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Da Libro bianco.

Heidegger e i neo-con

L'eterno dibattito sull'adesione al nazismo la tentazione di lasciare il segno in politica

Nelle idee del filosofo singolari sintonie con tesi oggi di moda


La Repubblica, 19 aprile 2004


Antonio Gnoli


La letteratura heideggeriana - quella potente macchina editoriale che si nutre di testi e pensieri di uno dei maestri più autorevoli (ma anche più discussi) del secolo scorso - non conosce pause né ripensamenti. Molto di quello che in un passato più o meno recente si immaginava avrebbe resistito all'usura del tempo è tramontato. Autori sui quali avremmo scommesso circa la loro capacità di sopravvivere sono inesorabilmente usciti di scena. Qualcuno ha ancora sentore di un Lukàcs, di un Marcuse, di un Sartre? Sarebbe difficile poterlo sostenere. E invece l'ometto dagli occhi arguti e baffi sottili è ancora qui: con la sua capanna, il suo gergo, i suoi libri, i suoi officianti. E' stato rilevato che Heidegger è il filosofo contemporaneo i cui libri hanno avuto e continuano ad avere la più ampia circolazione nel mondo. E' anche quello a cui sono stati dedicati il più alto numero di convegni. L'ultimo inizierà stamane all'Università degli studi di Napoli "Federico II". Per tre giorni, nell'aula Altiero Spinelli della facoltà di Scienze politiche, studiosi provenienti da tutto il mondo si confronteranno sul suo pensiero e le prospettive in qualche modo insite nella sua filosofia. "Heidegger a Marburg", questo è il titolo del convegno, vedrà la presenza di specialisti italiani come Mazzarella, Vitiello, Esposito e stranieri quali Courtine, Strube, Kisiel, von Herrmann. Il numero dei partecipanti è talmente alto che rinunciamo a elencarli tutti. Il periodo passato a Marburg, come racconta Franco Volpi qui accanto, è stato per Heidegger filosoficamente straordinario. Se non altro per aver incubato e dato alla luce uno dei grandi capolavori della filosofia del Novecento: Essere e tempo. Anche i non heideggeriani riconoscono a quel testo virtù speculative non indifferenti. C'è l'annosa questione se Essere e tempo sia la prima parte di un discorso filosofico più ambizioso che Heidegger porterà a termine molti anni dopo. Problema di indubbia forza speculativa, ma che rischia di appassionare soprattutto gli specialisti. C'è un aspetto invece che ha attratto un pubblico più vasto e sul quale gli studiosi si sono ferocemente divisi: si tratta della adesione del filosofo al nazismo. Un'infinità di parole sono state pronunciate per analizzare, capire, condannare o smussare il senso di quella scelta. Qualcuno ricorderà. Era il 1933. Il nazismo va al potere. Heidegger, che non è insensibile al nuovo corso politico, decide, come rettore appena eletto all'Università di Heidelberg, di pronunciare il discorso su L'autoaffermazione dell'università tedesca (è un testo che oggi si può acquistare nelle edizioni Il Melangolo, con una nota molto puntuale di Carlo Angelino, che lo ha curato). Provate a rileggerlo oggi. Fa una strana impressione. Dirò fra un momento perché. Prima però fermiamoci su questa enorme pantomima se Heidegger è stato e fino a che punto nazista. E se perfino la sua filosofia ne porti per così dire il segno. La questione, per le sue implicazioni anche drammatiche, ha diviso la comunità filosofica. E sarà difficile, riteniamo, giungere a un verdetto unanime. Gli estremi della vicenda, che coinvolge marcate ideologie e feroci totalitarismi, oscillano tra due modelli. Quello da un lato dello studioso cileno Victor Farias che in una documentata e faziosa ricostruzione ha messo sotto accusa il filosofo; e dall'altro Francois Fédier, l'interprete francese che ha letto lo Heidegger politico con esibita indulgenza. Dov'è la verità, direte. Non c'è verità che i testi non possano smentire o approvare. E qualunque sia l'esito di questa incerta contesa, rimane il fatto che Heidegger è il Novecento. è quell'immenso sortilegio filosofico che ha incantato, stregato, ipnotizzato le anime che lo hanno attraversato. Non tutte ovviamente si sono lasciate sedurre dal suo pensiero. Se guardassimo al modo in cui certi filosofi analitici hanno ridotto a fumoso gioco concettuale il suo linguaggio - come se Heidegger fosse davvero l'ultimo dei mistagoghi - avremmo più o meno chiara sotto gli occhi che quella che si è combattuta e si continua a combattere è una guerra tutt'altro che rituale. Ci sono autori i cui pensieri producono effetti al di fuori del loro ristretto mondo speculativo in cui vengono formulati. A imporli su un territorio più vasto non è solo l'intelligenza, l'acume, l'innata capacità di essere concettualmente provocanti. Ma anche una sorta di curioso demone che hanno dentro e che li rende, loro malgrado, personaggi pubblici. Essi hanno parlato a una polis, a una città. Hanno aspirato ad andare oltre. Cercando in quell'oltre un rinnovato e ambizioso equilibrio tra filosofia e politica che la storia si è spesso incaricata di smentire. Anche Heidegger ha avuto questa tentazione. La prolusione che lesse all'inizio dell'anno accademico 1933-34 è lì a mostraci quanto precaria fosse l'immagine del filosofo chiamato a giustificare i compiti della nuova politica. Ma se quel testo lo si sfronda dalle imbarazzanti affermazioni che parafrasano speranza ed entusiasmo per la politica del Führer, vi si può scorgere qualcosa di sorprendentemente vicino a certe tesi che oggi circolano. L'autoaffermazione è forse il primo manifesto che a tratti ricorda l'analisi di un neo-conservatore. Certo un neocon sui generis, che matura le proprie idee politiche nella temperie illiberale degli anni Trenta, che ha una concezione del tramonto dell'Occidente diversa da quella che oggi viviamo. E tuttavia quell'appello alla potenza, il riferimento a Clausewitz, l'idea, tra le righe, che un conflitto sia esportabile qualora la propria identità è minacciata, ci suggeriscono un accostamento teorico che meriterebbe di essere approfondito.



Voci utilizzate nell'articolo

Discorso di rettorato

Entusiasmo

Oscurità

Fascinazione


Metodi applicati

Simulazione di equidistanza

Coincidentia verborum


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