2081020IRE

Da Libro bianco.

Le conseguenze di Heidegger

La Repubblica, 20 ottobre 2008


Antonio Gnoli e Franco Volpi


Mettiamola così: la filosofia non sposta più niente, non crea più opinione, non incide nelle carni della società, se non in minima parte. Con una sola eccezione: Martin Heidegger. Ma non per le ragioni che di solito gli si vogliono attribuire. Se si parte da questa affermazione, un po' tranchant, si capirà anche perché molti critici del pensatore della Selva Nera sono oggi sinceramente spaventati. Ma la paura a volte è buffa. Forse perfino singolare. Certo può dar vita a un esercizio provocatorio. Apprendere che Heidegger, attraverso la sua vicenda politica e filosofica, sia diventato un termometro della geopolitica mondiale, un misuratore del grado di ostilità che il resto del mondo nutre verso l'Occidente, è un punto di vista che fino ad oggi mancava nella sterminata letteratura sul più vessato e amato tra i filosofi contemporanei. Che la sua influenza fosse estesa è un fatto incontrovertibile, che lambisse i pensieri dei pasdaram iraniani o il populismo di Chavez, nessuno poteva onestamente immaginarlo. [[Acritica delle fonti|Eppure - dalla ricostruzione che Victor Farias fa del pensiero e del peso che Heidegger ha avuto e continua ad avere nel mondo - proprio ciò emerge con forza]]. Quando nel 1987 lo storico cileno pubblicò il suo primo libro di analisi e denuncia, Heidegger et le nazisme, subito tradotto in tutto il mondo e in Italia da Bollati Boringhieri, fu come un colpo di pistola vicino ai timpani degli heideggeriani. Che reagirono scandalizzati, e montarono un'improbabile difesa: Heidegger, sostennero, era stato in realtà il partigiano di una coraggiosa resistenza spirituale al nazismo.

Certo, nel libro di Farias c'erano pecche di vario genere e sviste anche gravi. C'era una sistematica sopravvalutazione di alcuni dettagli: per esempio, un paio di conferenze di Heidegger sul predicatore agostiniano Abraham a Sancta Clara spacciate come prova di un antisemitismo che attraverserebbe l' intera sua opera. C'era, insomma, un evidente fumus persecutionis. Eppure Acritica delle fonti|il libro ebbe il merito fondamentale di resettare l' intera discussione, svoltasi fino allora seguendo argomentazioni etico-politiche o ideologiche, e di riproporla su nuove basi: vale a dire su un lavoro d'archivio mirante a scovare le fonti e a ricostruire i fatti. È dunque lecito parlare di un "prima" e di un "dopo Farias". Lo storico cileno ritorna ora alla carica con un libro che le edizioni Medusa manderanno in libreria a fine ottobre in prima mondiale: L'eredità di Heidegger nel neonazismo, nel neofascismo e nel fondamentalismo islamico (trad. di Edoardo Castagna, pagg. 229, 14,80 euro). Un pamphlet ancora più aggressivo del precedente, anche se l'edizione italiana è stata saggiamente asciugata e limata nelle affermazioni più avventate che si leggono nella versione originaria, inedita, messaci a disposizione da Farias.

Il bersaglio è sempre l'infausto corto circuito che Heidegger ha provocato tra la filosofia e la politica. Ma questa volta Farias guarda alle conseguenze del suo pensiero, alla sua "eredità". Non a quella squisitamente filosofica e teoretica, nota a tutti, incontestabile e presente ovunque nel mondo, ma a una sotterranea influenza ideologica, meno nota, eppure potente e insidiosa: a Heidegger si rifanno i principali ispiratori della destra radicale, e il suo pensiero è diventato un riferimento ricorrente per i teorici dell' eversione antioccidentale e antisemita in Germania, Francia, America Latina e nell' Iran islamico. Un capitolo dedicato alla situazione italiana è stato prudentemente cassato, in attesa di una elaborazione più solida e convincente. La parte più scottante è quella sull'Iran islamico. Farias parte da lontano: già Henry Corbin, primo traduttore di Heidegger in francese, avrebbe introdotto a Teheran il pensatore della Selva Nera, come proverebbe una sua intervista intitolata Da Heidegger a Sohravardi. In verità, in quel testo autobiografico, Corbin cerca semplicemente di spiegare la coerenza del proprio percorso intellettuale, raccontando come fosse passato da un iniziale interesse per Heidegger allo studio della teologia protestante e fosse infine approdato al sufismo e alla tradizione islamica. Poco importa.

Ciò che incuriosisce è l' influenza dello heideggerismo nell'Iran odierno. Farias mette in risalto come i fondamentalisti iraniani abbiano accolto con favore non solo la critica heideggeriana alla moderna civiltà tecnologica e materialistica, ma anche la tesi geopolitica esposta nel 1935, in pieno nazionalsocialismo, nell' Introduzione alla metafisica: l' Europa sarebbe minacciata e schiacciata, a tenaglia, tra americanismo e bolscevismo, e il compito della grande Germania sarebbe quello di liberarla battendo una terza via. L' analogia con la situazione dell' odierno Iran va da sé, e perfino il presidente Ahmadinejad e i suoi consiglieri culturali sarebbero dei criptoheideggeriani in quanto considerano il maestro della Selva Nera un prezioso alleato e una diga contro l' occidentalizzazione del mondo. Non meno sorprendente il capitolo sull' America Latina, dove l'heideggeriano mascherato sarebbe nientemeno che Chavez. Farias sostiene che «il movimento politico-sociale che Hugo Chavez cerca di imporre ai venezuelani rivela temi neofascisti caratteristici dell' opera di Heidegger e della Rivoluzione conservatrice». E a dimostrazione cita gli scritti di due consiglieri del caudillo: il sociologo argentino Norberto Ceresole e il nazionalbolscevico Heinz Dieterich.

Ma bastano punti di tangenza con la critica heideggeriana dell' Occidente per provare che la loro ideologia politica è ispirata dall' autore di Essere e Tempo? C' è qui un procedere capzioso che diventa palese scorrettezza nel paragrafo seguente, il cui titolo insinua: «Gianni Vattimo, un heideggeriano in difesa dell'antisemita Hugo Chavez». Diciamo la verità: una conferenza di Vattimo a Caracas non dimostra nulla: né che Chavez sia heideggeriano, né che Vattimo sia antisemita. Anche nelle parti sulla Germania e sulla Francia, bisogna faticosamente separare le notizie interessanti dalle inferenze indebite, le scoperte di Farias dalle sue illazioni. Per esempio, si può rivangare a piacimento intorno alla figura di Hermann Heidegger, il figliastro del pensatore: ma che cosa provano il suo eventuale militarismo e conservatorismo rispetto alla filosofia del padre? Diverso, ma non meno scivoloso, il discorso su Ernst Nolte. Le note tesi dello storico revisionista sulla guerra civile europea, e sul nazionalsocialismo come «ideocrazia» sorta in risposta al bolscevismo, che cosa c'entrano con il fatto che per qualche semestre il giovane Nolte studiò filosofia con Heidegger? Non è tanto Heidegger ad avere influenzato Nolte, bensì piuttosto quest' ultimo che con le sue tesi storiografiche ricolloca Heidegger, e la sua compromissione, in un diverso orizzonte storico. E quanto alla Francia, come è possibile nominare, d' un fiato, Alain de Benoist insieme a Lacan, Foucault e Baudrillard, come se seguissero tutti la medesima linea? Farias è uno storico, oltre che un simpatico conversatore e un formidabile narratore di aneddoti. Lo incontrammo tempo fa e ci confessò che il suo modo di usare le fonti rovesciava con ironia la celebre sentenza heideggeriana che «il documento è la pietà del pensare». Egli invece non guarda in faccia nessuno, ma così rischia di perdere la vera identità dei volti che critica. Perché tanto accanimento nel processare Heidegger e lo heideggerismo? Evidentemente Heidegger non è un episodio qualunque della storia filosofica del Novecento, ma un caso esemplare. È stato il massimo pensatore contemporaneo, l' incarnazione del protofilosofo, ma al tempo stesso vittima illustre di un' ottusità politica imperdonabile. Il pensiero che aspira a portare la verità nel cuore del potere, a coniugare la filosofia con la politica, non è forse responsabile delle conseguenze che la sua rischiosa alchimia di teoria e prassi può avere? La storia di Heidegger è indicativa della complessità del problema. Più che l'abbaglio del filosofo che ha voluto mettere le mani nella ruota della storia universale, rimanendone stritolato, ciò che inquieta è il fatto che la ferita, che il suo caso ha aperto, la lacerazione tra filosofia e politica, non si è ancora rimarginata. Se il più grande pensatore contemporaneo ha potuto scambiare la nascita del più tragico totalitarismo della storia con l'«avvento del nuovo», come sperare che la filosofia possa garantire qualcosa? Il caso Heidegger porta alla luce qualcosa di profondo, che va al cuore della filosofia e tocca l' essenza stessa del pensiero. Uno di quegli eterni problemi che la filosofia evidentemente non aiuta a risolvere, ma solo a vivere a un certo livello: il difficile rapporto della saggezza con la tirannide, della teoria con la prassi, dell' intellettuale con il potere.


Voci utilizzate nell'articolo

Foresta nera

Nazismo spirituale


Metodi applicati

Acritica delle fonti

Promozione sul campo

Presunzione di connivenza

Simulazione di equidistanza

Alzata del Genio

Sollevare la Questione


Altri articoli collegati