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Da Libro bianco.

Fra Heidegger e la Arendt, sintonia di affetti ma in filosofia ognuno andò per la propria strada

La Stampa, 8 dicembre 2001


Marco Vozza


FORSE, il criterio piu' adeguato per valutare la qualita' di una relazione, in particolare di un rapporto amoroso che si protrae al di la' del tempo fugace dell'avventura, e' la capacita' degli amanti di edificare un mondo, di condividere una costellazione di senso inesistente prima del loro incontro. In alcuni casi di eccellenza del destino, si assiste alla rivelazione di un mondo dei significati alimentato dal mondo degli affetti, al punto da avvertirne l'inconfondibile sintonia. Se questo costituisce un buon requisito per i comuni mortali, a maggior ragione sembrerebbe esigerlo l'incontro tra due eminenti filosofi. Cosi' Hannah Arendt scrive a Martin Heidegger: «Tra due persone accade che talvolta, assai raramente, nasca un mondo. Questo mondo e' poi la loro patria, era comunque l'unica patria che noi eravamo disposti a riconoscere». Una lettura perspicua del loro epistolario (curato con encomiabile perizia esegetica), sottratta al richiamo del pettegolezzo, richiede di verificare se e' esistito realmente un mondo condiviso dai due filosofi. La prima testimonianza della Arendt diciannovenne non e' una lettera ma una pagina di diario, un soliloquio autobiografico dal titolo Ombre: «Ogni volta che si svegliava da quel sonno prolungato, trasognato e tuttavia profondo, lei aveva la stessa tenerezza timida ed esitante verso le cose del mondo... Tenerezza significa dedizione timida e riservata, non era un darsi, ma piuttosto un saggiare il terreno, accarezzare, felicita' e stupore per forme estranee». La giovane filosofa descrive la sua giovinezza, sfiorata dallo straordinario e dal magico, abituata a scorgere aspetti straordinari anche nelle cose piu' comuni e banali della vita, senza porre alcun limite alla propria capacita' d'incanto, anche se questa disponibilita' viene accompagnata da un sentimento devastante di angoscia e di estraneita'. Sono pagine di rara intensita' emotiva (degne del miglior Benjamin), in cui la Arendt riproduce il movimento della meraviglia da cui nasce la filosofia, unito a quella «tenerezza per le cose del mondo» che - secondo Hegel - caratterizzava il pensiero di Kant. Risposta di Heidegger, per il quale la melancolia filosofica viene ridotta a depressione psichica: non disperare, mia cara, dietro le ombre c'è sempre il sole; del resto, esse erano soltanto la proiezione del tuo ambiente, l'effetto di «un autosfibramento immotivato e indotto dall'esterno»; tale deformazione dell'anima verra' sanata dal porre il tuo amore al servizio del mio lavoro! Laddove sembra gia' operante lo schema heideggeriano della deiezione, del perdersi nell'inautenticita' a causa della perniciosa contaminazione con un mondo-ambiente. In quegli stessi anni, Heidegger e la Arendt studiano con passione Sant'Agostino, il cui pensiero diventa la loro metafisica influente (in singolar tenzone con quella aristotelica), il primo elaborando Essere e tempo, la seconda preparando la dissertazione di dottorato sul concetto d'amore. Sembrerebbe un'affinita' rilevante, decisiva nel determinare una convergenza teorica; invece, le loro strade divergono perche', mentre il maestro mutua dall'autore delle Confessioni la liturgia dell'interiorita' ponendo l'enfasi sull'essere per la morte in cui il soggetto affronta da solo la decisione che circoscrive l'orizzonte progettuale dell'esistenza, l'allieva rivolge il suo interesse alla natalita' come condizione originaria che promuove la gratitudine per la vita condivisa con altri, diventa principio innovativo, memore di una liberta' creaturale, alimentando la nostra facolta' d'azione in una sfera pubblica. Insieme ad Agostino, a Platone e Aristotele, a Thomas Mann, Heidegger legge soprattutto Hölderlin, trasferendo alla dedizione amorosa il linguaggio ieratico del poeta, con frequenti allusioni alla purezza della sua essenza da cui promana una quieta serenita', unico ristoro «quando la bufera sibila intorno alla baita»; contrariamente a quanto comunemente si pensa, il pensiero poetante (che si avvale anche di Rilke, Trakl e George) e' gia' operante nel 1925, insieme a quella fuga nel misticismo linguistico dell'abbandono ontologico che la Arendt intendera' poi stigmatizzare: «A me sembra che il dire provenga dal pensare - scrive deferente ma risoluta -, ma che questo non accada invece con il parlare. Il parlare proviene dal dire? Senza esperienza anche il pensiero non puo' farcela... Cos'e' veramente un'esperienza e il suo volto bifronte?». L'intento e' dunque quello di restituire al pensiero l'attrito dell'esperienza, cognitiva quanto politica, mentre l'Evento celebrato dalla filosofia heideggeriana sfugge ad ogni identificazione storico-effettiva. Lo scambio epistolare viene sospeso per diciassette anni - dal 1933 al 1950 - in ragione dell'adesione di Heidegger al nazismo e del celebre discorso di rettorato in cui viene attualizzata la vecchia vocazione filosofica ad assecondare un'inesorabile missione del dotto: «L'inizio e' ancora. Non e' alle nostre spalle, come un evento da lungo tempo passato, ma ci sta di fronte, davanti a noi», sostiene il filosofo che non si discolpera' mai in modo convincente, anche perche' si tratto' di un atto di coerenza con il proprio pensiero. Dopo, Heidegger rimarra' sempre estraneo ad ogni responsabilita' politica: considera ogni dimensione pubblica un «fenomeno inquietante», manifesta scarso interesse per il proprio tempo e - pur sollecitato dalla Arendt - tace sulla guerra in Vietnam, cosi' come ignora la rivalutazione della polis come fondamento dell'agire collettivo. Oltre che dello stesso Heidegger, la Arendt era stata allieva e interlocutrice di Jaspers. Ad un certo punto, Heidegger scrive sorprendentemente: «L'autentico 'e' tra 'Jaspers e Heidegger' sei soltanto tu», affermazione che stimola significative interpretazioni, cui fa pero' da contraltare una successiva annotazione: «Jaspers mi ha scritto. Ma la lettera non l'ho capita per niente». Se si va a controllare il carteggio fra la Arendt e Jaspers (non ancora disponibile in italiano), si comprende quanto Heidegger non poteva comprendere ne' di Jaspers, ne' della Arendt. Il 24 luglio del 1952 Jaspers aveva scritto ad Heidegger manifestandogli l'imbarazzo dovuto alla reticenza relativa alle posizioni assunte nel 1933 ed esplicitando le «straordinarie differenze» che intercorrono tra i due modi di intendere la filosofia: «Una filosofia che predice e poetizza, per il fatto che si separa dalla realta', non prepara forse la vittoria del totalitarismo? Non si tratta di un errore nefasto sostenere che una produzione dello spirito e' l'unico antidoto? La politica, che lei considera ininfluente, puo' forse dileguarsi?». La posizione di Jaspers e' chiarissima, anche se l'autorevole interlocutore dichiara di non comprenderne il senso; questa immagine di Heidegger profeta dell'occulto, fautore di un pensiero evasivo, insensibile alla prassi politica, e' peraltro pienamente condivisa dalla Arendt, la quale - in un fondamentale saggio del 1946: «Che cos'e' la filosofia dell'esistenza? (ora nell'Archivio Arendt, edito da Feltrinelli a cura di Simona Forti) - considerava Heidegger l'ultimo rappresentante del romanticismo tedesco, «la cui assoluta mancanza di senso della responsabilita' e' riconducibile a una frivolezza spirituale che nasce in parte dalle illusioni del genio e in parte dalla disperazione», mentre vedeva in Jaspers il superamento del «puro egotismo» che persegue il «fantasma del se'», avendo posto la comunicazione come condizione di un'esistenza condivisa da esseri umani che abitano un mondo comune a tutti. Cosi' come accade con l'opera d'arte, anche l'incontro, l'occasione d'amore, apre un mondo. Ma i filosofi, talvolta, non lo sanno riconoscere e non lo possono condividere.



Voci utilizzate nell'articolo

Discorso di rettorato

Essere per la morte

Assenza di autocritica


Metodi applicati

Onniscienza biografica


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