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Da Libro bianco.

Il nazismo di Heidegger e i conti col passato

Le idee


La Repubblica, 9 marzo 2007


Adriano Sofri


È DIFFICILE fare i conti col passato. Soprattutto col proprio: con il passato altrui ci si sbriga. Prendo le mosse da una succinta notizia nella pagina culturale del Corriere (Pierluigi Panza, «Heidegger difeso dall'accusa di hitlerismo») sul libro curato da Francois Fédier che confuta il «presunto filonazismo» di Heidegger. Ho fatto un salto sulla sedia: Heidegger non fu filonazista solo perché fu nazista, con fervida compromissione nel 1932-35, e un'adesione rinnovata fino alla fine. Negli stessi giorni Pierluigi Battista ha ripreso il tema del «silenzio» degli intellettuali italiani dopo il fascismo, sulla scia della rivelazione di Gunter Grass, fin troppo clamorosa. Non saprei conciliare una severità verso gli intellettuali convertiti anesteticamente all'antifascismo, e verso Grass, con l'indulgenza per Heidegger. Il silenzio (o peggio) dell'Heidegger del dopoguerra a proposito del suo passato e dello sterminio è stato più penoso della stessa adesione al nazismo. Esce anche da Sellerio una raccolta di saggi (impervii) di Jean Bollack, La Grecia di nessuno, titolo che calca Paul Celan, Niemandsrose, la rosa di nessuno. L'ultimo saggio è dedicato all'episodio più frequentato fra i mille della controversia su Heidegger e il passato: l'incontro fra il filosofo e Celan. (Grass rifece l' episodio ne Il mio secolo). Mi terrò ai bordi, per inadeguatezza e per un pregiudizio contro Heidegger. Una volta un suo visitatore citò con reverenza il commiato del maestro: «E poi, sa, non è ancora detta l'ultima parola». Si trattava nientemeno che del giudizio storico sul Reich. Frase oracolare, che qualunque barbiere potrebbe ridire: «E poi, sa, l'ultima parola non è mai detta». Enigmistica buona per congedare un devoto, col viatico della sapienza oscura. Al momento di sciogliere l'enigma, nell'intervista del 1966 allo Spiegel, da pubblicare postuma, Heidegger avrebbe detto: «Per me oggi una domanda decisiva è: come può adattarsi un sistema politico - e quale - all' età della tecnica? A questa domanda non so dare risposta. Non sono convinto che sia la democrazia».

Se il profetismo di Heidegger era arduo, la poesia di Celan non lo era meno, di una difficoltà pronta a spezzarsi nella lingua come si era spezzata nella vita, mentre la difficoltà del filosofo restava per così dire tutta d'un pezzo. Celan, ebreo, nato in Bucovina nel 1920, aveva perduto padre e madre in un campo nazista, ed era scampato trovandosi un rifugio di fortuna, poi sopravvivendo ai lavori forzati. È stato il poeta della shoah, e in quella lingua tedesca - lingua madre, lingua della madre assassinata - proprio quando veniva coniata la pretesa che non si potesse far più poesia dopo Auschwitz: e gli fu rinfacciata la stessa "bellezza" della sua poesia più famosa, Todesfuge, fuga di morte («...la morte è un mastro di Germania». Le poesie sono curate in un prezioso Meridiano da Giuseppe Bevilacqua). Il 24 luglio del 1967 Celan, reduce da un ricovero in casa di cura, tiene una conferenza a Freiburg. Heidegger è fra gli ascoltatori, e Celan, che pure rifiuta di essere fotografato con lui, accetta l'invito a visitarlo all'indomani. L'incontro avviene alla Hutte - la baita - che Heidegger ha trasformato nel monumento al proprio prestigio di pensatore e di tedesco della Foresta Nera, di «uomo che ha una patria ed è radicato in una tradizione». Celan firma il libro dei ricordi: «Nel libro della hutte, lo sguardo sulla stella del pozzo, con, nel cuore, la speranza di una parola a venire. Il 25 luglio 1967, Paul Celan». Sei giorni dopo, nella sua stanza d'albergo, scriverà una poesia: «Arnica, eufrasia, il / sorso dalla fonte con sopra / il dado stellato, // nella / baita, // la riga nel libro / - quali nomi accolse / prima del mio? -, / la riga in quel libro / inscritta, / d' una speranza, oggi, / dentro il cuore, / per la parola / ventura / di un uomo di pensiero, // umidi prati silvestri, non spianati, / orchis e orchis, separati, // più tardi, in viaggio, parole crude / senza veli // chi guida, l'uomo, / che anche lui ascolta, / percorsi a / mezzo, i viottoli / di randelli sulla torbiera gonfia, // umidore, / molto». L'arnica, l'eufrasia risanatrici c'erano davvero, e c'era la fontana con la stella intagliata in un cubo. C'era il libro delle firme, la speranza della parola a venire. E poi il cammino nel prato, e le orchidee solitarie, il testimone che ascolta, e infine la palude di tronchi-randelli. Ciascuno di questi ingredienti, a cominciare dal nome del luogo e della poesia, Todtnauberg, il monte della morte, evoca altre immagini senza fine. Celan manderà a Heidegger la prima copia di un'edizione privata della poesia. Heidegger risponderà con una formula elusiva, ma mostrerà con orgoglio la poesia agli amici. Forse senza averla intesa, o l'oscurità dei versi sarà bastata a tranquillizzarlo. La poesia uscirà poi in volume nel 1970. In quell'anno Celan tiene un'ultima lettura pubblica a Friburgo, e rinfaccia ad Heidegger di non ascoltarlo abbastanza attentamente. Un testimone ricorda: «Heidegger si fermò pensieroso presso la porta della sua casa per dirmi, scosso dall'emozione: "Celan è malato- e non esiste cura"». Heidegger non è stato tradito dall'aria della sua montagna: è morto nel 1976, ottantasettenne. Quanto all'incurabile Celan, il suo cadavere è stato ripescato nella Senna di Parigi il 1º maggio del 1970. Così l'incontro alla Hutte - confronto di radicamento e sradicamento, del filosofo affiliato al nazismo e del poeta scampato, nella lingua comune e irriducibilmente opposta - riceve il suggello del contrasto fra il professore di buona salute e il poeta malato di suicidio. Ci sono longevità vantate come un merito e un segno di aristocrazia: grattate quella longevità, e troverete l'impostura. Ci sono molti modi di "essere per la morte". Il confronto con la morte, che Heidegger incarica di riscattare la distrazione della vita ordinaria, può essere, sulla scorta di Ernst Jünger, la sfida cercata col pericolo estremo, con l'azzardo del soldato nella guerra di trincea. Ecco che la longevità appare, piuttosto che l'indizio di un'esistenza condotta al riparo, come la vincita strappata alla morte in battaglia. L'"essere per la morte" dell'ammalato ha un'autenticità tardiva e di rango inferiore, né scelta né cercata, ma miseramente subita. Immaginarsi dunque l'"essere per la morte" delle vittime designate di un annientamento, per il loro solo essere quello che sono - ebrei, zingari, gente di scarto. Il suicidio del poeta è agli antipodi della morte sfidata dal soldato: cui, una volta superstite, arridono i centotré anni di Junger. Chi sopravviva a un "essere per la morte" non voluto, inferiore, nemmeno deciso dal destino o dall'arruolamento obbligato, ma deliberato da nemici superiori, da soldati delle tempeste d'acciaio, gettato nel mondo e rigettato dal mondo - quel superstite infatti muore già in vita, muore così spesso suicida, la vita è la sua malattia. L'accettazione del destino - rassegnata o entusiasta, nel qual caso la si chiama missione - culmina nella circostanza della guerra: cui ci si piega per solidarietà nazionale, o generazionale o cui si aderisce per passione, soldati di una Missione collettiva, patriottica, religiosa, classista. Il nazismo è una filosofia della guerra - l'heideggerismo anche. La guerra travolge e trascina gli individui, la chiamata alle armi taglia loro i capelli allo stesso modo, dà loro un'uniforme, li sottomette al destino collettivo, l'"oceano" rispetto al quale, come in Jung, la psicologia personale è un' increspatura insignificante. Quello che chiamiamo coscienza è la risalita dalla profondità, dalla barbarie e dal trascinamento collettivo, alla civilizzazione e alla libertà individuale. La civiltà è la camera iperbarica di questa risalita. Essa non può che essere lenta e intermittente, mentre la discesa è precipitosa. Questo doppio movimento, ineguale e iniquo - perché la civiltà è fragile, una pellicola recente, una lastra di ghiaccio sottile sulla quale danza una pattinatrice adolescente, e invece la barbarie è forte e antica - si riproduce nel doppio movimento della comunità verso la distruzione, velocissimo, e chiamavamo fino a poco fa questa velocità progresso, o verso la pausa di riflessione, la moratoria, il fermo biologico, la ritirata, che è lenta. La riparazione culturale ed ecologica è la tartaruga che insegue l'Achille della consumazione e della manipolazione. È una doppia partita, ma truccata. Non si può che perdere, ma dilazionare la fine. Forse, mentre prendiamo tempo, sarà inventato un farmaco nuovo, si troverà una nuova strada. La volta in cui accennò allo sterminio, nel 1949, Heidegger lo fece di passaggio, per accostare grottescamente la trasformazione dell'agricoltura in industria alimentare meccanizzata alla lavorazione dei cadaveri nelle camere a gas e nei campi. Insofferente verso la trasfusione di esperienze vissute, di emozioni, di relazioni linguistiche e culturali, dentro i versi di Celan, che li fa sembrare illeggibili fuori da quella trama di informazioni, Hans Georg Gadamer preferisce che la poesia miri a «un mondo nel quale il poeta è di casa proprio come i suoi lettori». Ma per l'appunto Celan non è di casa a questo mondo, e ha tolto il disturbo. Si è arrivati a sostenere che il suicidio di Celan sia stato causato dal tentativo fallito di far riconoscere ad Heidegger la colpa dello sterminio: tesi impudente, che finisce per alzare di qualche centimetro il monumento al filosofo. Il grande e disgraziato poeta, che non la fa finita per la shoah, la morte e la vita, ma perché non è riuscito a strappare ad Heidegger la parola giusta! Heidegger avrebbe poi accostato Celan a Hölderlin. Ma Celan abita poeticamente la terra, Heidegger no. La svolta di Heidegger verso la poesia, e Hölderlin in particolare, è un falso movimento: un modo per serbare intatta l'oscurità, per rifiutare "poeticamente" la chiarezza. Si è perfino fatto passare il silenzio di Heidegger sulla shoah come una dichiarazione della sua indicibilità! Anche Derrida cede alla sovrainterpretazione dei silenzi, pur dichiarandoli forse imperdonabili: «Io intendo questo terribile, forse imperdonabile silenzio di Heidegger come un' eredità. (...) Ci lascia l' obbligo di pensare ciò che egli stesso non ha pensato». Ma il silenzio di Heidegger va tutto intero sul suo conto. Nel 1949 T. W. Adorno scrisse quel pensiero citato all'infinito: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie, e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie». È difficile oggi spiegarsi come potesse essere accolto letteralmente, al punto che qualcuno, abbiamo visto, accusò la Todesfuge di Celan di un sacrilegio contro Auschwitz. Confesso una diffidenza per la frase di Adorno, nella quale sento una retorica quasi fatua. Non era un bando alla parola e alla sua inadeguatezza: è in parole che Adorno dichiara prescritta la poesia. Se no, era uno dei molti modi in cui si cercò di significare il troppo di orrore e di iniquità dello sterminio, l' unicità. Ma l'unicità, che ha argomenti forti dalla sua parte, si impoverisce, o addirittura si avvilisce, quando la si voglia stringere in un' argomentazione. Sicché si potrebbe dire che dopo Auschwitz la prosa è diventata, se non inetta - che vorrebbe dire cedere all'"indicibile" e screditare i testimoni - molto più difficile e debole. E, viceversa, che la poesia è stata forte. Celan fu terribilmente ferito dall' accusa grottesca. Nel 1965 scrisse i versi conosciuti solo dopo la sua morte, che evocavano Theodor Wiesengrund Adorno (la traduzione è di Michele Ranchetti e Jutta Lesckien): «Madre, madre / Strappata dall' aria / Strappata dalla terra. / Giù / Su / trascinata. / Ai coltelli ti consegnano scrivendo, / con abile mano sciolta, da nibelunghi della sinistra, con / il pennarello, sui tavoli di teck, anti- / restaurativi, protocollari, precisi, in nome della inumanità da distribuire / di nuovo e giustamente, / da maestro tedesco, / un garbuglio, non / a-bisso/ab-grundig/ ma / a-dorno /ab-wiesen/ / scrivendo, / i reci-divi, / consegnano / te / ai / coltelli». Adorno stesso avrebbe riconosciuto più tardi che «forse è falso che dopo Auschwitz non si possa più scrivere una poesia». E «dire che dopo Auschwitz non si possano più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un' arte serena». Che vuol parere un' attenuazione, ed è un vero capovolgimento. Adorno si sarebbe chiesto allora se fosse possibile, dopo Auschwitz, vivere: che era un gioco al rincaro. "Wahr spricht, wer Schatten spricht" - dice il vero, chi parla oscuro: è un verso di Celan. La differenza fra l' oscurità di Heidegger e quella di Celan ha per posta la verità. Si ha l' impressione che la poesia di Celan, piuttosto che dirla, sia la verità. Una volta Primo Levi rispose a un intervistatore a proposito del decreto di Adorno: «La mia esperienza è stata opposta. Allora mi sembrò che la poesia fosse più idonea della prosa per esprimere quello che mi pesava dentro... Avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz». Tuttavia Levi, che pure diceva di esser stato salvato dalla poesia, metteva in guardia dallo "scrivere oscuro": «Nel mio scrivere... ho sempre teso a un trapasso dall' oscuro al chiaro». Levi ha di mira Celan nell' articolo del 1976: «Non si dovrebbe scrivere in modo oscuro... L' effabile è preferibile all' ineffabile, la parola umana al mugolio animale. Non è un caso che i due poeti tedeschi meno decifrabili, Trakl e Celan, siano entrambi morti suicidi, a distanza di due generazioni. Il loro comune destino fa pensare all' oscurità della loro poetica come ad un pre-uccidersi, a un non-voler-essere, ad una fuga dal mondo, a cui la morte voluta è stata coronamento. Per Celan soprattutto... Si percepisce che il suo canto è tragico e nobile, ma confusamente... un linguaggio buio e monco, qual è appunto quello di colui che sta per morire, ed è solo, come tutti lo saremo in punto di morte. Ma poiché noi vivi non siamo soli, non dobbiamo scrivere come se fossimo soli». Noi vivi: ancora dieci anni, e Levi sarà così solo da decidere il suo punto di morte. Prima, il suo corpo a corpo con Celan gli avrà fatto scrivere quella poesia, Il superstite, che grida (invano, come decreteranno fra poco I sommersi e i salvati) la propria incolpevolezza, evoca ancora una volta il suo Ulisse e ripete il nome fatidico del Salmo di Celan, la Rosa di nessuno: «Non ho soppiantato nessuno, / Non ho usurpato il pane di nessuno, / Nessuno è morto in vece mia. Nessuno».



Voci utilizzate nell'articolo

Iscrizione alla NSDAP

Silenzio di Heidegger

Foresta nera

Essere per la morte

Agricoltura meccanizzata

Diniego a Celan


Metodi applicati

Ostentazione di pregiudizio

Induzione di orrore


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