rivista dei Libri, (43) 2 febbraio 1999


Gino Zaccaria


Sandro Barbera firma – su queste colonne, nel numero dello scorso novembre, con il titolo "L'errore di Heidegger" – una lunga recensione degli Scritti politici heideggeriani (Piemme, 1998): gli obiettivi da distruggere, adesso, non sono più "soltanto" la persona del filosofo e il suo pensiero, i quali sarebbero "affetti" – secondo l'estenuante ritornello dell'era Farías – da antisemitismo e da nazismo, ma innanzitutto i loro cosiddetti "avvocati difensori", cioè François Fédier (il curatore francese degli Écrits politiques – Gallimard, 1995) e il sottoscritto, colpevole di aver perorato la "causa heideggeriana" anche in Italia.

Non posso entrare – per ragioni di spazio – nel merito degli argomenti propriamente filosofici di Barbera. Ciò dovrà essere rimandato ad altra occasione (posso tuttavia assicurare che, su ogni punto sollevato dal recensore, sia Fédier sia io siamo in grado di controbattere costruttivamente, senza alcuna , «omissione»). Invito nel frattempo il lettore a studiare attentamente il libro; solo in tal modo egli potrà misurare l'abisso che corre tra il contenuto di quest'ultimo e l'immagine fornita nella recensione.

Mi limiterò a discutere qui di seguito solo i punti oggettivamente contestabili – e che riguardano unicamente il mio personale contributo al suddetto volume; spero che la difesa della mia dignità di studioso – sebbene, sul piano generale, resti qualcosa di assolutamente ininfluente – parli direttamente al singolo lettore e gli permetta di riflettere anche al di là di quanto essa testualmente sostiene.

Sandro Barbara afferma: «... questi scritti vengono presentati dal curatore italiano come il testo che ribalterà il verdetto ingiustamente pronunciato sulla partie honteuse du philosophe. Purtroppo, essi non divengono meno deprimenti per il fatto che la traduzione, anziché sui testi originali è condotta sulla versione francese (approntata nel '95 da Fédier per Gallimard) o, per usare l'eufemismo del curatore italiano, "mantenuta in costante riferimento all'edizione francese"». Ora, tutto questo è assolutamente falso. Si veda la pagina 19 del volume, dove, alla fine della Presentazione, dichiaro il metodo seguito (nel mio lavoro di curatore-traduttore con le seguenti chiarissime parole: «La traduzione dei testi di Heidegger, che è stata condotta sugli originali si è mantenuta in costante riferimento all'edizione francese; nei punti più controversi e decisivi, quest'ultima è stata assunta come guida ... Ho motivato alcune scelte lessicali in poche Note del Curatore ... Alla Prefazione ho apposto una sola nota sulla centrale questione della Selbstbehauptung. Desidero ringraziare ... in particolare: François Fédier, maestro della traduzione heideggeriana, che in vari colloqui, mi ha reso sempre più chiaro il punto focale delle sue analisi...». Chi conosce Fédier lo sa benissimo: egli – esattamente come quel Marx che non potrebbe mai iscriversi a un club che lo accogliesse come suo membro – non accetterebbe in nessun caso di diventare maestro di chi si dichiarasse suo seguace.

Barbera insiste nella sua idea parlando, al capoverso successivo, di «traduzione franco-italiana»; come primo esempio di questo modo di procedere a suo avviso "falsificante" o "manipolante", egli indica la versione di Selbstbehauptung – versione da me fornita motivatamente sulla scorta dell'interpretazione di Fédier; scrive Barbera: «Così la traduzione franco-italiana rende la Selbstbehauptung del discorso di rettorato, solitamente "autoaffermazione", con una "quadratura" e "squadratura" che affliggono il lettore per tutto il volume, benché lo stesso Heidegger spieghi che il termine significa affermare, di una cosa, l'essenza originaria». E dove Heidegger spiegherebbe la cosa in tali termini? Ciò non viene precisato; né potrebbe esserlo, poiché il filosofo insegna l'esatto contrario: il modo migliore per non cogliere l'«essenza originaria» di qualcosa è pretendere di affermarla, cioè di farla divenire l'oggetto di una soggettiva volontà assertoria. Ma il punto critico, a mio avviso, non sta tanto in tali sviste (assolutamente umane), ma nell'idea comune che Selbstbehauptung significhi senz'altro "autoaffermazione". "Auto-affermazione": si tratta di un sostantivo – che nessun dizionario riporta – derivato semanticamente dal verbo rifl. "affermarsi", che significa acquisire credito, farsi valere, imporsi, dare prova certa di sé (come in frasi del genere «la potenza americana si affermò principalmente a partire dalla seconda guerra mondiale»). Il Grande Dizionario della lingua italiana Utet, alla voce "affermarsi", riporta, fra l'altro, una nota del Panzini che suona: «Affermarsi, farsi un nome. Oh, che brutta parola! "Lei si è affermato!" Questa affermazione sarebbe un surrogato della gloria». Potrebbe stare qui la ragione nascosta della dura reazione contro la proposta di abbandonare il vocabolo "autoaffermazione" come resa di Selbstbehauptung: forse si desidera a tutti i costi vedere nell'idea heideggeriana di Università solo il mero surrogato della gloria del sapere scientifico; il che è come dire: si vuole caparbiamente interpretare il suo programma di riforma universitaria come un frutto maturato nell'atmosfera della vanagloria nazista. Ma v'è un motivo – inerente allo spirito del testo heideggeriano – che, direi, ci vieta di pensare nella Selbstbehauptung qualcosa come un'autoaffermazione e simili. Se in quest'ultima parola leggiamo – come ognuno converrà – la volontà di "dar prova certa di sé" al mondo, ebbene come si fa a far convivere tale volontà con il modo in cui Heidegger caratterizza l'essenza della scienza? Nel discorso di rettorato, il filosofo dice a chiare lettere che il genuino sapere scientifico è innanzitutto «un essere esposti, senza alcuna protezione, al nascosto e al non saputo, al problematico, a ciò che è degno di essere posto in questione»; e aggiunge: «Il domandare, implicito in tale porre in questione, non è più allora soltanto la fase oltrepassabile che precede la risposta intesa come acquisizione di un sapere, ma diviene esso stesso la forma più alta del sapere. Il domandare dispiega allora la sua più propria forza, quella di dischiudere l'essenziale di ogni cosa. Il domandare [e non l'affermare o, peggio, l'autoffermarsi] obbliga allora all'estrema semplificazione dello sguardo che diviene così il colpo d'occhio rivolto all'inevitabile». E' un vero peccato che non si sappia e non si voglia leggere in queste parole la più energica presa di distanza da ogni ideologia totalitaria e da ogni dottrina preconfezionata e pronta all'uso! E infine: se prestiamo a Heidegger il pensiero dell'autoaffermazione, non possiamo più parlare – come peraltro si fa (forse ironicamente) nel titolo della recensione – di un suo errore; dovremmo invece dire che Heidegger è tutto un errore, un errore fin dall'inizio, una perversa assurdità da sempre e per sempre. Egli avrebbe infatti compiuto la più miserabile e imperdonabile delle imprese, quella di svendere il proprio prezioso libero lavoro filosofico – informato alla ricerca pura e al domandare radicale – alle potenze della distruzione di ogni questione essenziale e alla violenza criminale dell'"uomo biologico". Molti di noi ne sono assolutamente certi, sebbene finora nessuno, per quanto ne sappia, lo abbia potuto davvero provare. Nonostante la già «da tempo» avviata «ricerca su Heidegger» (Barbera ne parla citando solo (!) la «puntigliosa analisi di Albert Schwan»), resta infatti il problema di come interpretare il suo ritiro politico e quindi di che peso dare al testo "Il rettorato 1933/ 1934. Fatti e rffiessioni" (pp. 239-62). Per quanto mi riguarda, sono convinto che se Heidegger fosse stato davvero un filosofo rinnegato, non si sarebbe mai dimesso dalla più alta carica istituzionale del suo Ateneo; sarebbe andato avanti nella sua opera di svendita e, appunto, di utoaffermazione. Ora, la mia proposta di rendere la parola Selbstbehauptung ricorrendo alla dizione attestata «quadratura» è solo la naturale conseguenza di tale maturata convinzione. Il fatto che essa sia poi in totale armonia con le analisi di Fédier e quindi con l'intento fondamentale di Heidegger non può certo essere assunto come la prova inconfutabile di una mera «volontà apologetica»! Il fastidio e l'irritazione che tale proposta può eventualmente suscitare non sono affatto sufficienti perché si presti scarsa o nulla attenzione ai ragionamenti che la sostengono. (Vorrei ricordare che – in questo genere di questioni – dobbiamo sforzarci di restare sul piano del confronto fra interpretazioni e quindi non scadere mai su quello in cui gli uni – i "critici", i "puntigliosi", gli "storici" – deterrebbero la verità assoluta dei fatti mentre gli altri – gli "apologeti", gli "heideggeriani" – si divertirebbero a distorcerli, e a confondere le acque con un gergo incomprensibile).

Proprio la dovuta attenzione sembra mancare quando Barbera, continuando nella sua critica, asserisce: «Pur rassegnato allargot degli heideggeriani, il lettore troverà forse eccessivo che "l'autosquadrantesi quadratura in se stessa dell'Università autorizza il risoluto inquadramento senziente di sé a trasformarsi nella genuina capacità di far quadrare autonomamente il proprio bilancio"». E chiaro che ciò appaia come un "argot heideggeriano", cioè come una cialtroneria esoterica! Citare il periodo così, senza il necessario contesto, senza il necessario rinvio all'illustrazione delle scelte traduttive, senza la necessaria pietas ermeneutica, ebbene, a che vale? aiuta forse la comprensione? contribuisce a una critica costruttiva? –Anche in questo caso, invito il lettore a consultare il volume: si vedano in particolare le pp. 58-61 (testo e nota) e la p. 316 (nota 3); la fatica sarà sicuramente ripagata. (A proposito di argot heideggeriano, forse pochi ricordano che Pierre Bourdieu, invocato da molti studiosi come il massimo analista del cosiddetto "linguaggio heideggeriano", nel suo libro LOntologie politique de Martin Heidegger – pubblicato in italiano dal Mulino con il titolo rinnovato Führer della filosofia?, 1989 – definisce il termine "autoaffermazione" [autoaffirmation] una «traduzione pomposa» della parola Selbstbehauptung; il titolo Die Selbsibehauptung viene reso dal sociologo francese con «La difesa dell'Università tedesca». – Il caso vuole che Barbera inizi il suo pezzo così: «Scritti politici è un titolo pomposo per una realtà più modesta...»; ebbene, siccome sia in Bourdieu sia in Barbera l'aggettivo "pomposo" rinvia all'alterigia dei cosiddetti "guardiani dell'ortodossia heideggeriana", e posto che le analisi socio-linguistiche del Bourdieu siano un capitale prezioso per l'autocostituito [autoaffermato?] fronte degli "eterodossi" e dei "liberi", colui che, d'ora in avanti, vorrà – nella nostra ricezione del pensiero di Heidegger – difendere il vocabolo "autoaffermazione" dovrà, come si dice, arrampicarsi sugli specchi.)

Giungiamo adesso all'ultimo punto; leggiamo il capoverso successivo della recensione: “L'amore di quadratura porta anche a intenzionali falsificazioni del testo. Dove Heidegger parla a esempio, con semplicità, di una decisione ultima che "tocca il confine estremo dell'esistenza del nostro popolo. E che cos'è questo confine?", lo si costringe a dire in franco-italiano che la decisione "mette in gioca il nostro popolo fino all'estrema squadratura della propria esistenza. E qual è il punto, il confine che un tale squadrare tocca?". Ci limitiamo ora a fare tre esempi del modo in cui la volontà apologetica dei curatori deforma il testo heideggeriano con la traduzione, e mediante l'apparato delle note e la prefazione contribuisce a renderlo definitivamente impenetrabile. Gli esempi riguardano parole ricorrenti in questi scritti come "Führer", "opera" e "nazionalsocialismo"». Non propongo alcun commento; il tempo stringe. Chiedo soltanto: su quali basi Barbera può affermare che io abbia addirittura falsificato intenzionalmente (!) il testo? Darmi pubblicamente del falsario e dell'apologeta – estendendo queste accuse a Fédier – è facile e può apparire come l'esercizio di una libera critica, di una giusta e coraggiosa denuncia; ma il provarlo davvero è una cosa completamente diversa, e – ne sono certo – Sandro Burbera, in cuor suo, non può non saperlo.

Gino Zaccaria


Alla redazione: Con riguardo alla recensione degli Scritti politici di Heidegger (Sandro Burbera: "L'errore di Heidegger", la Rivista dei Libri, novembre 1998),vorrei correggere un'affermazione non esatta contenuta nell'articolo, quindi proporre una riflessione sulla peculiare struttura argomentativa che lo caratterizza. L'affermazione non esatta è quella secondo cui la «traduzione, anziché sui testi originali, è condotta sulla versione francese». Avendo partecipato personalmente, in diverse fasi, alla preparazione della versione italiana, posso testimoniare che la traduzione è stata interamente condotta sugli originali tedeschi; l'indicazione circa il «costante riferimento all'edizione francese» non è un «eufemismo», bensì l'esatta descrizione di come si è svolto il lavoro: traducendo dal tedesco, rispettando le scelte interpretative di fondo dell'edizione francese, consultandola come prezioso aiuto là dove il testo tedesco poneva dei problemi di interpretazione. La riflessione è la seguente. A prima vista, l'articolo appare come un confronto tra diverse ipotesi di lettura; a un'analisi più attenta, invece, emerge come alle tesi concorrenti venga sistematicamente negata la loro natura interpretativa, così come alle stesse situazioni viene negata l'interpretabilità; di fatto, non è ammessa che un'unica, risaputa, incontrovertibile verità, contrapposta a una pura volontà di distorsione; una realtà inequivocabile, insidiata da tentativi di elusione e costruzioni più o meno fantastiche.

Due esempi.

L'interpretazione di Schwan viene arbitrariamente presentata come ciò che «da tempo» «la ricerca su Heidegger" (corsivo mio) avrebbe scoperto; ecco che Fédier non può più aver giudicato non convincente una interpretazione, ma ha «dichiarato la sua contrarietà» a conoscenze già acquisite e condivise; alla stesso modo, non può scegliere di non discutere espressamente una particolare lettura, ma, dinanzi all'evidenza dei fatti, solo «evit[arla] mediante l'ambiguità della traduzione e il silenzio dei commenti».

I documenti raccolti da Schneeberger rivelerebbero, secondo il recensore, il «sistema delle analogie che intercorrono tra i progetti riformatori di Heiddegger e quelli provenienti dalle istanze del regime, del partito, delle SA, e degli studenti nazisti»; tali analogie (non i documenti da cui sono desunte per via interpretativa) sarebbero, sempre per il professor Barbera, semplicemente «note», tanto che il fatto di non averle fatte rilevare costituisce, di per sé, «l'omissione più grave di informazione» (corsivo mio). Impossibile che qualcuno non scorga dette analogie; inammissibile che addirittura consideri di aver contribuito a mostrare l'assoluta estraneità tra i due progetti.

Ivo De Gennaro

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