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Da Libro bianco.

Heidegger, cattivo maestro fu l’incendiario del nazismo

Blog Il sottoscritto 1 luglio 2007


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Linnio Accorroni

Alla fine del viaggio al termine dell’orrore c’è una foto: in quella foto in bianco e nero c’è un uomo macilento, solo e nudo, desti- nato alla camera a gas: è già il cadavere che sarebbe stato. Alla fine del viaggio al termine dell’orrore c’è un uomo che guarda quella foto, una luger appoggiata sul tavolo.

Così come accade nel film Babel, anche in questo originale romanzo-filosofico di Josè Pablo Feinmann sono i passaggi di mano di un’arma a connettere luoghi e destini: nel film di Inàrritu, era un Winchester a collegare Marocco, Messico e Giappone. Qui è una luger l’oggetto destinale che viaggia dal fronte franco-tedesco all’Argentina e poi di nuovo in Germania, nella Foresta nera. È la pistola con la quale Dieter Müller, ex-insegnante di filosofia all’università di Friburgo durante la tragica epopea nazista, discepolo di Martin Heidegger, si toglie la vita nel 1948 a Buenos Aires, dove si era trasferito poco prima della caduta del regime hitleriano.

Proprio questo suicidio segna l’ultimo atto di una vicenda biografica che è come un paradigma del Novecento, rievocata, nella prima delle due parti che compongono il libro, in una lunga lettera-testamento spirituale. Il destinatario è suo figlio Martin che porta quel nome quale trasparente omaggio al grande filosofo, ad indicare l’assoluta venerazione di suo padre per questa personalità, fra le più controverse e discusse del Novecento. In essa Dieter ricorda come la pistola fosse già stata utilizzata da suo padre, un ufficiale dell’esercito imperiale tedesco durante la Prima guerra mondiale; con essa, aveva ucciso un tenente suo connazionale, perché privo di quello spirito guerriero che il fanatismo nazionalista considerava caratteristica peculiare della razza tedesca.

Proprio il richiamo alla forza e al valore della tradizione teutonica, proprio la miscela di nazionalismo, mito della rivincita, antisemitismo, razzismo ed esaltazione dei valori del sangue e della patria, costituiranno le basi della convinta adesione di Heidegger alla dittatura nazista. Nella sua lettera testamento, Dieter Müller, uomo sostanzialmente mite e bonario, spiega le modalità della sua adesione alla folle ideologia hitleriana, avvenuta soprattutto attraverso l’incontro e la folgorazione con il pensiero e la personalità dell’autore di Essere e Tempo.

Quello di Dieter è un percorso che assomiglia ad una discesa agli inferi, narrata senza alcuna volontà espiatrice o autoassolutoria; egli evoca non solo lo spirito di un’epoca esiziale per la storia della civiltà e del pensiero occidentale, ma anche l’imprevedibilità delle relazioni fra genialità intellettuale e miseria etica, fra l’irresistibile seduttività del pensiero teoretico e le sue aberranti applicazioni nella prassi politica. Il primo incontro tra Müller ed Heidegger, tra il maestro atrocemente geniale ed il suo disorientato discepolo, avviene nel 1927, al tempo della pubblicazione di Essere e tempo che sconvolse il giovane Dieter. Poi nel maggio del 1933 il Discorso al rettorato che segnò l’esplicita adesione del filosofo all’ideologia nazista. Sono di straordinaria efficacia rievocativa le pagine in cui viene ricostruito quel delirante discorso, in mezzo al tripudio delle bandiere delle «Sa», quando lo sciamano di un’intera generazione decise di indossare le comode vesti di pifferaio magico della filosofia teutonica. Poi l’appello agli studenti fatto da Heidegger nello stesso anno, quando il filosofo affermò testualmente che il Fuhrer stesso è nel presente e nel futuro la realtà tedesca e le sue leggi.

Sono affermazioni siffatte che fecero scrivere a Leo Strauss: «È un grande guaio che il solo grande pensatore del nostro tempo è Heidegger ». In altri termini, non si può non riconoscere la grandezza del suo pensiero, che tanto profondamente ha influenzato anche pensatori quali Foucault, Deleuze, Guattari e, al tempo stesso, rimuovere o fingere di ignorare la sua oggettiva correità al totalitarismo nazista. Per Dieter, al contrario di Heidegger, la discesa agli inferi s’arresta dunque davanti a quella foto in bianco e nero, che svela l’immedicabile colpevolezza delle proprie scelte, il suo essere stato oggettivamente un assassino dalla parte degli assassini. A lui non resta altro che chiedere perdono, ponendo fine ai propri giorni con un colpo di pistola.

Nella seconda parte del libro (libro che è ad alta intensità emotiva e passionale, a dispetto della natura filosofica dell’autore), la pistola passa a suo figlio Martin: è con essa che minaccia e blandisce il filosofo Heidegger, dopo un viaggio che dall’Argentina, anch’essa appestata da una strana versione ultranazionalista di uno scombiccherato Quarto Reich, l’ha portato fino ad uno sperduto villaggio. Scovare quell’uomo la cui ingombrante ombra è all’origine anche del suicidio del proprio padre, è diventata una missione imprescindibile. Ha con sé una foto in bianco e nero, la luger ed una domanda, «Che cosa pensa lei di fare?», a cui il filosofo oppone un silenzio altero, sdegnoso. È lo stesso silenzio che Heidegger aveva opposto allo straziante invito di Paul Celan, durante il famoso incontro fra il poeta, che si suicidò nella Senna, ed il filosofo morto nel 1976, a 87 anni, senza mai aver speso una sola parola contro il nazismo.

Ma non è solo l’ombra di Heidegger a stagliarsi, come una eredità insopporatbile, sulla storia della famiglia Muller e su quella porzione di Novecento che viene narrata in questo affascinante romanzo a tesi. In questo libro, come una danza degli spettri, si accampano, restituite ad una vitalità che non pare puramente cartacea, tante altre figure che hanno recitato un ruolo non marginale in quel tempo fatidico per le sorti dell’umanità: da Hanna Arendt a Sally Bowles, la protagonista del film Cabaret e di Addio a Berlino di Isherwood, da Sartre a Peron, da quella originale figura di tanguero che fu Discépolo, a Borges.


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