2150210IAV

Da Libro bianco.

Quell'odiosa "cecità" di Martin Heidegger

Di prossima uscita, la seconda parte dei diari del pensatore tedesco conferma la simpatia per il nazismo e la visione della Shoah come una forma di autoannientamento del popolo ebraico. Il problema della responsabilità etica e sociale della ricerca filosofica


Avvenire, 10 febbraio 2015


Adriano Fabris


All'inizio dei suoi trattati di Metafisica Aristotele ricorda che tutti gli esseri umani tendono per natura al sapere. Prova di ciò è l'amore per le sensazioni e, soprattutto, per la sensazione della vista. Perché bisogna privilegiare la vista? Perché, dice Aristotele, essa ci consente di vedere meglio le differenze fra le cose. la vista, in altre parole. permette di mettere bene a fuoco gli eventi del mondo e di definirli. Ecco perché si tratta del senso filosofico per eccellenza. E tuttavia tante, troppe volte nella storia del pensiero i filosofi sono stati ciechi: ciechi rispetto a quanto risultava. invece, del tutto evidente. Perché è accaduto questo? Perché, spesso, le loro idee hanno fatto da filtro nei confronti della realtà. Invece che illuminarla e spiegarla l'hanno occultata o deformata Di questo pericolo ben si era accorto Wittgenstein. E perciò, nelle Ricerche filosofiche, scriveva: «Non pensare, guarda!». Uno degli esempi più inquietanti di questa cecità, in tempi recenti, è offerto dal pensiero di Martin Heidegger. Di Heidegger da qualche mese sono disponibili i primi Quaderni neri, quelli relativi al periodo che va dal 1931 al 1941, e ora stanno per essere pubblicati, sempre a cura di Peter Trawny, quelli degli anni dal 1942 al 1948. Si tratta di una sorta di diario intellettuale in cui il pensatore tedesco annota le sue riflessioni e, soprattutto, cerca d'interpretare filosoficamente il momento storico in cui vive. In essi, fra l'altro, troviamo un'esplicita conferma della sua compromissione culturale e politica col nazismo. Anche per questo i primi tre volumi pubblicati dei Quaderni neri hanno suscitato un ampio e vivace dibattito. Alla luce di questi documenti non è più possibile negare 'antisemitismo di Heidegger, a dispetto delle residuali posizioni difensive di alcuni sostenitori. E dunque è comprensibile lo sconcerto del presidente della Heidegger Gesellschaft, Giinter Figal, che ha rassegnato le sue dimissioni proprio a seguito della pubblicazione di questi scritti. Il problema, tuttavia, è soprattutto quello di capire perché un pensatore come Heidegger abbia potuto assumere posizioni consimili• perché, appunto, sia stato così cieco. Già in questi pochi mesi si è sviluppato un ampio dibattito e sono state date specifiche letture: ad esempio da parte di Peter Trawny, di Emmanuel Faye, di Donatella Di Cesare e di chi scrive.

La questione, in effetti, possiede una serie di risvolti gravi e odiosi. Tanto più in quanto, nei nuovi materiali in corso di pubblicazione, Heidegger parla esplicitamente della Shoah. Lo fa, come sul Corriere della sera di domenica ricordava Donatella Di Cesare, definendola non già un «annientamento», bensì un «autoannientamento» del popolo ebraico: esprimendosi cioè in termini che suonano fortemente irrispettosi rispetto alla realtà dei fatti. Secondo Heidegger la Shoah è il rivoltarsi contro il popolo ebreo di quella che è la sua specifica «essenza». L'ebreo incarnerebbe infatti il potere sradicante e distruttivo della tecnica moderna: proprio ciò contro cui il popolo tedesco, in quanto radicato nella propria terra, sarebbe chiamato a combattere.

Si tratta certamente di tesi che non basta solo discutere e di cui non è sufficiente dichiarare la scorrettezza. Lette a posteriori hanno il sapore della giustificazione e trasformano il pensiero filosofico in mera ideologia. D'altra parte non è neppure corretto sostenere l'immediata e diretta dipendenza, come fa ad esempio Emmanuel Faye, delle scelte ideologiche di Heidegger dall'andamento del suo pensiero. Se il pensiero di un filosofo fosse unicamente giudicato a partire dalla liceità dei comportamenti pratici, credo che ben pochi autori eviterebbero una censura più o meno rave: dal Platone amico del tiranno di Siracusa al Rousseau pessimo padre; dal giovane Hegel antisemita allo Husserl guerrafondaio. Non bisogna certo smettere di leggere le loro opere a causa delle scelte che, nella loro vita, essi hanno compiuto. E tuttavia è ben vero che, se possiamo ricavare un insegnamento da questa ulteriore puntata del "caso Heidegger", esso riguarda in generale proprio il rapporto tra l'elaborazione teorica e la pratica concreta. E' in gioco non solo il giudizio su un singolo pensatore, ma soprattutto la questione, più di fondo, della funzione e della responsabilità della ricerca filosofica. Parlavo all'inizio del filtro che la filosofia interpone nei confronti del reale. Ciò comporta la possibilità, per il filosofo, di comprendere il mondo in maniera spassionata, grazie alle teorie che viene elaborando, ma anche il rischio di rinchiudersi nelle teorie da lui stesso elaborate: perdendo il contatto con le cose. Se ciò avviene è la filosofia, per prima, ad averne detrimento. L'assunzione della responsabilità da parte di un pensatore non è dunque solo un'esigenza orale, ma è la condizione per far bene filosofia. Ecco ciò a cui, soprattutto, ci richiama la vicenda di Heidegger.

Voci utilizzate nell'articolo

Metodi applicati

Articoli collegati