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Da Libro bianco.

L’antisemitismo metafisico nell’ombra dell’Essere. Heidegger e gli ebrei alla luce dei Quaderni neri

Phenomenology Lab, 24 novembre 2014


Stefano Cardini


«Il mio “attacco” a Husserl è diretto non solo contro di lui, il che lo renderebbe inessenziale – l’attacco è diretto contro l’omissione della questione dell’essere, cioè contro l’essenza della metafisica come tale, sulla cui base la macchinazione dell’ente riesce a determinare la storia. L’attacco istituisce un istante storico di somma decisione tra il predominio dell’ente e la fondazione della verità dell’Essere». Quando Martin Heidegger annota queste parole nei suoi Quaderni neri è il 1939. L’anno precedente, la Germania del Terzo Reich aveva annesso l’Austria. Quindi la regione ceca dei Sudeti. Infine la Boemia e la Moravia, costituite in protettorato. La Repubblica cecoslovacca aveva cessato d’esistere. Ma la fame nazista non s’era placata. Adolf Hitler avrebbe presto rivendicato il corridoio di Danzica, l’accesso al Baltico della Polonia. E di fronte all’opposizione di quest’ultima, il 1º settembre 1939, l’avrebbe invasa dopo aver inscenato l’occupazione polacca della stazione radio di Gleiwitz. Era l’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Un mese dopo i nazisti avrebbero censito gli ebrei di Varsavia: circa 359mila persone alle quali, dalla provincia, se ne sarebbero presto aggiunte 150mila. L’estate seguente sarebbe iniziata la costruzione del muro per separare il Ghetto dal resto della città. Degli oltre 500mila abitanti, tre anni dopo, ne sarebbero sopravvissuti un centinaio. La segregazione era stata il preludio a un progetto ben più ampio e radicale: lo sterminio degli ebrei europei.

Che relazione c’è, se esiste, tra questi due fatti, così distanti e in apparenza incommensurabili: la rivendicazione di una posizione filosofica di un allievo all’apice della carriera contro il vecchio maestro, e la tragedia immensa di un popolo nella tragedia di un conflitto mondiale? Può essere posta anche così la domanda cui cerca di rispondere Donatella Di Cesare, docente di filosofia teoretica all’Università la Sapienza di Roma e vicepresidente della Martin Heidegger-Gesellschaft, in un volume, Heidegger e gli ebrei. I «Quaderni neri» (Bollati Boringhieri, novembre 2014), che non può essere aggirato da chiunque intenda accostarsi senza pregiudizi a una pagina terrificante della storia umana i cui fantasmi ancora aleggiano sull’Europa: un’Europa dove si spara e si uccide nelle sinagoghe e nei centri culturali ebraici; dove cresce il consenso per movimenti nazionalisti di ogni sorta; dove le piazze “antieuropeiste” greche ed “europeiste” ucraine sono presidiate da paramilitari filo nazisti; e dove gli Stati europei sembrano quasi fare a gara per riconoscere lo Stato Palestinese, approfondendo l’isolamento in cui il governo di Benjamin Netanyahu ha portato Israele. La questione non è nuova, naturalmente. Donatella Di Cesare, tuttavia, pare saper cogliere l’opportunità della pubblicazione degli Schwarzen Hefte di Heidegger, curati da Peter Trawny, pubblicati dall’editore Klostermann nel 2014 e in corso di traduzione italiana per Bompiani, per comprendere più approfonditamente che in passato il nesso tra storia del pensiero occidentale e Shoah. E argomentare sul salto di qualità che, in un milieu già orientato in chiave antigiudaica, Martin Heidegger ha rappresentato con il suo “antisemitismo metafisico”. Qualcosa di più che stabilire fino a che punto Martin Heidegger sia stato, come Carl Schmitt e molti altri grandi intellettuali, convintamente nazista.

Heidegger fu nazista perché fu antisemita, questo è il primo punto da acquisire. E fu antisemita perché la sua riflessione attorno al problema dell’Essere, già impostata in Essere e tempo (1927), avrebbe almeno da un certo momento in poi fatto dell’Ebreo il portatore primo dell’oblio dell’Essere, ovvero, della riduzione del mondo all’Ente e alla sua “macchinazione”, contro la quale urgeva assumere una decisione altrimenti priva di un contenuto positivo. E al riguardo, scrive Di Cesare, «Gli Schwarzen Hefte contengono quel non-detto che molti supponevano, o speravano, fosse anche non-pensato». Si legge nell’ultima pagina del quaderno intitolato Riflessioni XIV, all’indomani dell’offensiva tedesca a est, annunciata da Hitler il 22 giugno 1941: “La questione riguardante il ruolo dell’ebraismo mondiale [Weltjudentum] non è una questione razziale [rassisch], bensì la questione metafisica [metaphysisch] su quella specie di umanità che, essendo per eccellenza svincolata, potrà fare dello sradicamento di ogni ente dall’essere il proprio “compito” nella storia del mondo». La storia dell’antisemitismo, d’altronde, s’intreccia continuamente con quella del pensiero filosofico occidentale. E questa è la seconda acquisizione che la lettura del volume di Di Cesare suggerisce di fare. Non si tratta solamente di rimarcare le comprovate radici dell’antisemitismo moderno nell’antigiudaismo cristiano, infatti. Ma di seguire il percorso che, per limitarci alla Germania, da Lutero arriva a Kant, Fichte, Hegel, Nietzsche, Frege, onde sfuggire alla tentazione di giudicare Heidegger o Schmitt isolate patologie intellettuali, mostruosità indegne di fare parte della storia del pensiero. Al contrario, soltanto la piena comprensione dei nessi che la loro opera intrattenne con la tragica vicenda storica cui sono appartenuti ci offre una visione chiara, sebbene forse meno edificante, del pensiero occidentale. Il rischio, altrimenti, è di dividersi ancora una volta tra minimizzatori e liquidatori, nemici apparenti accomunati dall’incapacità di affrontare con la fatica e il rigore necessari le ombre che talvolta s’annidano anche nei pensieri più limpidi. Sulla scorta di questa urgenza, persino il Mein Kampf di Adolf Hitler merita di essere letto senza svalutarlo preliminarmente, con serietà, per rintracciarvi i nessi con la cultura che lo ha preceduto. Senza reticenze. L’espulsione dell’ebreo dal corpo politico, infatti, la sua inassimilabilità in qualunque idea di Patria, oltre alla sua attitudine dissimulatrice, utilitaristica, cospirativa, furono teorizzate filosoficamente ben prima del ‘900, da illuministi e da romantici. Feriscono i passi che Kant, erede in questo della religione luterana dell’interiorità, dedica alla necessità di una “eutanasia” dell’ebraismo, emblema, come lo sarebbe stato in Fichte e in Hegel, di un’esistenza votata al mercimonio materiale e all’eteronomia morale e politica. E colpiscono le note di Gottlob Frege, padre della filosofia analitica, che nel 1924, mentre auspica l’avvento di un Terzo Regno della logica, invoca leggi antiebraiche e uno stigma che finalmente separi i giudei dagli ariani.

Sul piano inclinato di questa tradizione, però, è la modernità come “epoca ebraica” a essere in questione in Heidegger. E in modo, se non nuovo, almeno peculiare. Gli ebrei, a maggior ragione se assimilati, infatti, sono per il filosofo i veri e propri agenti della modernità, ovvero, di quell’epoca storica che più d’ogni altra ha obliato l’Essere in favore dell’Ente, sradicando l’umanità dalla sua dimora per consegnarla a una perenne deriva verso inautenticità e nichilismo. Heidegger parla esplicitamente di Weltlosigkeit des Judentums: assenza di mondo dell’ebraismo. Proprio da questa condizione proviene la minaccia ebraica: senza terra, senza radici, cosmopolita, ovunque straniero non assimilabile, l’Ebreo non può che maturare un desiderio di rivalsa sui popoli che lo ospitano, che passa attraverso il potere di cui può disporre grazie alla fitta rete dei suoi contatti internazionali e al processo secolare di ibridazione, più che biologica, metafisica, cui dà seguito, e che Heidegger chiama senza mezzi termini “derazzificazione”. In questa visione della modernità si mescolano così antichi pregiudizi antigiudaici, rintracciabili anche in Kant e in Hegel, e accenti tradizionalisti, nostalgici e antisemiti che risuonano anche in autori coevi come Oswald Spengler, Ernst Jünger, Werner Sombart, Carl Schmitt. Ma con un tratto originale, laddove la questione ebraica viene collocata, fin quasi a coincidervi, nella questione ontologica, la domanda sul destino dell’Ebreo in quella sul destino dell’Essere. Nessuno era arrivato a esiti così radicali perché metafisici. È proprio in quanto esponente dell’ebraismo, quindi, che Husserl merita l’attacco (Angriff). Non c’è nulla di personale. Ebreo tedesco assimilato dei Sudeti, fervente patriota che nella Grande Guerra nazionalista aveva perso un figlio, Husserl incarnava perfettamente, per Heidegger, la fattispecie dello Jude agente della modernità, tanto più prossimo all’autentica domanda sull’Essere quanto più responsabile del suo occultamento, con quel suo ripiegare verso un trascendentalismo di stampo neokantiano, ultima vestigia moderna dell’oblio dell’Essere.

Ma la questione va oltre la pur significativa e certamente penosa vicenda biografica tra maestro e allievo. La china del pensiero di Heidegger, infatti, dopo esser risaliti alle sue sorgenti, va percorsa fino in fondo. E allora si capisce come l’Ebraismo sia per il filosofo il cuore da estirpare di un male più grande, di cui la modernità, con la sua Riforma, le sue Rivoluzioni, i suoi ideali di Libertà, Uguaglianza, Fraternità, Progresso, il suo Capitalismo, la sua Democrazia Liberale e non ultimo il suo Bolscevismo, non sono che aspetti. È in questa nebbia, e a partire da questa siderale distanza dalla quale lo sguardo metafisico si rivolge alle cose umane, che si coglie la cifra più precisa della filosofia di Heidegger. E si comprende anche l’enigma del suo sconcertante silenzio sulla Shoah, che ad alcuni apparve imbarazzato od ostinato, mentre non era che conseguente con il suo pensiero. Scrive Di Cesare: «Il silenzio di Heidegger ha ben poco in comune con la fredda indifferenza di Jünger o con la sprezzante condotta di Schmitt (…) Heidegger sceglie un silenzio che non è di rifiuto o di reticenza, ma di rinuncia. Non rilascia alcuna dichiarazione. In tal modo non accetta di figurare come complice dello sterminio, ma non si chiama neppure fuori». Rivelative, da questo punto di vista, sono le conferenze che Heidegger tenne nel 1949 nella sala del municipio della Libera città di Brema. Heidegger introdusse lì il concetto di Gestell, impianto, dispositivo, che avrebbe poi ripreso nella celebre conferenza di Monaco del 1953 sulla Tecnica. Nel testo di Brema, discettando della “macchinazione” del mondo, esito ultimo dell’oblio dell’Essere in favore dell’Ente, Heidegger scrisse: “L’agricoltura è oggi industria alimentare meccanizzata, che nella sua essenza [im Wesen] è lo Stesso [das Selbe] della fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio, lo Stesso del blocco e dell’affamamento di intere nazioni, lo Stesso delle fabbricazioni di bombe all’idrogeno”. Accostamento osceno, e che ricorda, in un modo che ancora oggi dovrebbe indurci a rilflettere, quello di altri critici radicali della modernità, questa volta da sinistra, come Adorno. Ma in quello sguardo metafisico che scruta il destino della Tecnica, si scorge soprattutto la cifra ambigua della “risposta” di Heidegger alla domanda sulla Shoah. Una risposta elusiva, non priva di quella affettazione sapienziale che costituì parte della fortuna dell’Autore, ma perfettamente conseguente. Il male, l’errore, la responsabilità, ogni distinzione, infatti, annichilisce, se in gioco è l’unica posta che valga la pena di essere in gioco: l’Essere. Come ben scrive Di Cesare: «Dall’altezza essenziale della tecnica, le sue manifestazioni diventano inessenziali. È questo l’esito di una differenza ontologica esasperata e irrigidita: la storia dell’Essere si scinde dagli eventi storici e politici che sono consegnati a un’indifferenza ontica. Null’altro conta al di fuori dell’estraneazione dell’esserci dall’Essere. E come l’Ebreo, accusato di quell’estraneazione, veniva lasciato cadere, così sotto lo sguardo livellatore e anestetizzato del filosofo dell’Essere lo sterminio è un avvenimento come un altro, onticamente indifferente».


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