2150109IWW

Da Libro bianco.

LA DELUDENTE VERITÀ DELL’ANTISEMITISMO DI HEIDEGGER

Mimesis Scenari, 9 gennaio 2015


Andrea Zhok


In uno degli ultimi numeri di Scenari Stefano Cardini richiamava l’attenzione sull’impatto della recente pubblicazione dei “Quaderni neri” di Martin Heidegger, e invitava a ripensare con più radicalità il nesso tra quel pensiero e la storia politica europea. Sulla scorta di quelle considerazioni ho preso visione direttamente dei volumi 95 e 96 della Gesamtausgabe, dove sono contenute le riflessioni degli anni 1938-1941. Come cercherò di dimostrare, sia pure per sommi capi, queste pagine sembrano effettivamente destinate a modificare le ricezione heideggeriana, non per qualche rinnovato scandalo per l’antisemitismo o nazismo di Heidegger, ma per la collocazione di quelle idee sullo sfondo complessivo del suo pensiero.


1. Antisemitismo e nazismo negli Schwarze Hefte


Il numero di passi in cui il tema dell’ebraismo è discusso nelle pagine in oggetto è piuttosto esiguo. Si tratta in tutto di 5 passi nel volume 96 e di 3 passi nel volume 95. Tuttavia i passi in questione non sono note marginali, ma tesi che collocano il tema dell’ebraismo, e di una specifica forma di antisemitismo, in una posizione strategica all’interno del pensiero heideggeriano. Proviamo di seguito a darne una breve sintesi, con la premessa che, ove possibile, cercheremo di ‘rettificare’ la prosa convoluta che Heidegger predilige, in modo da portare alla luce il nocciolo essenziale delle sue tesi, a costo di perdere alcune nuance.

Tre tesi generali sembrano stare al centro della posizione heideggeriana nei confronti dell’ebraismo.


1.1. Cosa l’ebraismo non è. L’ebraismo di cui Heidegger parla non implica una nozione di razza in senso biologico. Egli scrive chiaramente che “la questione circa il ruolo del giudaismo mondiale (Weltjudentum) non è razziale” (96: 243). L’idea stessa di una questione razziale, nel senso della possibilità di allevare (Züchtbarkeit) una specifica razza, è in effetti vista da Heidegger come parte di un processo di sradicamento della dimensione vitale originaria, cioè di un processo di pianificazione uniformante che produce l’autoestraneazione dei popoli e una perdita della loro autentica storicità (Geschichte) (96: 56-57). In sintesi, il progetto di purificazione razziale in senso biologico, che fu proprio del nazismo, risulta estraneo alla visione heideggeriana.


1.2. Cosa l’ebraismo è. Ma che cosa intende allora Heidegger per “giudaismo” (Judentum) quando ne parla? Ecco, a questo proposito gli attributi che Heidegger menziona sono fin troppo chiari. Ciò che caratterizzerebbe il giudaismo è la “mancanza di fondamento” (Bodenlosigkeit), il “non essere legati a nulla”, l’atteggiamento universalmente strumentale che rende ogni cosa utilizzabile (dienstbar). Il giudaismo sarebbe inoltre caratterizzato da una “tenace abilità nel calcolare, nello spingersi e mescolarsi” (95: 97). Il riferimento, reiterato, alla presunta predisposizione ebraica al calcolo è particolarmente significativa, se si pensa che una delle caratteristiche che Heidegger rintraccia come fondamentali nel progressivo “oblio dell’essere” è l’emergere come forma dominante di ragione della ratio calculans, cioè di una razionalità dimidiata, circoscritta alla computazione. Ma in verità tutti i tratti fondamentali ascritti al giudaismo si attagliano perfettamente al processo di oblio dell’essere, così come tratteggiato da Heidegger in celebri analisi. Lo sradicamento, la mancanza di fondamento e l’atteggiamento strumentale nei confronti di ogni cosa sono tratti essenziali dell’oblio dell’essere a favore dell’ente, ovvero della riduzione di tutto ciò che è a mero oggetto scientifico o cosa disponibile. Nella stessa ottica egli ritiene anche che all’ebraismo restino costitutivamente “inaccessibili le decisioni e questioni future più originarie” (96: 47).


1.3. La collocazione metafisica dell’ebraismo. Sul piano storico Heidegger accredita il “giudaismo mondiale” di una temporanea crescita di forza (Machtsteigerung). Tale rafforzamento sarebbe fondato nel generale sviluppo della metafisica occidentale, che conduce all’estendersi di una “razionalità vuota e calcolante” (96:47). La questione del giudaismo mondiale sarebbe la questione di un modo d’essere dell’umanità che si “può assumere il ‘compito’ storico-universale dello sradicamento di tutto l’ente dall’essere.” (96: 243) Il “giudaismo internazionale” può essere mezzo del “dominio manipolativo” (Machenschaft) che caratterizza l’oblio dell’essere (96: 133). Questo sfondo metafisico in cui l’ebraismo viene collocato include l’idea di una sua diffusione mondiale, spinta dalla stessa emigrazione degli ebrei dalla Germania; ciò renderebbe l’ebraismo “inafferrabile” (unfaßbar) e tale da non aver bisogno di ricorrere ad azioni guerresche, “laddove a noi [tedeschi] resta solo di sacrificare il sangue migliore dei migliori del proprio popolo.” (96: 262)


2. Antisemitismo culturale (ovvero, ciò che è perdonabile)


Per chi non abbia imparato ad apprezzare Heidegger come pensatore, il primo impulso di fronte a estratti testuali come quelli riassunti qui sopra è, probabilmente, semplice: destinare Heidegger una volta per tutte ad un, molto ontico, oblio, rifiutando di perder tempo con un tale personaggio.

E tuttavia le cose non sono così facili, perché, purtroppo o per fortuna, per molti, tra cui chi scrive, certe analisi di Heidegger rimangono illuminanti ed egli sembra aver visto alcune cose meglio, o più radicalmente, di altri. Dunque la scorciatoia della mera liquidazione appare inadeguata. Quali conclusioni trarre, dunque?

La prima questione che mi pare da chiarire è che il problema che queste pagine di Heidegger davvero pongono non ha molto a che fare con l’eventuale sdegno morale nei confronti di un intellettuale che abbia espresso opinioni antisemite, o che si sia compromesso con il regime nazista. Se si trattasse di un errore umano dell’individuo Heidegger, potremmo trovarlo disdicevole, ma non implicherebbe una rivalutazione della sua opera. Dopo tutto una forma di antisemitismo culturale è stata ampiamente diffusa in Europa da tempo immemorabile: i pogrom russi, o il caso Dreyfus in Francia, non avevano atteso le dittature centroeuropee per manifestarsi. Quanto alla lista di intellettuali di valore accreditati di opinioni antisemite, essa è amplissima, non solo tra gli intellettuali a vario titolo coinvolti con il nazismo (Carl Schmitt, Ernst Jünger, Konrad Lorenz), ma anche nel ‘mondo democratico’ (L.-F.Céline, D.H. Lawrence, T.S. Eliot, Ezra Pound, ecc.). Se questo fosse il tema, visto che Heidegger non si è macchiato di efferatezze materiali, il problema relativo ai giudizi di cui sopra potrebbe assumere un carattere secondario.


3. Antisemitismo metafisico (ovvero, ciò che è imperdonabile)


Il vero problema è rappresentato dalla collocazione di quelle osservazioni all’interno della proposta filosofica heideggeriana. Per sommi capi, il percorso dello Heidegger fenomenologo, che possiamo estendere fino ai primi anni ’30, giunge ad una diagnosi, controversa ma profonda, della storia occidentale, in cui si riconosce l’imporsi progressivo di un atteggiamento di ‘entificazione’ dell’essere. Ciò che Husserl esaminava come obiettivismo della razionalità scientifica occidentale diviene in Heidegger qualcosa di molto più esteso e radicale, da ripensare come questione ontologica fondamentale. Cosa accade tra Essere e tempo e gli scritti del 1935-38? L’analisi di Essere e tempo non sfocia in alcuna ‘soluzione’ circa lo stato deiettivo dell’Esserci, che non sia il rivolgersi alla sfera della decisione radicale (personale). Non c’è soluzione intellettuale, metafisica, all’“oblio dell’essere”. L’unico approccio ‘autentico’ implica un decidersi per la propria finità, facendosi carico del proprio presente. Nel caso dell’uomo Heidegger ciò si configura come un salto nell’engagement politico.

Quest’ultimo passaggio potrebbe essere considerato una forzatura ‘psicologistica’, un caso di biografismo proiettato sulla teoria. Ma non è così. Ciò è dimostrato da diversi passi degli Schwarze Hefte, tra cui la seguente considerazione autobiografica. Egli scrive: “Da un punto di vista puramente ‘metafisico’ (cioè di storia dell’essere) negli anni 1930-1934 ho ritenuto che il Nazionalsocialismo fosse la possibilità di un trapasso in un nuovo inizio” (95: 408). (Questi sono naturalmente gli anni del suo ‘impegno’ esplicito e del Rettorato.) Egli prosegue dicendo di aver frainteso e sottovalutato il movimento nazista nelle “sue forze più proprie e nelle sue necessità interne”. E qui uno potrebbe credere di trovarsi di fronte ad una specie di ‘autocritica’. Ma non è l’autocritica che ci si potrebbe aspettare. Egli infatti continua dicendo di aver frainteso la natura di necessità storica del nazismo come “compimento della modernità”, compimento già avviato dal Romanticismo, ma che per dispiegarsi doveva giungere alla “‘mobilitazione completa’di tutte le risorse dell’umanità lasciata a se stessa” (il riferimento è chiaramente alla “mobilitazione totale” in stato di guerra, di cui parla Jünger). E infine: “È solo dalla piena comprensione della [mia] precedente illusione circa l’essenza e forza storica del Nazionalsocialismo che si manifesta la necessità della sua [del nazismo] affermazione, e precisamente per ragioni speculative (denkerisch).” Aggiungendo, in coda, che questo ‘movimento’ (il nazismo) “rimane indipendente dalla sua configurazione contemporanea e dalla durata di questa forma ora visibile.” (95: 409)

La lettura di questo passo, collocato nell’insieme delle considerazioni, sembra obbligata: Heidegger avrebbe ritenuto per un breve periodo che il decidersi per il proprio presente nella forma dell’adesione al nazismo rappresentava legittimamente un ‘nuovo inizio’ in senso esistenziale, un impegno nel rinnovamento della storia occidentale, la cui ‘decadenza’ (mi si passi la semplificazione) egli aveva diagnosticato. Successivamente egli continua a ritenere che quella forma di rinnovamento sia necessaria, ma anche che la sua concrezione storica contingente (il nazismo storico a lui presente) sia irrilevante, e che gli esiti che lo concernono appartengano piuttosto alla dimensione del fato.

Ora, è proprio lo scivolamento in una visione fatalista e destinale della storia occidentale ad essere in effetti il tratto più evidente nell’evoluzione dello Heidegger post-fenomenologico che infatti presenterà la ‘svolta’ successiva ad Essere e tempo come caratterizzata dalla conclusione che “l’oblio dell’essere appartiene all’essenza dell’essere stesso” (1962). Se il processo storico di entificazione e reificazione dell’essere appartiene all’essenza dell’essere stesso, ciò significa che tale processo ha la forma di un destino, rispetto a cui ogni iniziativa o impegno appare vana e patetica.

Qualcuno potrebbe ora chiedersi, maliziosamente, se lo scacco personale dell’’engagement’ heideggeriano 1930-1934 e le conclusioni sul carattere “fatale” dell’oblio dell’essere non siano connesse in un modo ‘umano, troppo umano’. Ma, sia come sia, il problema è che una tesi che asserisce il carattere fatale del processo di ‘ontificazione’ semplicemente non può essere né una descrizione, né un’inferenza. Si tratta, in effetti, di un’opinione metafisica. Un’opinione però forte abbastanza da permettere a Heidegger, ad esempio, di trattare con sufficienza l’impegno esistenziale di cui si fa latore Sartre. Ma perché la storia gli appare in questa forma, come qualcosa di refrattario ai tentativi di governo razionale? Molte risposte possono certo essere tentate, ma ce n’è una che sembra spalancata davanti ai nostri occhi, per quanto deludente essa sia.

Heidegger dà giudizi sulla Storia dell’Occidente, ma di questa storia conosce davvero solo la storia del pensiero filosofico. La sfera pragmatica e storico-causale gli è estranea e sostanzialmente sconosciuta (per il passato, non meno che per il suo presente). Vogliamo nobilitare questa estraneità come un volontario sottrarsi alla ‘volontà di potenza’ della ragione tecnica e manipolante? Benissimo, solo che deve essere ben chiaro qual è il risultato finale di questo sottrarsi alla conoscenza della storia nel senso pragmatico e causale.

Ciò che emerge con impietosa chiarezza dagli Schwarze Hefte non è semplicemente l’antisemitismo o il nazismo di Heidegger. Gli verrebbero perdonati. Ciò che emerge in modo clamoroso è la povertà delle categorie storiche con cui Heidegger opera. I suoi giudizi sull’ebraismo mondiale non sono semplicemente ‘antisemiti’. Essi mostrano il livello di consapevolezza storica di un boscaiolo dello Schwarzwald. Si tratta di quell’opinare sull’ebraismo in modo orecchiato e pregiudiziale che faceva dire ad August Bebel che l’antisemitismo è il “socialismo degli imbecilli”. Rispetto alle opinioni sugli ebrei come votati al calcolo e all’intrallazzo, il pamphlet di Marx sulla “Questione ebraica” (di quasi un secolo prima) giganteggia per profondità. Che l’ebraismo ed antisemitismo europeo siano legati alla collocazione degli ebrei come apolidi, cui venne assegnata la sfera delle transazioni monetarie, ciò non viene neppure sfiorato da Heidegger. E non lo sfiora neppure la possibilità di leggere (come fa Marx) l’antisemitismo come rigetto dal potere acquisito dalla pratica monetaria (incidentalmente: pratica priva di fondamento, sradicante, reificante, strumentale, pura ratio calculans…). Le pratiche storiche sono ignorate, i giudizi contingenti divengono senz’altro figure dello spirito.

Heidegger si ritrova così a leggere nel nazismo a lui contemporaneo una sorta di ‘figura dello spirito’, il ‘compimento della modernità’, dalla cui altezza si può poi guardare con distacco al nazismo contingente, fatto di uomini, donne ed atti. Ma ciò va molto al di là dei giudizi su nazismo ed ebraismo. I “Quaderni neri” sono pervasi di giudizi forfettari su presunte essenze storiche come l’americanismo, la ‘russità’, la ‘germanità’, ecc. Così egli, nel 1940, si rammarica che i Tedeschi abbiano riconosciuto tanto tardi che l’Inghilterra sarebbe “priva di atteggiamento occidentale” (96: 243). Donde tale giudizio metafisico? Beh, i rapporti tra Germania e Regno Unito, ottimi nel periodo tra le due guerre, si capovolgono dopo il patto di Monaco (1938). O, ancora, troviamo Heidegger lanciarsi in un’ardita lettura metafisica dell’ “odio degli Italiani per i Greci”, che sarebbe dovuto nientepopodimeno che all’inconfessata consapevolezza che la grecità, e non la romanità, è il fondamento della storia dell’Occidente (96: 205). E come negarlo tale odio ancestrale, visto che Mussolini aveva appena dichiarato di voler spezzare le reni alla Grecia (18 novembre 1940)?

Ciò che rimane sconcertante è come Heidegger elevi continuamente a figure dello spirito, dotate di un’identità ed efficacia proprie, attribuzioni storiche orecchiate e superficiali. Che la storia gli si presenti sotto la specie del fato non appare ora poi tanto strano. Dopo tutto, delle leve utili per modificare le dinamiche storiche lui non sa nulla. La storia che lui maneggia è la storia del pensiero filosofico, con il supplemento posticcio di ‘figure dello spirito’ prêt-à-porter.

La deludente verità dell’antisemitismo di Heidegger non è nulla di demoniaco ed indicibile, nulla di controverso, ma magari ardimentoso, no, si tratta, mestamente, dell’unica cosa che a un filosofo non si può perdonare: la superficialità.


Voci utilizzate nell'articolo

Metodi applicati

Articoli collegati