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Da Libro bianco.

Donatella Di Cesare e gli «Schwarze Hefte» di Martin Heidegger

Kasparhauser, 15 gennaio 2015


Roberto Fai


“Mi viene spesso voglia di porre loro una semplice domanda: ma avete mai letto Essere e tempo”? In questi termini, rivolgendosi — per parafrasare Heidegger — “innanzitutto e per lo più” a tutti, Jacques Derrida, nel 1988, prendeva le distanze dal provocatorio e discusso saggio di Victor Farías — Heidegger e il nazismo —, uscito nell’anno precedente, e che aveva suscitato ampio scalpore con la tesi secondo cui l’adesione di Heidegger al regime hitleriano, resa ufficiale, nel 1933, con l’assunzione (e il suo famoso discorso) del Rettorato all’Università di Friburgo, più che da ascrivere a un iniziale errore di valutazione, o a mero peccato di “ingenuità politica” — così si sarebbe espressa qualche decennio dopo Hannah Arendt (sua allieva e, nella prima metà degli anni ’20, sua amante) —, oltre ad averne connotato integralmente il suo “vissuto storico”, ne aveva informato la sua stessa filosofia: in altri termini, essendo Heidegger intrinsecamente nazista, anche il suo stesso pensiero filosofico ne era intrinsecamente coinvolto, e conseguentemente era tutta la sua opera a meritare la definitiva messa al bando. Netti e trancianti erano seguiti i giudizi di molti studiosi verso il lavoro di Farías. Nell’ambiente filosofico francese, molto dura era stata la replica di François Fédier nei confronti del saggio dello spagnolo, così come lo stesso Hans-Georg Gadamer, che di Heidegger era stato allievo e interprete tra i più importanti e originali, sempre a proposito del saggio di Farías, aveva parlato di «superficialità e ignoranza». Analoga operazione di demolizione di Heidegger, in quanto “filosofo”, veniva successivamente intrapresa nel 2005 da Emmanuel Faye, il cui intento inquisitorio era quello di realizzare una sorta di proscrizione perpetua della sua opera filosofica, chiedendo l’eliminazione dei suoi libri dalle “Biblioteche”: quasi una sorta di secolarizzazione debole del già visto “rogo dei libri”. Al contempo, la convinzione di un Heidegger “non antisemita” è perdurata per lungo tempo — pur nel comune riconoscimento della sua colpa derivante dalla sua pur breve parentesi di “compromissione” con il regime nazista —, dal momento che questa è stata anche l’opinione di molti dei suoi illustri allievi, alcuni dei quali, peraltro, ebrei — dalla già citata Arendt, a Karl Löwith a Herbert Marcuse, allo stesso Hans Jonas —, ed anche di autorevoli studiosi, tra i quali quel Rüdiger Safranski che, nel 1994, su Heidegger, ci ha lasciato una straordinaria “biografia filosofica”: Heidegger e il suo tempo, che è venuta ad aggiungersi a quella del 1988 di Ugo Ott, Martin Heidegger. Sentieri biografici.

Come noto, verso la fine del 1944, nella sua Friburgo distrutta dai bombardamenti anglo-americani e occupata dai militari francesi, il nome di Heidegger verrà registrato nella “lista nera” dei collaboratori del regime, determinando la requisizione della casa, della biblioteca e, da lì a poco, anche la sospensione del suo incarico universitario, causa del suo crollo psicologico. Solo sul finire del 1951, Heidegger sarà reintegrato nell’Università, pur senza la concessione della cattedra. Tuttavia, il suo nome, specialmente in Francia, era a tal punto circondato da un alone di forte interesse che già sul finire del 1945 si prospettava un possibile incontro con Jean Paul Sartre, facilitato da quel Frederic de Towarnicki, giovane soldato, incaricato per la cultura dell’esercito francese, di stanza nella Germania occupata che, insieme al futuro cineasta Alain Resnais, aveva avuto modo di incontrare Heidegger nella sua baita della Foresta nera. De Towarnicki, che aveva già letto Che cos’è metafisica, costituì il tramite principale tra Heidegger e il mondo filosofico francese, e riuscì a colloquiare con il filosofo tedesco in più occasioni, conservando gelosamente i preziosi dattiloscritti annotati a mano dall’autore di Essere e tempo. Di questa sua esperienza con Heidegger, De Towarnicki ci ha lasciato una sorta di diario, Ricordi di un messaggero della Foresta nera. Incontro ad Heidegger. Sta di fatto che, pur se il previsto incontro con Sartre non poté aver luogo, l’interesse sul legame tra Heidegger e il regime hitleriano o il plesso “Heidegger/nazismo” — un legame carico di colpa “personale”, ascrivibile alle intime ambiguità della persona, o a quella miseria del filosofo, che non rende misera la (sua) filosofia — verrà confinato a un momento specifico e molto delimitato della vita del filosofo di Meßkirch, spingendo la comunità filosofica europea, sin dall’immediato dopoguerra a concentrarsi (e privilegiare) prevalentemente nell’opera d’interpretazione, comprensione e traduzione della vastissima e straordinaria produzione filosofica di colui che, senza ombra di dubbio, può essere considerato il maggiore filosofo del ’900: a tal proposito, vale citare il giudizio di colui che, ebreo-lituano, come Emmanuel Lévinas, già autore nel 1934 di pagine intense e straordinarie — Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo —, così si è espresso, nel 1986, verso l’opera più importante (Essere e tempo) di Heidegger: «è uno dei più bei libri della storia della filosofia — lo dico dopo alcuni anni di riflessione».

Tuttavia Heidegger non riuscirà a stemperare del tutto questa macchia inquietante che è gravata per lunghi decenni del dopoguerra sulla sua figura. Peraltro, egli stesso, ancora sul finire degli anni ’50 — in un momento storico in cui l’opera di comprensione delle ragioni del “come e perché” quel laboratorio dell’annientamento umano, che era stato il nazismo, era potuto accadere —, non si è sottratto al rischio di turbare ulteriormente la vicenda di questa sua discussa relazione con il regime hitleriano. Infatti, se il tema ineludibile, cui la filosofia non poteva sottrarsi, era quello della responsabilità del pensiero rispetto alla Shoah, con quali parole dire e giudicare l’abisso dell’indicibile che era rappresentato dall’Olocausto? Ecco perché, oltre al suo “discusso silenzio”, saranno alcune inquietanti e stupefacenti analogie, da egli stesso avanzate, che, paradossalmente, aggiungeranno qualcosa di decisamente provocatorio nella comprensione del suo giudizio sull’Olocausto. Non poteva, infatti, non avere qualcosa di perturbante la frase pronunciata da Heidegger nel 1949, in occasione di una delle sue quattro Conferenze di Brema sulla tecnica — frase, dapprima eliminata dallo stesso Heidegger, e poi reinserita quando circoleranno i dattiloscritti —, in cui egli stesso si era espresso in questi termini: «L’agricoltura è adesso un’industria altamente motorizzata, nella sua essenza la stessa cosa della fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio, la stessa cosa dei blocchi e della riduzione di paesi alla fame, la stessa cosa della fabbricazione di bombe all’idrogeno» (corsivo nostro). Questo passo non era solo “scandalosamente insufficiente” — così si esprimerà, qualche decennio dopo, Lacoue-Labarthe nel suo saggio su Heidegger del 1987, La finzione del politico —, bensì oltremodo ambiguo, perché metteva in luce l’ingiustificabile tentativo di Heidegger di neutralizzare, dietro l’uniformità del ruolo totalizzante e pervasivo del dominio della tecnica, il tratto totalmente mortifero, tanatopolitico di un nazismo, assolutamente imparagonabile a ogni generico processo di tecnicizzazione del mondo. È pur vero che, nei primi anni del dopoguerra, l’avvitarsi del clima di “guerra fredda” lasciava presagire una crescente esasperazione delle relazioni tra i due blocchi sino a enfatizzare il timore e i rischi di una guerra nucleare, rendendo pertanto plausibile un’interpretazione sul ruolo incontrollabile della tecnica, sottratta così a ogni volontà o “limite” soggettivo: la dimensione sradicante afferiva e afferisce alla tecnica in quanto tale e alla sua inarrestabile forza provocante («Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra», così Heidegger, nell’intervista con “Der Spiegel” del 1976). Tema, come noto — quello della “tecnica” — che ha peraltro rappresentato un topos della filosofia del ’900, e sul quale, non è un caso sia stato proprio Heidegger il pensatore che abbia lasciato analisi e saggi di profondo spessore, seppur controversi.

Certamente, pur nel riconoscimento della sua straordinaria statura di pensiero, domande radicali, ricerche filosofiche, giudizi severi, attese chiarificatrici sul tema “Heidegger e il nazismo” non sono mai mancati. Neppure nell’occasione dell’incontro di Heidegger con Paul Celan — forse la più significativa e intensa al riguardo —, che ebbe luogo tra i due il 25 luglio del 1967, il tema e le domande sul coinvolgimento e sull’adesione del filosofo al nazismo riuscirono a determinare una svolta, un chiarimento, mentre «la speranza di una parola che viene nel cuore» era proprio ciò che Celan si augurava, per porre fine alla sua estrema inquietudine. Il poeta Paul Celan, scampato per un caso ai campi di sterminio, aveva letto e annotato moltissimi lavori di Heidegger, e verso quest’ultimo «si sentiva attratto, e al tempo stesso se lo rimproverava» — secondo la ricostruzione lasciataci da Safranski. Il giorno successivo alla Conferenza che egli tenne nell’Aula magna dell’Università di Friburgo, davanti a circa mille persone (con Heidegger seduto in prima fila ad ascoltarlo), Celan ebbe modo di incontrare da solo Heidegger — superando qualche iniziale tentennamento —, incamminandosi con lui lungo il sentiero della Foresta Nera, per giungere poi nella baita di Todtnauberg. L’esito di quell’incontro — e di altri successivi colloqui tra i due — è circondato da un alone di mistero, e sono molte le supposizioni che ne sono seguite. E se le ricostruzioni di quei momenti da parte dei biografi riferiscono sullo «stato d’animo di ritrovata serenità» tra i due, né l’ammissione pubblica di una colpa, né il chiarimento su quell’imperdonabile silenzio, né il giudizio postumo sull’esperienza di quell’abisso dell’anima e dell’umano che era stata la Shoah, venne fuori in chiara trasparenza da quell’intimo e personale incontro tra i due — una sorta di «dichiarazione pubblica del suo cambiamento e della sua trasformazione», come già nell’agosto del ’47 aveva invocato Marcuse. O meglio: mentre Heidegger è rimasto reticente, chiuso nel suo silenzio, in assenza di linguaggio, sarà Celan ad attendere, ad aspettare (o, forse, a custodire nel suo silenzio), nella speranza di «una parola che viene senza indugi» — come scrisse nella raccolta di poesie del ’70, Luce coatta. Una parola che tuttavia mai è affiorata in superficie. Di qui dunque, la costante e profonda inquietudine di quanti non hanno mai smesso di interrogarsi su quell’incomprensibile “interdetto”. Come non ricordare, qui, anche quelli che, come Derrida, Lyotard, Lacoue-Labarthe, Otto Pöggeler, Jean-Luc Nancy, George Steiner, Ernst Tugendhat, Carlo Sini, Franco Volpi, Giorgio Agamben e altri, non hanno mai smesso di continuare a scavare dentro il laboratorio heideggeriano, non solo con l’intenzione di cogliere le ragioni (filosofiche) nascoste di quell’ostinato e imperdonabile “silenzio”, ma per fare i conti con la complessità delle sue riflessioni filosofiche, riconoscendone il valore dirompente, o pur prendendo a volte distanza da alcuni sui aspetti concettuali irrisolti. Né possono essere qui negati i giudizi fortemente critici che su Heidegger — il cui linguaggio era segnato da quel retorico gergo dell’autenticità, per dirla con Adorno — sono stati espressi da altri filosofi e storici, quali Theodor W. Adorno, Ernst Nolte, Richard Rorty, Jürgen Habermas, per i quali, oltre alla colpa inemendabile della sua “compromissione” con il regime hitleriano, era da mettere nel dovuto conto anche un giudizio severo su alcuni aspetti del suo pensiero filosofico.

Sta di fatto che il problema del rapporto controverso e ambiguo tra Heidegger e il nazismo, è tornato prepotentemente in questo scorcio di fine 2014 a inquietare, in modo dirompente e perturbante, il mondo filosofico, alla luce della pubblicazione dei suoi cosiddetti Quaderni neri: appunti personali di Heidegger, la cui prima parte è stata resa pubblica solo alcuni mesi fa. Al momento si tratta di circa 1.200 pagine, contenenti riflessioni di Heidegger che giungono sino al 1941. Complessivamente, i “Quaderni” in questione comprendono un arco di anni che va dal 1930 al 1970. In Italia, saranno editi da Bompiani sul finire del 2015. Dobbiamo essere grati a Donatella Di Cesare, filosofa dell’Università “La Sapienza”, già allieva di Hans-Georg Gadamer e vice Presidente della Martin Heidegger-Gesellschaft, se già adesso siamo in grado di penetrare, pur parzialmente e indirettamente, dentro queste pagine inedite e nascoste di Heidegger: un intricato e sorprendente laboratorio filosofico, che assomiglia «al diario di bordo di un naufrago che attraversa la notte del mondo» (così, la Di Cesare), e che lo stesso Heidegger aveva richiesto venisse edito solo al termine della sistemazione/pubblicazione delle sue opere complete. Il saggio, denso e importante, della Di Cesare, ha per titolo Heidegger e gli ebrei. I «Quaderni neri», ed è edito da Bollati Boringhieri (2014).

Il lavoro della studiosa si segnala innanzitutto per il carattere sistematico e organico della ricostruzione dell’intera vicenda, inscrivendo intanto l’origine dello stesso antisemitismo di Heidegger all’interno del contesto culturale, religioso e filosofico della Germania degli ultimi secoli: dentro lo sfondo religioso, filosofico, teologico-politico, in cui Martin Lutero, elevando la sua protesta contro Roma, la Chiesa e il Papato, verrà inaugurando il profilo della nuova identità tedesca, sino ad invocare «la distruzione degli ebrei». Forse qualcuno potrebbe sorprendersi, ma con Lutero la filosofia sistema la “questione ebraica”. Grazie a Lutero, in termini inediti, non solo «riemergeva così l’antitesi tra carne e spirito che aveva improntato la polarizzazione tra ebrei e cristiani» (Di Cesare, p. 30), ma proprio in ragione di ciò, il cuore della Riforma protestante, conferendo alla sfera interiore (lo “spirito”) il suo primato, non farà altro che assumere gli ebrei e l’ebraismo a bersaglio di un violento disprezzo. L’originaria accusa agli ebrei della colpa inemendabile per il crimine del “deicidio” di Gesù, si univa adesso alla lotta teologica di Lutero contro l’intero corredo di quella esteriorità — riti, cerimonie, legalismo, carnalità — che aveva il suo fulcro proprio nell’ebraismo. In tal senso, quella che era stata la plurisecolare “particolarità ebraica” — l’erranza infinita, l’eccezionalità, l’estraneità, l’eterno esodo — veniva colpevolizzata e rovesciata come un guanto, per essere assunta a bersaglio di una feroce critica senza quartiere e di estrema violenza contro gli ebrei, considerati un popolo senz’anima, perfidi, abietti, blasfemi, dannati e portatori di “menzogna”: «è nella critica alla “particolarità” ebraica che si compie, quasi inosservato, il passaggio dall’antigiudaismo, di ordine più prettamente ideologico, all’antisemitismo. Lutero apre un baratro tra jehudim e gojim, tra ebrei e gentili, che non sarà più colmato nella tradizione tedesca. L’impossibilità di convertire il popolo ebraico si coniuga con un pessimismo radicale che nel governo del mondo lascia spazio alla violenza del potere» (Di Cesare, p. 33).

Naturalmente, come noto, giudeofobia, antisemitismo e odio per gli ebrei attraversano non solo il pensiero teologico-filosofico tedesco, bensì scandiscono, dopo Lutero, segmenti significativi della filosofia europea. Sia in Voltaire che in Kant, sia in Schopenhauer che in Nietzsche, poi da Ficthe a Hegel — precursori dello “spirito” tedesco —, non solo “l’accusa della menzogna”, bensì la stessa immagine degli ebrei come di coloro che non erano degni di poter condividere l’aspirazione alla “universalità” illuministica, rende il popolo di Abramo inassimilabili ed “esterni” al corpo politico dello Stato, ma è la loro stessa presenza fisica — inafferrabile, sfuggente, erratica, particolaristica — ad assumere un ruolo così ingombrante, sì che il passo per giungere dall’antisemitismo filosofico alla “soluzione finale” di Hitler sarebbe stato molto breve. D’altra parte, la Judenfrage (la “questione ebraica”), come aveva opportunamente scritto Hannah Arendt, proprio in pieno clima illuministico aveva trovato il suo fondamento (inquietante): «la moderna questione ebraica nasce nell’illuminismo; è l’illuminismo, cioè il mondo non ebraico che l’ha posta» (H. Arendt, Illuminismo e questione ebraica). Peraltro, nel clima di profondo scoramento collettivo che aveva avvitato la Germania, uscita sconfitta e umiliata a seguito del primo conflitto mondiale, «la grande rinascita della cultura ebraica nel periodo di Weimar, fino alla crisi del 1929-1930 […] infiammò la polemica antisemita» (Di Cesare, p. 113), al punto che di fronte all’affermarsi dello “spirito ebraico” — proprio nel vivo di una profonda “crisi d’identità” e di totale turbamento dei tedeschi — e dell’influsso degli ebrei nel cinema, nelle arti, nella letteratura, nell’editoria, nell’economia in genere, crebbe, specularmente, una profonda insofferenza negli ambienti tedeschi della borghesia conservatrice, del mondo accademico e dell’opinione pubblica delle province, alimentando sino all’estremo le posizioni antisemite più radicali, consentendo poi la presa del potere da parte di Hitler.

Le pagine della Di Cesare su questi aspetti — l’intero capitolo, La filosofia e l’odio per gli ebrei, pp. 29-82 — sono davvero illuminanti e penetranti, e a esse vale la pena di rimandare i lettori, ed è proprio lasciandosi alle spalle questo denso capitolo, che fa da sfondo storico-culturale e filosofico-teologico alle stesse pagine antiebraiche di Heidegger, che l’autrice può inscrivere la stessa riflessione filosofica del filosofo, o meglio: assumendo la questione ebraica in Heidegger, come “questione metafisica”, così come egli stesso ne aveva indicato i termini nei “Quaderni neri”. Questione metafisica, nel senso che l’antisemitismo di Heidegger, pur essendo ben distante dal razzismo di matrice biologica che andrà connotando la cultura e la politica del nazismo — il che non assolve Heidegger per le sue posizioni filosofiche, dal momento che le pagine dei suoi “Quaderni neri” sono cariche di un diffuso humus antiebraico — nasce proprio dall’iscrizione dell’ebraismo nella metafisica occidentale. In altri termini, nel momento in cui, con la modernità, era giunto a compimento il progetto nichilistico della metafisica, vale a dire la dimenticanza dell’Essere a favore dell’ente, l’abbandono dell’Essere e la completa entificazione dell’Essere, Heidegger assegna e imputa proprio all’ebraismo e agli ebrei questo oblio, questa piena entificazione dell’Essere, questo totale dominio dell’ente. Al punto che quello che, per Heidegger, costituisce l’obiettivo primario — il recupero, la “salvaguardia” di quella differenza ontologica (tra Essere ed ente), in grado di porre un freno a quel deserto che cresce di un nichilismo illimitato —, trova il suo ostacolo maggiore proprio nella figura dell’ebreo. In questi termini, la Di Cesare ricostruisce questa dinamica: «Nei Quaderni neri, mentre resta l’ammonimento all’oblio dell’essere, la differenza ontologica si esaspera, diventa una dicotomia estrema, una divaricazione fatale, un contrasto insanabile. La guerra mondiale viene letta attraverso lo schema della differenza ontologica e si rivela, perciò, la guerra dell’Essere contro l’ente. Lo scontro planetario, che si disegna sull’abisso, ha un valore al contempo ontologico, teologico e politico. Se il destino dell’Essere è affidato ai tedeschi, l’avanguardia dei popoli europei, il predominio dell’ente è imputato agli ebrei. Non solo l’Ebreo, identificato con l’ente, è irrimediabilmente separato dall’Essere, ma è anche accusato di questa separazione […], scisso dall’Essere, l’Ebreo si avvicina pericolosamente al nulla, a cui già Hegel lo aveva condannato. Per Heidegger sussiste un nesso di complicità tra metafisica e ebraismo […]. Sta qui uno dei nodi principali della visione che Heidegger delinea. Esito ultimo e aberrante della modernità, il potere ebraico è il predominio dell’ente. La condanna non potrebbe essere più schiacciante. Il baratro che si spalanca impone di identificare nell’Ebreo il nemico metafisico. Heidegger ripete il gesto di esclusione in modo tanto più radicale, in quanto lo compie sul limite dell’abisso, nel tempo dell’indigenza, nella notte del mondo» (ivi, pp. 98-100). Già: quella notte del mondo, in cui Heidegger andrà contemplando, apocalitticamente, una Germania, cuore dell’Europa e diretta erede — come “l’Altro inizio” — di quella Grecia costituente il “primo inizio” del pensiero, ma tuttavia stretta «nella morsa della Russia da un lato e dell’America dall’altro». Proprio in quel decennio che va dalla prima metà degli anni ’30 sino alla metà del decennio successivo — inaugurato dalla presa d’atto del suo fallimento politico con il “ritiro” dal Rettorato —, Heidegger non farà altro che condensare così le sue inquiete e sinistre profezie, avviandosi verso alcuni dei suoi vettori di pensiero davvero decisivi: dalla riscoperta e valorizzazione della poetica di Hölderlin alla cosiddetta “svolta” (la Khere), dal tema dell’Ereignis (“l’evento”) — elaborando i famosi Contributi alla filosofia (Dell’evento) —, sino alla centralità della questione della tecnica e del Gestell (“impianto”), mentre andrà intensificando (coi Quaderni) il cuore di quel suo “antisemitismo metafisico” che, purtroppo, con Hitler e il regime nazista troverà pieno e totale dispiegamento concreto nei campi di sterminio. In altri termini, lo sguardo di Heidegger appare raggelato da questa costellazione concettuale e materiale, totalmente nichilistica — in cui l’Ebreo è il principale artefice —, segnata da un processo di radicale sradicamento che trova le sue forme e i suoi vettori nel capitalismo, nel dominio tecnico, nel bolscevismo, nel denaro, in quella Machenschaft, che è, sì, “macchinazione”, calcolo inarrestabile, ma anche intrigo, complotto — quell’affaccendarsi subdolo in cui «il potere ebraico […], privo di radici e di suolo, privo di profondità e di storia, corre sulla superficie del globo, lo irretisce tramando e intrigando, tessendo quei rapporti basati solo sul tornaconto, favorisce lo smisurato e la massificazione, asseconda il mescolamento, traffica, commercia, negozia, si affaccenda […], usura l’ente. Riduce tutto a calcolo, asservisce, rende “spettrale” la realtà, la svuota e la priva di senso, fa dello spirito un fantasma, depotenzia l’essere» (Di Cesare, p. 125). Il lavoro della Di Cesare non tralascia, né trascura nulla dei temi, delle questioni, degli argomenti, delle categorie concettuali che compongono il vasto arcipelago filosofico heideggeriano, così come sa mettere a fuoco e rilevare in pagine intese quelle differenze e analogie che, sulla “questione ebraica”, hanno visto confrontarsi, in quegli stessi anni, in quella medesima temperie, altre due personalità di spicco della cultura e della filosofia tedesca: Carl Schmitt e Ernst Jünger. Così come sa prendere di petto l’intero paesaggio critico che, in questo secondo Novecento, ha provato ad avvicinarsi alle aporie e contraddizioni heideggeriane: da Jacob Taubes a Lévinas, da Derrida a Marlene Zarader a Hans Jonas. E a queste altre intense pagine del suo bel saggio rinviamo i lettori.

Aporie e contraddizioni, abbiamo detto: infatti, è come se il paradosso dentro cui il pensiero filosofico di Heidegger sembra incardinarsi, avvitarsi, inflettersi, in questa sua inquieta e angosciata e angosciante “iscrizione” dell’essenza dell’Ebreo — le cui ragioni, probabilmente, possono essere rintracciate nell’ambito di quelle Stimmungen (tonalità emotive) che afferiscono al Dasein: del quale, peraltro, davvero in modo straordinario, egli stesso aveva saputo tessere la fenomenologia della sua vita fattizia, già a partire dalle pagine di Essere e tempo: da qui, un doppio paradosso! —, risiede nel fatto che, pur partito egli stesso dalla critica radicale di ogni essenzialismo, di ogni metafisica dell’identità, di fronte alla domanda originaria su cui arrovella da sempre la filosofia — il “che cosa?”, il “che cosa è?”: il ti ésti del Teeteto —, è come se Heidegger ricadesse in quell’essenzialismo metafisico da cui provava a sfuggire, riproducendo una sorta di Ebreo metafisico, costruendo «una figura astratta a cui vengono astrusamente conferite le qualità che dovrebbero appartenere all’“idea” dell’ebreo, al modello, all’Ebreo ideale, nella cui fantasmatica sostanza vengono convogliate le rappresentazioni passate e proiettati gli spettrali incubi del presente e le recondite visioni del futuro […]. La metafisica dell’Ebreo produce un Ebreo metafisico, l’idea dell’Ebreo metafisicamente definita sulla base delle secolari opposizione che mettono fuori l’ebreo, lo respingono nell’apparenza inautentica, lo relegano nell’astrazione senz’anima, nell’invisibilità spettrale, via via fino al nulla» (ivi, p. 210).


Soglia

In fondo, se ci fosse concessa un’immagine che potrebbe “turbare” Heidegger, potremmo ricordargli che quando ha incontrato e s’è innamorato di Hannah Arendt, egli non ha incontrato e avuto di fronte un’astrazione, un’essenza, l’idea dell’Ebreo, bensì la presenza di un’ebrea in carne e ossa! Come se Heidegger, nella sua vita fattizia, non fosse stato all’altezza della “decisione”, non avesse saputo corrispondere a quel carattere faticoso, tragico, fuggevole, abissale cui è esposta ogni apertura iniziante, così come egli stesso aveva saputo descriverne la fenomenologia. E come se, in Heidegger, «l’esserci che si oltrepassa non va verso l’altro, ma torna a se stesso […] Non che manchi l’altro in Heidegger. Ma la finitezza dell’esserci è de-finita dall’altro nel senso che è confinata. Non è l’altro a far sconfinare» (Di Cesare, p. 273). E se fosse, a posteriori, proprio la Arendt a poterci illuminare, nella comprensione del plesso “Heidegger/antisemitismo”, grazie a quello straordinario affresco aneddotico che ella scrisse nel 1953 — La volpe Heidegger —, in cui seppe cogliere (proprio da donna che l’aveva amato?) il fondo oscuro dell’esserci più autentico di Heidegger, scolpendone plasticamente la sua chiusura nell’interiorità? Quella stessa interiorità che, per analogia ma per altre vie, aveva informato l’antisemitismo di Lutero? Ecco un’ampia sintesi dello straordinario ritratto di Heidegger, firmato dalla Arendt.

«C’era una volta una volpe, ma così priva di scaltrezza che non solo cadeva continuamente nelle trappole, ma non era in grado di percepire la differenza tra una trappola e ciò che non lo è. Questa volpe aveva un altro difetto… qualcosa non andava nella sua pelliccia,… così era del tutto sprovvista della naturale protezione contro gli inconvenienti della vita da volpe. Questa volpe, dopo aver girovagato per tutta la giovinezza nelle trappole di altra gente e non essendole rimasto sano per così dire neanche un pelo della sua pelliccia, prese la decisione di ritirarsi del tutto dal mondo delle volpi e si diede alla costruzione di una tana da volpe. Nella sua raccapricciante ignoranza su che cos’è una trappola e cosa non lo è, e con la sua incredibile perizia in trappole, pervenne ad un’idea nuovissima e — tra le volpi — inaudita: … si costruì una tana come trappola, vi prese dimora, la diede ad intendere come una normale tana e… decise di trasformare la sua trappola — che andava bene solo per Lei — in trappola per altre volpi… Il che attesta di nuovo una grande ignoranza in materia di trappole: nella sua trappola nessuno poteva entrare davvero… Perché ci stava già dentro Lei… Quindi la nostra volpe incappò nella bella trovata di addobbare la sua trappola nel più elegante dei modi e di munirla di chiari segni che inequivocabilmente dicessero: “Venite tutti qui, qui c’è una trappola, la più bella trappola del mondo!”. Da quel momento in poi fu chiarissimo che in questa trappola mai nessuna Volpe avrebbe potuto introdursi per errore senza volerlo. E tuttavia ne vennero molte. Perché questa trappola alla nostra volpe serviva da tana… E se si voleva farle visita nella tana dove abitava si doveva di necessità entrare nella sua trappola… Da cui, certo, chiunque poteva uscire ed andarsene… tranne lei stessa…. La trappola le era stata letteralmente costruita addosso. La volpe che abitava la trappola diceva, tutta fiera: “Entrano in così tanti nella mia tana, sono diventata la volpe migliore di tutte”…. Ed anche in questo caso c’era qualcosa di vero: nessuno conosce le trappole meglio di chi passa tutta la vita in una trappola».

Non è affatto nostra intenzione — con la soglia di cui sopra —, ridurre l’antisemitismo di Heidegger ad una mera questione di indecisione esistenzialistica, o ad una paradossale “apertura che si chiude su se stessa”, come in questa metafora della volpe nella tana. L’abisso delle sue pagine antisemite dei “Quaderni neri” è profondissimo e carico di colpe inemendabili. Semmai, anche da questo ritratto della Arendt emergono, in Heidegger, aporie e paradossi che arrivano a fendere la stessa figura, l’immagine, il “destino” di quell’Essere, al cui accadere, al cui “darsi”, sempre eventuale, il Dasein può/deve saper corrispondere, proiettandosi verso le sue eventuali possibilità. Infatti, se proviamo a guardare, con gli occhi di Heidegger, l’Essere — il cui accadere, sappiamo che “si dà” ogni volta nel suo frangersi storico —, a partire dalla modalità in cui egli concettualizza la “questione ebraica”, è come se esso (“l’Essere”) gli apparisse o si manifestasse quale “Inizio atemporale”, “origine pura” e incontaminata, un’autocnia autentica, eternamente radicata e immutabile, cui poter accedere nella sua purezza, nella sua pienezza: immagine che, paradossalmente, sembra ricacciare indietro Heidegger in una sorta di inizio pensato metafisicamente, che era piuttosto ciò che egli aveva provato a lasciarsi alle spalle, consegnando l’idea di una “origine pura” a quella lunga stagione della metafisica occidentale, con cui aveva fatto i conti. Paradossalmente, proprio l’opposto di quella apertura anarchica e infondata che, nella chiusura e nella fine di tutti gli “stampi metafisici” — per dirla con le parole di quel Reiner Schürmann, che ci ha lasciato, forse, una delle più suggestive interpretazioni di un Heidegger, “letto” a partire dalla fine — era sembrato inaugurare quell’Essere come Ereignis (“Evento”) che, almeno a parere della critica più avvertita del ’900, costituirebbe l’Heidegger più “vero”, più “produttivo”, più autentico.

È comprensibile, pertanto — senza con ciò sminuire la portata della scena drammatica, ingiustificabile e inemendabile in cui Heidegger inchioda, e umilia, nei Quaderni neri, la “questione ebraica” — che, seguendo la prima immagine dell’Essere che abbiamo provato a delineare sopra, dentro le aporie e i paradossi rilevati, l’Ebreo — proprio per quel suo albergare deserti, per il suo eterno sradicamento, la sua erranza sconfinata, il suo esodo infinito, il suo anarchico trascendersi — mini l’Essere, ne metta «a repentaglio l’incolumità e la purezza, ne sovvert[a] anarchicamente l’arché […]. Gli ebrei sono testimoni scomodi della non coincidenza di sé con sé, dell’espropriazione immemoriale, dell’alterità insuperabile, dell’impossibilità di essere presso di sé […], intralciano ogni progetto di appropriazione, ogni passione di padronanza, ogni ossessione di dominio, ogni fondazione e autofondazione, ogni volontà di volere, ogni compulsione al compimento. Perciò il Nazionalismo li ha eletti a nemici» (Di Cesare (ivi, 215-216).

Da quest’ultimo punto di vista, non costituisce infatti, un altro radicale paradosso il fatto che Marlène Zarader abbia potuto parlare di un “debito impensato” (Merlène Zarader, Il debito impensato. Heidegger e l’eredità ebraica, Vita e Pensiero, 1995), a proposito del rapporto tra Heidegger e la tradizione ebraica? Come a dirci che le figure dell’Essere a cui tenda, da ultimo, l’approdo heideggeriano, anziché ripetere l’eco di una tradizione greca, manifesti piuttosto una vicinanza a quella biblica? Quell’impensato che pur attraversa lo stesso Heidegger, il quale, mentre attinge e sembra essere prossimo, inconsapevolmente, a quest’ultima tradizione, paradossalmente si costruisce un’essenza, un’idea, un’immagine metafisica e negativa, nichilistica di quell’Ebreo che, al contrario, avrebbe dovuto allontanarlo da una concezione di un Essere, quale sorgente pura, “autenticità” cui approdare, “inizio incontaminato”. Heidegger inchioda e ricaccia così nel nichilismo proprio quell’ebraismo e quegli ebrei che dal peggiore, ferino e razziale nichilismo (nazista) saranno annientati: vittime innocenti nei campi di sterminio. Escludere gli ebrei da ogni “relazione” con l’Essere, non ha pertanto avuto l’esito agghiacciante di aver esposto, confinato il Dasein proprio nel luogo mortale, mortifero, tanatopolitico del suo stesso fallimento? L’ostinato “silenzio”, mantenuto da Heidegger, è forse il segno del suo stesso sgomento di fronte all’indicibilità di quell’abisso che egli stesso ha pensato ed evocato? Cosa dire, come continuare a pensare, pertanto, quell’evento dell’Essere, consegnato proprio nell’alterità irriducibile, sempre “a venire”, di un Altro/altro assolutamente “improgrammabile”, inesprimibile, di quel volto indicibile che, da Lévinas a Derrida a Nancy, costituiscono il cuore delle radicali domande che il suo stesso pensiero filosofico ci ha lasciato in eredità? Come pensare, allora, o meglio: è ancora possibile pensare, a partire — per dirla con il Nancy de L’esperienza della libertà — da quello «spazio lasciato libero da Heidegger»?

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