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Da Libro bianco.

Martin Heidegger, l’illusione di addomesticare il nazismo

Unità, 27 luglio 2002


Bruno Gravagnuolo


Heidegger Über Alles? Sembra di sì. Si moltiplicano infatti i convegni e le edizioni sul filosofo tedesco, che conosce in Italia una nuova e sorprendente fortuna. Due seminari internazionali mesi fa a Villa Mirafiori a Roma, Le conferenze di Brema e Friburgo per Adelphi, L’origine dell’opera d’arte, per Martinotti. Il piccolo scritto Il sentiero di campagna per Il Melangolo. E poi ancora s’annunciano per Adelphi i Contributi alla filosofia del 1936-37, usciti in tedesco nel 1989, Mentre in Germania procede l’edizione completa delle Opere di cui son già stati stampati 63 volumi, su un totale di 102 (qui da noi siamo a quota 30). E poi quest’anno compare un saggio fondamentale di George Steiner, versatissimo anche in filosofia. Parliamo di Heidegger, libro del 1978, ora in edizione italiana per Garzanti( pagine 197, Euro 9,50) sfuggito all’attenzione dei più. E senza dimenticare la ristampa de Le avventure della differenza di Vattimo, sempre per Garzanti.

Due forse i moventi di tanto interesse. Il primo: la drammatizzazione epocale della Tecnica. Tema che vide Heidegger profetico e in anticipo, sulle rovine del Novecento. E che oggi riemerge nel cuore della globalizzazione planetaria, sub specie di omologazione tecnico-produttiva. Intrusione nel genoma e nella biosfera, e con ricadute di integralismi e guerre di civiltà. A questo intreccio di collisioni intraviste – e stilizzate nel 1945 come concordia discords sovieto-americana - Heidegger contrapponeva il recupero del senso dell’Essere. Il «lasciar-essere» l’Essere, colto tra apocalissi e immanenza inesprimibile di ciò (ma il «ciò» è incongruo) che trascende gli «enti» e li sostiene come «legame vuoto». E il tutto a partire da un’analitica esistenziale dell’«Esserci», che è poi l’«ente umano intramondano», annegato nell’alienazione dell’impersonale società di massa (la «chiacchiera», il «Si dice»). Insomma, riscoperta dell’innocenza «numinosa» di un fato circolare e presocratico, secondo la celebre interpretazione di Karl Loewith. Che passa in Heidegger per l’autenticità dell’«essere per la morte», cruna d’ago esistenziale che schiude la creatività del Nulla «oltre «l’angoscia». E qui il filosofo incontrava addirittura motivi Zen, anticipando simbolicamente «incontri ravvicinati» con l’Oriente, che avrebbero popolato l’immaginario occidentale a venire. Resta l’altro punto capitale che attira l’attenzione su Heidegger: il rapporto col nazismo. Impossibile cavarsela come faceva sul Corriere giorni fa Von Herrmann, curatore delle Opere e assistente di Heidegger. Col dire che in quella filosofia non c’è alcun influsso riconducibile al nazismo. Un influsso vi fu. Nel segno dell’anticapitalismo romantico (terra, popolo, suolo, destino, battaglioni del lavoro).

La verità è che Heidegger - come scrisse nell’Introduzione alla Metafisica - ebbe la presunzione di aver capito «l’intima verità del nazionalsocialismo»: «l’incontro tra la tecnologia totalizzante e l’uomo moderno ». Sino a illudersi di poter dare un senso «dall’interno » al nazismo. Illusione di breve durata? Sì, ma intrisa di responsabilità, e mai oggetto di autocritica.


Voci utilizzate nell'articolo

Assenza di autocritica

Essere per la morte


Metodi applicati

Onniscienza teoretica


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