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Da Libro bianco.

Heidegger Filosofia e Scandalo

La Repubblica, 3 dicembre 2002


Franco Volpi


«Here is the great trouble: the only great thinker in our time is Heidegger».Che cosa intendeva dire con questa affermazione Leo Strauss, filosofo ebreo di lingua tedesca emigrato in America? Perché considerava un «grande guaio» il fatto che «il solo grande pensatore del nostro tempo fosse Heidegger»?

In gioventù, ancora sotto il fascino di Max Weber, Strauss aveva ascoltato a Friburgo qualche lezione del Maestro teutonico. All'amico Rosenzweig riferiva: «Weber, a confronto con Heidegger, mi sembra un "orfanello" quanto a precisione, profondità e competenza». E ancora: «Ho ascoltato l'interpretazione che Heidegger dava di certi passi di Aristotele, e poi ho sentito Werner Jaeger a Berlino interpretare gli stessi testi: carità vuole che limiti il mio paragone all'osservazione che non c'era paragone».

Ma nel 1933 Heidegger aderì al nazismo. Strauss fu costretto ad aprire gli occhi, e divenne uno dei suoi critici più severi. Nelle sue lezioni all'università di Chicago, quando parlava di lui, evitava di pronunciarne il nome. Non perse però la lucidità di giudizio: «La cosa più stupida che si potrebbe fare sarebbe chiudere gli occhi o rifiutare la sua opera». Proprio questo è il guaio: se riconosciamo, con Strauss, che Heidegger è stato uno dei massimi filosofi contemporanei, dunque una mente in grado come poche di giudicare, in che modo si spiega il fatto che si sia posto al servizio del totalitarismo più terribile del Novecento? Com'è possibile che tanta intelligenza si sia lasciata risucchiare in quel vorticoso pantano? E quali conseguenze dobbiamo trarne nel valutare la sua opera e la sua influenza?

MicroMega ci invita a ritornare su tale spinosa questione presentando nell'Almanacco di Filosofia in libreria un documento fondamentale, ancora inedito in Italia: le lezioni che Heidegger tenne nell'estate del 1934, subito dopo essersi dimesso dalla carica di rettore nazionalsocialista dell'università di Friburgo, assunta appena un anno prima. MicroMega pubblica la trascrizione del corso - tradotta da Alessandra Iadicicco - che si trova nel lascito di Helene Weiss. Un testo prezioso poiché il manoscritto originale di Heidegger è andato perduto. Come ricorda il filosofo Ernst Tugendhat, nipote della Weiss e gestore del lascito, sua zia fu allieva di Heidegger a Friburgo ma non poté addottorarsi con lui «perché ebrea». Tugendhat ha permesso anche un'edizione spagnola della trascrizione curata da Victor Farias, lo studioso cileno che con le sue indagini riaperse anni fa il caso Heidegger.

C'è stata poi la ricostruzione «ufficiale» del corso nell'ambito delle opere complete. Inutile dire che le differenze non si contano. Comunque sia, il testo è intrigante e scandaloso. Parlando di Logica, Heidegger torna qui a fare filosofia dopo l'intermezzo politico del rettorato. Seguendolo lezione per lezione, possiamo valutare se davvero già qui, come egli affermò a sua discolpa dinanzi alla Commission d'épuration - abbia avuto luogo un allontanamento dal nazionalsocialismo oppure no. Nel bollettino ufficiale dell'università il corso era stato annunciato con un argomento diverso: Lo Stato e la scienza. L'improvviso cambio di tema potrebbe suggerire una presa di distanze dal regime. In realtà, le cose non stanno così. Né sono così semplici. Sotto il titolo apparentemente astratto di Logica, Heidegger affronta in realtà questioni scottanti. Muove, è vero, da una prospettiva squisitamente filosofica. Ma il suo intento è quello di «scuotere» la logica tradizionale per cogliere nel logos, nel linguaggio, la determinazione più propria dell'essere umano. E analizzare quindi il linguaggio in quanto legame che salda l'«esserci» al suo popolo, l'esistenza del singolo alla comunità, la decisione individuale alla tradizione e alla patria, l'uomo al suo tempo e alla storia.

Qui, dall'analisi delle strutture individuali dell'esistenza, sviluppata in Essere e tempo (1927), Heidegger passa a sondare la dimensione in cui l'esserci individuale è gettato. Cioè il destino la tradizione, la storia, l'insieme delle «appartenenze comuni» che l'esserci decide di assumere come proprie o respinge. Siamo nella prospettiva della cosiddetta «svolta». Concetti pesanti come «popolo», «spirito», «lingua», «razza» fanno la loro entrata nel vocabolario filosofico heideggeriano. Ci sono pure riferimenti all'attualità politica. Come quando Heidegger vuol far capire che cosa sia la storia autentica, e prende come esempio significativo il viaggio di Hitler a Roma. Un volo aereo - fa notare agli studenti - è un accadimento, ma non è storia. Eppure, se il volo trasporta il Führer all'incontro con Mussolini, allora esso entra a pieno titolo nella storia. Anzi, all'aereoplano sarà assegnato un valore museale.

Evidentemente Heidegger non era in rotta con il regime. Ma com'è possibile che un pensiero così vigile come il suo non abbia riconosciuto la realtà politica che andava affermandosi? Heidegger non fu peraltro un caso isolato. Oggi il suo nome svetta tra gli esempi di ottusità politica associata a profondità filosofica. Ma all'epoca l'analfabetismo politico era alquanto diffuso tra i professori tedeschi di filosofia. Una recente indagine di Christian Tilitzki - Die deutsche Universitäts philosophie in der Weimarer Republik und im Dritten Reich, Akademie, 2 vol., pagg. 1.473, euro 165 - ricostruisce in base a capillari ricerche d'archivio la storia segreta della filosofia tedesca, svelando implicazioni politiche e ideologiche nella carriera di molti pensatori tedeschi tra le due guerre. Il caso Heidegger è dunque il paradigma di una diffusa e scandalosa dissociazione di filosofia e capacità di giudizio politico. E solleva un problema di fondo: c'è qualcosa che non funziona nel modo in cui la filosofia contemporanea si è rapportata alla politica. Una sorta di corto circuito fra la teoria e la prassi. Una discrepanza fra il regime del pensatore solitario e il vivere comune degli uomini.

Hannah Arendt, allieva di Heidegger, e consapevole come pochi del problema, ci ha spiegato che la teoresi e il giudizio politico sono capacità allotrie, eterogenee. E ha rivendicato il primato dell'uno sull'altra. Ma non basta. Il lavoro della capacità di giudizio contro l'analfabetismo politico, contro l'impoliticità del teoreta, è importante. Ma non è sufficiente. Perché il giudizio politico poggia a sua volta su assunti non evidenti. Su un terreno che presuppone e non può dominare. E chi allora, se non la teoresi, potrà ricordargli i suoi presupposti? Ebbene, Heidegger è stato tanto analfabeta in politicis quanto maestro in questa anamnesi del non detto e del non interrogato. Il grande guaio, acutamente individuato da Leo Strauss, ci aiuta almeno a formulare una domanda: com'è possibile, oggi, riconciliare filosofia e politica dopo che «il solo grande pensatore del nostro tempo» le ha dissociate?


Voci utilizzate nell'articolo

Great trouble

Colleghi e studenti ebrei

Aereo del Führer

Attendibilità della Gesamtausgabe


Metodi applicati

Aggettivo squalificativo

Promozione sul campo

Coincidentia verborum

Il documento inedito

Onniscienza teoretica

Sollevare la Questione


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