Discorso di rettorato

Da Libro bianco.

===La quadratura in se stessa dell’Università tedesca<ref>Il Discorso di rettorato fu pronunciato sabato 27 maggio 1933 in occasione della cerimonia ufficiale di insediamento del nuovo rettore dell’Università di Friburgo in Bresgovia. La traduzione segue il testo della prima edizione (Die Selbstbehauptung der deutschen Universität, W.-G. Korn Verlag, Breslau, 1933) così come è stato riprodotto nell’opuscolo pubblicato con lo stesso titolo dal figlio ed esecutore testamentario di Martin Heidegger, il dottor Hermann Heidegger (Klostermann, Frankfurt a.M. 1983)</ref> <ref>Illustriamo nel modo seguente la nostra versione italiana della locuzione Die Selbstbehauptung der deutschen Universität. Il sostantivo Selbstbehuaptung e il verbo Sichbehaputen rimandano, come mostra Fédier [Introduzione...], a quella circostanza in cui è necessario tener testa (Haupt) ad un attacco; potremmo forse aggiungere che si tratta di un resistere impegnato nel tentativo di trasformare l’energia maligna (del colpo) nel suo opposto. La Selbstbehauptung è quel peculiare ritorno in se stessi (e nelle proprie potenze costitutive) che permette di mantenere la posizione in una lotta o in un conflitto in cui ne va dello scopo principale della propria esistenza. In italiano, diciamo «far quadrato (o porsi in quadrato) contro qualcosa...»; l’agg. «quadrato» può significare «robusto», «vigoroso», ma anche «costante in un contegno», «che non si lascia fuorviare», «che resta fedele a se stesso», «ben fondato», «ben costruito», «che sostiene»... Pascoli parla della «quadratura dell’animo», intendendo con questo la coerenza e la rettitudine, la stabilità degli intenti; si dice anche «dar quadratura a qualcosa», per esempio ad uno Stato, per indicare che s’intende riportarlo al suo proprio costitutivo decoro. La Selbstbehaptung dell’Università è quel moto in cui essa si dà, da se stessa e per se stessa, la propria quadratura, ossia ciò che le permette di far quadrato in sé “verso e nonostante tutto”. C’è una parola che rende bene quanto veniamo dicendo, e alla quale forse il lettore più attento avrà già pensato: l’aggettivo «tetragono». Nel canto XVII del Paradiso (il canto centrale dell’incontro con il Cacciaguida), si leggono i notissimi versi: «... dette mi fuor di mia vita futura / parole gravi, avvegna ch’io mi senta / ben tetragono ai colpi di ventura... «, cioè: nonostante che io mi senta ben saldo, incrollabile di fronte alle percosse della fortuna. «Tetragono» significa «stabile come il cubo». In un luogo del suo commento all’Etica Nicomachea (il riferimento è al passo 1100b 18-22: «hó g’hos alethôs agathòs kaì tetrágonos»), Tommaso dice: «Sed tetragonum nominat perfectum in virtute ad similitudinem corporis cubici, habentis sex superficies quadratas, propter quod bene stat in qualibet superficie. Et similiter virtuosus in qualibet fortuna bene se habet». La Selbstbehauptung dell’Università tedesca è la sua virtù propria: in qualibet fortuna bene se habet, ossia: quali che siano i colpi e gli attacchi, le sfide e i “tempi”, essa, unicamente a partire dalla sua essenza di Universitas, deve “tener testa”, in modo congruo al decoro della sua missione storico-spirituale; essa deve restare ben tetragona “nonostante e verso tutto”, deve far quadrato e insediarsi così nelle proprie forze e potenze nonostante ogni tentativo esterno di mettere tutto a soqquadro. Il punto è allora esattamente qui: la quadratura in se stessa dell’Università contro il suo intimo soqquadro (la Selbst-behaupung contro la Selbst-enthauptung; si veda infra il testo Il rettorato. Fatti e pensieri, in particolare p. 248) [N.d.C.]</ref>===

Testo tratto da: Martin Heidegger Scritti politici, Prefazione, postfazione e note di François Fédier, ed. it. a cura di Gino Zaccaria, Piemme 1988, pp. 129-142.

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Assumere l’incarico di rettore significa accettare l’obbligo e la responsabilità della direzione spirituale di questa Alta Scuola di studi. I docenti e gli allievi, che sono al suo seguito, si destano e si rafforzano, nel loro seguire, solo a partire dal verace e comune radicamento nell’essenza dell’Università tedesca. Ma tale essenza perviene alla chiarezza, all’alto rango e alla potenza solo quando, innanzitutto e sempre, coloro che dirigono, cioè le guide, siano essi stessi diretti e guidati <ref>Traduciamo così la frase: «wenn (...) die Führer selbst Geführte sind». Osserviamo che in tutto il testo del Discorso di rettorato la parola Führer non compare nemmeno una volta nel senso esclusivo in cui è impiegata durante il periodo hitleriano, ovvero come nome riservato alla «guida suprema» – in tedesco: «Der Führer». Qui, nel primo capoverso del testo, il termine designa chiaramente un plurale: tutti coloro che guidano, ovvero, come dirà nel capoverso 22, tutti quelli che avranno «la forza di costituirsi come un corpo di guide, di dirigenti», che è poi la forza del «poter andare da soli». Questa forza e questo potere sono garantiti – come precisa immediatamente il testo – dalla capacità di essere diretti e guidati «dall’inesorabilità» di una «missione spirituale». Nel capoverso 40, appena prima della conclusione del discorso, e dove il rettore ne riassume i punti essenziali, viene chiarita la condizione senza la quale «quelli che guidano» e «quelli che sono guidati» non possono stabilire una relazione genuina. Il testo dice: «Ogni guidare e dirigere implica che non sia mai rifiutato, a quelli che devono seguire, il libero uso della loro forza. Ma il seguire comporta in sé la resistenza e il contrasto (Jedes Folgen trägt in sich den Widerstand).» Parlare, nel caso di Heidegger, di un allineamento sulla concezione nazista del Führerprinzip (del “principio” di organizzazione sociale e politica – che viene abitualmente tradotto con «principio d’autorità» o semplicemente con «principio del Führer» – secondo il quale l’obbedienza agli ordini impartiti dall’alto è richiesta disciplinarmente e, senza eccezioni, a senso unico), significa mostrare di non voler comprendere nulla di quanto dice Heidegger. Infatti, ciò che egli afferma è il carattere indispensabile della resistenza da parte di coloro che sono guidati: è questa una delle modalità cardinali in cui giunge a manifestarsi, per quelli che dirigono e guidano, il senso stesso e l’orientamento in cui guide e guidati possono impegnarsi insieme.</ref> – guidati dall’inesorabilità di quella missione spirituale che ingiunge al destino del popolo tedesco di congiungersi con l’impronta della propria storia.

Sappiamo qualcosa di questa missione spirituale? Qualunque sia la risposta, inevitabile resta la domanda: noi, corpo docente e corpo degli allievi di questa Alta Scuola, siamo veramente, secondo la nostra propria comunanza, radicati nell’essenza dell’Università tedesca? E tale essenza possiede la forza genuina d’imprimersi nel nostro Dasein? Senza dubbio; ma ad una condizione: che noi vogliamo questa essenza a partire dal suo fondo, cioè interamente. Ma chi potrebbe dubitarne? Normalmente si fa valere come carattere essenziale dell’Università il fatto che essa faccia “quadrare” da se stessa i propri conti e il proprio bilancio, cioè il fatto che goda di autonomia amministrativa; questo deve essere mantenuto. Tuttavia, abbiamo anche compiutamente soppesato ciò che la rivendicazione dell’autonomia amministrativa esige da noi?

Autonomia amministrativa, far quadrare da noi stessi i nostri conti – il che significa innanzitutto: assegnarci il compito della sua realizzazione effettiva, determinando da noi stessi la via e il modo opportuni, affinché, con questo, noi siamo ciò che dobbiamo essere. Ma sappiamo dunque chi siamo noi – noi, cioè questo corpo di docenti e di allievi della più alta Scuola del popolo tedesco? Ma possiamo mai saperlo senza il più costante e rigoroso inquadramento senziente di noi stessi?

La conoscenza dell’odierna situazione dell’Università e la familiarità con la sua storia trascorsa non possono per nulla garantire un sapere sufficiente della sua essenza. Perché ciò accada è infatti necessario questo: che noi, con chiarezza e rigore, squadriamo prima di tutto tale essenza per l’avvenire; che noi, in tale squadro operato a partire da noi stessi, vogliamo quest’essenza; e che, in tale volere, facciamo quadrato da noi in noi stessi, cioè diveniamo tetragoni, in noi per noi stessi, nonostante e verso tutto.

Il far quadrare da se stessi il proprio bilancio sussiste solo sul fondamento del senziente inquadramento di sé. Ma quest’ultimo può accadere solo entro le forze della quadratura in se stessa dell’Università tedesca, cioè del suo restare tetragona nonostante e verso tutto <ref> Le dizioni guida di questi importanti paragrafi sono Selbstverwaltung, Selbstbesinnung, Selbstbegrenzung e Selbstbehauptung. Ognuna di esse, nel nominare, tramite la particella prefissa Selbst-, il dell’Università [la sua indole propria], indica un diverso modo in cui quest’ultima possa insediarsi nella propria potenza.

Tuttavia fra questi modi, meglio: fra questi movimenti costitutivi esiste una gerarchia essenziale: la Selbstbegrenzung, la Selbstbesinnung e la Selbstverwaltung risultano reciprocamente connesse, e possono quindi riguardare il sé dell’Università, unicamente in quanto si fondano nella sua Selbstbehauptung.

Ora, visto che – per le ragioni esposte nella nota 2 – abbiamo tradotto quest’ultima dizione con una formula («quadratura in sé») in cui risuona il quattuor dell’essere tetragono, per le prime tre abbiamo scelto delle espressioni che, nel restare fedeli al senso generale dei vocaboli tedeschi corrispondenti, recassero l’impronta linguistica della dizione «quadratura»: «squadro o squadratura operati a partire da sé» (tratto della delimitazione), «inquadramento senziente di sé» (tratto del meditante ritorno in sé), «far quadrare da se stessi i propri conti» (tratto dell’autonomo bilanciamento). [Nella locuzione «inquadramento senziente di sé» – da non intendersi mai nel senso del «fare il quadro generale (spirituale, psicologico, politico, culturale, ecc.) della propria situazione» – deve udirsi la rad. ie. sent-, che significa «prendere la via, dirigersi»; sicché essa letteralmente vuol dire: una volta quadratisi in sé, inquadrarsi nel modo del dirigere verso di sé il proprio “senno”, non in vista di un’autoanalisi o di un’autoriflessione, ma per ritrovarlo, per conoscerlo sempre meglio e quindi per istituirlo come tale: ritornare in sé e ritrovare il proprio senno fondamentale al fine di porselo chiaro dinanzi in quanto inizio e guida della propria essenza]. Appare così anche in superficie il nesso costitutivo tra i quattro movimenti della compiuta quadratura dell’Università in se stessa. Nella lezione settima della Philosophie der Offenbarung, Schelling riporta un detto di Lessing, che suona: «Zum Behaupten gehört vor allem ein Haupt», cioè: per “tener testa” (per quadrarsi) ci vuole innanzitutto una “testa”.

Ma qual è la “testa” cui l’Università deve necessariamente far capo per potersi quadrare in se stessa? Non si tratta certo della persona del suo «rettore Heidegger» – come alcuni critici poco avveduti hanno pervicacemente affermato (si veda in particolare Dal Lago, P.A. Rovatti, Elogio del pudore, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 74 e sgg.) –, ma, più propriamente, del Geist. Se ne parla nel capoverso 21: solo quando l’Università giunga a quadrarsi come quella compagine – formata dal rettore, dai docenti e dagli allievi – che si affidi all’autentico Geist, cioè alla pro-tensione verso l’interrogante e stabile stanziarsi, senza alcun riparo, nel bel mezzo della non saputezza dell’ente in quanto intero (il genuino sapere scientifico), essa potrà trovare il tono dello squadro della propria essenza, e, quindi, dell’inquadramento senziente di sé che libera e sostiene la perizia necessaria all’autonomo far “quadrare” i conti (il far quadrare da sé i propri conti – “innanzitutto i conti!” – trova qui finalmente il suo primigenio fondamento: l’autonomia amministrativa non si basa più sulle leggi indiscusse del risparmio e dell’investimento “applicate” alla c.d. “gestione” dell’Università, ma innanzitutto sulla suddetta pro-tensione originaria. Là dove quest’ultima scompaia, l’Università decade ad un insieme di “risorse umane” da coordinare in vista della c.d. “produzione culturale ed educativa” nei vari settori scientifici definitivamente sconnessi). Se il Geist, il genio, è la “testa” della compaginata motilità della quadratura, il suo elemento compaginante – il suo “cuore” – è la lotta tra chi guida e chi segue, lotta della cui mite legge nessuno potrà mai impadronirsi, pena il soqquadro del sapere. Il capoverso 41 lo dice a chiare lettere: proprio la lotta (la contesa per il sapere) intona l’autosquadrantesi quadratura in sé dell’Università, rendendola addetta a determinare e fissare i modi in cui l’inquadramento senziente di sé possa via via trasformarsi nella capacità di far quadrare autonomamente il bilancio [N.d.C.].</ref>. Saremo capaci di darle compimento? e in che modo?

La quadratura in se stessa dell’Università tedesca consiste nell’originaria, comune volontà che vuole la sua (dell’Università) essenza. L’Università tedesca è per noi l’Alta Scuola che, a partire dalla costruzione del sapere scientifico (4) e mediante esso, si assume il compito di educare e di dare disciplina ai dirigenti, alle guide e ai custodi del destino del popolo tedesco. La volontà che vuole l’essenza dell’Università tedesca è quella stessa volontà che vuole il sapere scientifico, inteso a sua volta come volontà che vuole la missione storica e spirituale del popolo tedesco in quanto popolo che si riconosce nel proprio Stato. Sapere scientifico e destino tedesco, nel volere l’essenza, devono giungere insieme alla potenza [raggiungersi nella potenza]. Ma ciò accade se e solo se noi – corpo docente e corpo degli allievi –, per un verso, esponiamo il sapere scientifico alla sua più intima necessità e, per l’altro, fronteggiamo il destino tedesco nella sua estrema urgenza.

Tuttavia, noi non facciamo esperienza dell’essenza del sapere scientifico <e della sua costruzione> nella sua più intima necessità, fintantoché – discutendo di un suo “nuovo concetto” <ref> Il «“nuovo concetto” del sapere scientifico» rinvia a una discussione iniziata ben prima del 1933 negli ambienti universitari tedeschi. Con l’arrivo al potere di Hitler, il “nuovo concetto del sapere scientifico” diventa l’oggetto di una determinazione particolarmente ristretta, come “scienza politicizzata”, ovvero come “sapere scientifico” al servizio della “visione del mondo” nazionalsocialista. Heidegger riassume il senso del dibattito per farne risaltare la radicale insufficienza. Contestare ad un «sapere scientifico, fin troppo odierno, l’autonomia e l’assenza di presupposti», non è altro che chiacchierare. Per il contesto di questa discussione si può consultare Bracher, Sauer, Schulz, Die nationalsozialistische Machtergreifung, Köln-Opladen, Westdeutscher Verlag, 1962, p. 318 ss. </ref> – contestiamo ad un sapere scientifico, fin troppo odierno, l’autonomia e l’assenza di presuopposti. Questo modo di agire, unicamente negativo e capace di guardare indietro di appena qualche decennio, è in fin dei conti un puro non agire, nel senso che conserva solo la mera apparenza del verace sforzo in direzione dell’essenza del sapere scientifico.

Se vogliamo cogliere l’essenza del sapere scientifico, dobbiamo innanzitutto farci “adocchiare” dalla domanda decisiva, che suona: il sapere scientifico deve per noi continuare ad essere, oppure dobbiamo lasciarlo precipitare verso una rapida fine? Il fatto stesso che, in generale, debba esserci qualcosa come il sapere scientifico non è mai incondizionatamente necessario. Ma se il sapere scientifico deve essere, e se deve essere per noi e mediante noi, sotto quale condizione esso può davvero sussistere?

Soltanto se noi ci poniamo di nuovo sotto la potenza dell’inizio del nostro Dasein storico-spirituale. Questo inizio è lo scardinamento su cui s’incardinano l’avvio e il cammino della filosofia greca. Lì, a partire dall’unità di un popolo, in forza della sua lingua, sorge l’uomo occidentale, e sorge in quanto va per la prima volta incontro all’ente nella sua interezza, per metterlo così in questione e interrogarlo e coglierlo nel suo essere quell’ente che è. Ogni sapere scientifico è filosofia, che sia capace di saperlo e di volerlo – oppure no. Ogni sapere scientifico rimane “catturato” dall’inizio della filosofia; proprio da quest’ultimo, infatti, il sapere scientifico trae la forza della propria essenza, posto che esso rimanga poi all’altezza di quell’inizio.

Noi vogliamo qui riguadagnare per il nostro Dasein due proprietà che caratterizzano l’essenza originariamente greca del sapere scientifico.

Presso i Greci circolava un antico racconto, secondo il quale il primo filosofo sarebbe stato Prometeo. A questi Eschilo lascia pronunciare una sentenza che chiarisce l’essenza del sapere:

téchne d'anágkes asthenestéra makro

(Prom. 514, ed. Will)

«Ma il sapere è molto meno forte della necessità». Ciò vuol dire: ogni sapere delle cose resta, già in anticipo, consegnato all’ultrapotenza del destino e incapace di opporle una parola.

Esattamente per questo, il sapere deve dispiegare la propria più alta provocazione – rispetto alla quale soltanto sorge l’intera potenza dell’ascosità dell’ente –, affinché possa restare effettivamente senza parola. Così l’ente si apre nella propria non approfondibile inalterabilità [inesorabile irrevocabilità] e dona al sapere la sua verità. Questa sentenza sul disconforto creativo del sapere <ref> «disconforto creativo del sapere». Nella dizione «dis-conforto» (Unkraft:) deve essere udito innanzitutto il venir meno della forza e quindi anche della potenza (il venir meno non è mai la pura assenza) [N.d.C.]. </ref> è un motto dei Greci, presso i quali troppo a buon mercato si vorrebbe trovare la prefigurazione di un sapere puramente orientato e imperniato su se stesso e perciò dimentico di sé – cosa che normalmente ci è presentata come l’atteggiamento “teoretico”. Ma che cos’è la theoría per i Greci? Si dice: la pura trattazione contemplante, che rimane vincolata unicamente alla cosa in questione nella sua pienezza e nel suo esigere. Questo comportamento considerante-contemplante dovrebbe addirittura accadere, se ci si riferisce ai Greci, con il proposito di soddisfare se stesso. Ma tale richiamo non è corretto. Infatti, in primo luogo, la teoria non accade con l’intento di trovare appagamento in se stessa, ma unicamente nella passione del restare vicino all’ente in quanto tale e sotto la sua incalzante [assillante] costrizione. Inoltre i Greci lottarono proprio affinché questo domandare considerante-contemplante fosse concepito e compiuto come un modo, anzi come il modo per eccellenza dell’enérgeia dell’uomo, cioè del suo “essere all’opera”. Per loro, tale modalità dell’essere all’opera non consiste assolutamente nell’adattare la prassi alla teoria; all’opposto, qui la teoria stessa deve essere intesa come la suprema attuazione di una prassi genuina. Per i Greci, il sapere scientifico non è un “bene culturale”, ma il punto mediano che intona intimamente l’intero Dasein del popolo e dello Stato <ref>. «L’intero Dasein del popolo e dello Stato». Fin dal secondo capoverso, Heidegger ha impiegato il termine Dasein, che preferiamo lasciare non tradotto per la seguente ragione: si tratta in effetti di una nozione centrale del pensiero di Heidegger, esposta in Sein und Zeit (1927); tuttavia, la parola Dasein è di uso corrente in tedesco, in cui significa semplicemente esistenza. Nel Discorso di rettorato, Heidegger impiega la dizione Dasein simultaneamente nel suo significato corrente e secondo quell’intendimento che ne fa il cuore del suo pensiero. Non è inutile ricordare il modo in cui Heidegger intende la nozione di Dasein: non come être-là, «essere-qui», ma (come lui stesso ha esplicitamente proposto in francese) come être le là, «essere il qui», dove essere assume un senso quasi attivo, poiché indica non più uno stato, ma il compito che deve propriamente intraprendere l’essere umano: aver da essere il qui, dover essere il qui. Quanto a questo «qui», che l’essere umano deve, per così dire transitivamente, «essere», esso non è nient’altro che quell’a priori – precedente ad ogni luogo e primordialmente rispetto ad ogni momento – in cui ha luogo la manifestità di ciò che si manifesta (cosa che, nel corso della storia della metafisica, si è chiamata anima e che è finita col diventare coscienza – denominazioni eminentemente restrittive di un fenomeno ben più ampio). [Alla luce di queste considerazioni di Fédier, possiamo misurare quanto sia inadeguato il rendere in italiano la parola Dasein con la dizione «esserci»; dovremmo piuttosto dire: Da-sein, ovvero: «aver da essere l’esserci!»] [N.d.C.]. Ora, ciò che il Discorso di rettorato spiega a proposito del Dasein, è che quest’ultimo non può limitarsi all’elemento soggettivo. Non è soltanto ogni essere umano preso individualmente ad aver da essere il «qui», ma occorre ancora esserlo insieme, in comunità – cosa che, per le diverse parti delle comunità, o popoli, significa una modalità propria a ciascuno di esistere in una comune partecipazione, la quale è più o meno esplicita. Nel Discorso di rettorato, Heidegger utilizza per 21 volte la parola Dasein. La prima occorrenza, nel secondo capoverso, è particolarmente significativa. Heidegger si chiede: «E tale essenza [quella dell’Università tedesca] possiede la forza genuina d’imprimersi nel nostro Dasein?» (p. 129). Si tratta della maniera di essere il «qui» alla quale si devono abituare gli universitari (insegnanti e studenti), e nella quale il rapporto con il sapere e con la scienza gioca il ruolo determinante. Ma qui, nel capoverso 13, dove è in questione il senso nel quale i Greci intendevano il sapere (téchnetheoría), non si tratta più del «nostro Dasein», ma del modo di essere il qui proprio dei Greci. Il testo tedesco dice: «das ganze volklich-staatliche Dasein». Volklich-staatlich è la fusione di due aggettivi, la cui traduzione letterale sarebbe: «popolare-statale» – ricordandosi però che il primo aggettivo, in una formulazione di questo tipo, ha una funzione quasi avverbiale; sicché si deve intendere: l’intero Dasein di questo popolo [greco], così come si è attuato nella pólis. L’aggettivo volklich si forma a partire dal sostantivo das Volk, «il popolo». Nel vocabolario politico diffusosi in Germania dopo la disfatta del 1918, in cui l’accento era posto, a destra come a sinistra, sulla comunità popolare, i partiti di destra, per opporsi all’insistenza dell’estrema sinistra sull’aspetto «proletario» in cui consiste, ai loro occhi, l’elemento autenticamente popolare, ricorrono sistematicamente a denominazioni che hanno un evidente aspetto idiomatico. Tali sono gli aggettivi volklich e soprattutto völkisch, entrambi attestati fin dal Medioevo (come traduzioni del latino popularis o communis), ma che, nel XIX secolo, vengono intesi sempre più esclusivamente come la versione tedesca del francese «national». Infatti il dizionario Grimm, a proposito dell’aggettivo völkisch, segnala: «In un’epoca più recente, [funziona] come equivalente tedesco del francese “national” (…) e, nello scontro tra i partiti, assume un accento di parola d’ordine e di slogan; in particolare, viene usato spesso per insistere sull’ostilità razziale contro gli Ebrei.» (t. 26, p. 485). Il quotidiano di Hitler s’intitola, appunto, «Völkischer Beobachter» – «L’osservatore popolare» (giornale la cui tendenza antisemita è così poco velata che il termine völkisch diventa, in questo preciso contesto, un quasi-sinonimo di razzista e antisemita). Occorre tuttavia ricordare che questo termine non è stato definitivamente compromesso dall’uso hitleriano. Il dizionario Wahrig definisce semplicemente l’aggettivo: «che concerne un popolo, appartenente a un popolo, proveniente da un popolo». Heidegger, nel Discorso di rettorato, impiega unicamente il termine volklich. In questo capoverso, volklich-staatlich si riferisce alla forma specifica che ha contrassegnato la comunione politica del popolo greco. Ma dal momento che il fine di Heidegger è quello di delineare il compito di un’Università in quel processo di ampio respiro in cui consiste la messa in luce di un Dasein tedesco, la domanda sulla forma di Stato che conviene al popolo tedesco è parte integrante del contenuto del discorso. Come si vedrà nei capoversi 26 e 34 (pp. 137 e 139), il Dasein tedesco significa al contempo un modo di essere comunitario, ovvero un modo d’essere che caratterizza un popolo. Questo modo d’essere popolare giunge al suo compimento solo se questo popolo trova la sua forma di unificazione a partire da uno Stato. Ora, come indica il capoverso 20, ogni Dasein umano è storico. Ma ciò che fa la storicità di una storia è il Geist, lo spirito [il genio, N.d.C.]; nei capoversi 9 e 28, Heidegger parla infatti del «nostro Dasein storico-spirituale». A proposito del termine Geist, in particolare nel Discorso di rettorato, è utile ricordare la notevole risonanza che ebbe nel dibattito intellettuale tedesco la pubblicazione, nel 1929, dell’opera in tre tomi di Ludwig Klages (1872-1956) Der Geist als Widersacher der Seele. E’ sufficiente tradurre il titolo per afferrarne la tesi: Il Geist come contraddittore dell’anima; il Geist (inteso nel senso dell’intellectus) è presentato in questo libro come il principio che si oppone all’anima, a sua volta intesa come principio della vita. L’insistenza di Heidegger sul primato del Geist deve quindi essere intesa a sua volta come una presa di posizione in questo dibattito. </ref>

Scienza non è per loro neppure il semplice mezzo del potenziamento del sapere che rende consapevole ciò che è inconsapevole; essa è invece quella potenza che, nel mantenere acuto e intenso l’intero Dasein <l’intero rapporto con l’essere>, lo contiene e lo abbraccia completamente. Il sapere scientifico è l’interrogante e stabile stanziarsi nel bel mezzo dell’ente che, colto nella sua interezza, costantemente si nasconde. Tale operante perseverare è pienamente consapevole del proprio disconforto dinanzi al destino.

Questa è l’essenza iniziale del sapere scientifico. Ma questo inizio, con i suoi duemila e cinquecento anni, non se ne sta definitivamente alle nostre spalle? E il progresso dell’azione umana non ha forse mutato per sempre anche il sapere scientifico? Certo! L’interpretazione cristiano-teologica del mondo, seguita all’inizio greco, e poi il più tardo pensiero tecnico-matematico dei Tempi moderni hanno, in senso temporale e in relazione alle questioni via via in causa, allontanato il sapere scientifico dal suo inizio. Tuttavia, in tal modo, l’inizio non è affatto superato né, tanto meno, annientato. Infatti, posto che il sapere scientifico originariamente greco sia qualcosa di grande, l’inizio di tale grandezza rimane ciò che, in esso, vi è di più grande. L’essenza del sapere scientifico non potrebbe neppure essere svuotata e logorata, come accade oggi, malgrado tutti i risultati e tutte le “organizzazioni internazionali”, se la grandezza dell’inizio non mantenesse ancora il proprio rango. L’inizio è ancora. Non è alle nostre spalle, come ciò che già da lungo tempo sia stato; esso si stanzia davanti a noi. In quanto è la cosa più grande, l’inizio è già passato in anticipo al di sopra di tutto il veniente, e così anche al di sopra di noi, e si è inoltrato nel futuro. L’inizio ha fatto irruzione nel nostro avvenire; esso si stanzia come la lontana ingiunzione che ci impone di ricongiungerci con la sua grandezza.

Solo se raggiungiamo risolutamente la tensione di questa lontana ingiunzione, con l’intento di riguadagnare la grandezza dell’inizio, solo allora il sapere scientifico diverrà per noi la più intima necessità del Dasein. Diversamente, esso rimane un evento casuale in cui ci siamo imbattuti, oppure il quieto diletto di un’occupazione priva di pericoli, che miri al semplice incremento progressivo delle conoscenze.

Ma se raggiungiamo la lontana ingiunzione dell’inizio <per congiungerci con essa>, allora la costruzione del sapere deve divenire l’accadimento fondamentale del Dasein del nostro popolo, inteso in senso spirituale.

E se il nostro più proprio Dasein sta dinanzi ad un grande mutamento, se è vero ciò che, cercando appassionatamente il Dio, ha detto l’ultimo filosofo tedesco, Friedrich Nietzsche, e cioè: «Dio è morto» –, se dobbiamo prendere sul serio questo abbandono dell’uomo odierno nel mezzo dell’ente, che ne è allora della costruzione del sapere, della scienza? Allora l’iniziale contegno dei Greci rispetto all’ente, quel perseverare in ammirazione dell’essente, si trasforma in un essere esposti, senza alcuna protezione, al nascosto e al non saputo, al problematico, a ciò che è degno di essere posto in questione. Il domandare <ref> «domandare» – nel senso del far conoscere e del conoscere sempre meglio ciò che si vuole sapere compiutamente. «Domandare» come sinonimo di «interrogare» [N.d.C.]. </ref>, implicito in tale porre in questione, non è più allora soltanto la fase oltrepassabile che precede la risposta intesa come acquisizione di un sapere, ma diviene esso stesso la forma più alta del sapere. Il domandare dispiega allora la sua più propria forza, quella di dischiudere l’essenziale di ogni cosa. Il domandare obbliga allora all’estrema semplificazione dello sguardo che diviene così il colpo d’occhio rivolto all’inevitabile [all’inaggirabile-indispensabile].

Un tale domandare rompe l’incapsulamento del sapere scientifico in discipline separate, va a riprendere queste ultime dalla loro dispersione, priva di limiti e di scopi, in campi e settori isolati, e riespone immediatamente la scienza alla fecondità e alla provvidenza di tutte le potenze del Dasein umano e storico configuratrici di un mondo – potenze che sono così compaginate: natura, storia, parola e lingua; popolo, costumi, Stato; poesia, pensiero, fede; malattia, follia, morte; diritto, economia, tecnica.

Se vogliamo l’essenza del sapere propriamente scientifico, inteso nel senso dell’interrogante e stabile stanziarsi, senza protezione, nel bel mezzo della non saputezza dell’ente in quanto intero <ref> «non saputezza dell’ente in quanto intero». La Ungewißheit non è l’incertezza, cioè il non essere sicuri, ma proprio lo stato di non sapienza in merito al senso dell’ente colto come intero. Nella lezione X della sua Philosophie der Offenbarung, Schelling scrive: «Se si definisce la filosofia come quel sapere scientifico in sé totalmente iniziante (...) allora, in filosofia, si deve tornare indietro al minimo possibile di conoscenza, o al completo non-sapere, alla compiuta non saputezza (völlige Nichtwissen)» Per questo il domandare è innanzitutto – come si è detto – il far conoscere, in sé stesso e per se stesso, ciò che si vuole sapere mediante un’opportuna e sufficiente interrogazione essenziale; questo è per Heidegger il più alto sapere scientifico. [N.d.C.].</ref>, allora questa volontà d’essenza costituisce il mondo del nostro popolo, quel mondo che, in quanto appartiene al più intimo ed estremo pericolo, è geistig, spirituale, nel vero senso della parola. Infatti il Geist, lo spirito, il genio, non è il vuoto acume, né il Witz, il gioco disimpegnato dell’arguzia, né l’interminabile esercizio dell’analisi logico-intellettuale, e neppure la ragione universale; lo spirito, il genio, è invece l’originariamente intonata, sapiente risolutezza a favore dell’essenza dell’essere. E il mondo spirituale di un popolo non è la sovrastruttura di una cultura, né, tantomeno, l’arsenale delle conoscenze e dei valori utilizzabili; esso è piuttosto la potenza della più profonda custodia delle sue forze di terra e sangue, in quanto potenza della più intima vivacità e del più ampio sconvolgimento del suo Dasein. Solo un mondo spirituale è, per il popolo, garanzia di grandezza. Infatti esso obbliga a decidere costantemente tra la volontà di grandezza e il lasciar fare della rovina; esso obbliga ad assumere questa costante decisione come la cadenza (o il ritmo) da imprimere alla marcia che il nostro popolo ha iniziato verso la propria storia futura.

Se vogliamo quest’essenza del sapere scientifico, il corpo docente dell’Università deve effettivamente recarsi negli avamposti del pericolo, costituito dalla non saputezza del mondo. Se esso si stanzia stabilmente là, ossia: se crescono per esso da lì – nell’essenziale vicinanza dell’assillante costrizione di ogni cosa – il comune interrogare e il dire intonato sui modi di una comunità, allora avrà la forza di costituirsi come un corpo di guide, di dirigenti. Infatti l’elemento decisivo nel guidare e nel dirigere non è il mero “porsi a capo”, il semplice procedere davanti a tutti, ma la forza del poter andare da soli, non per caparbietà o per desiderio di dominare, ma in virtù di una profondissima intonatura e di un amplissimo e responsivo dovere. Tale forza vincola all’essenziale, opera la selezione dei migliori e risveglia, in coloro che hanno ripreso coraggio nello slancio in avanti, la genuina capacità di seguire <ref> «la genuina capacità di seguire». Traduciamo con «capacità di seguire» il termine tedesco Gefolgschaft. Tale termine ha conosciuto, nella terminologia nazista, una prosperità particolarmente snaturata (si può leggere a questo proposito l’eccellente analisi dedicatagli da Victor Klemperer nel capitolo XXXIII del suo libro Lingua Tertii Imperii, cit.). Ma esso fa parte di quel vocabolario che i nazisti hanno direttamente ripreso dai movimenti giovanili – i quali si erano sviluppati in Germania, in una grande ricchezza e soprattutto in una grande varietà di invenzioni e di sperimentazioni politico-sociali, tra la fine del XIX secolo e la caduta della Repubblica di Weimar. Il nazismo ha fatto di questo termine l’emblema e la glorificazione dell’obbedienza cieca, nel quadro di una relazione a senso unico tra Führung e Gefolgschaft. Scrive infatti Victor Klemperer: «Come agisce una Gefolgschaft modello? Essa non riflette, non ha stati d’animo – obbedisce» (op. cit. p. 259). All’interno della riflessione dei movimenti giovanili (o quantomeno nella maggior parte di essi), la relazione Führung-Gefolgschaft – la relazione tra l’autorità che guida e l’insieme di coloro che riconoscono quest’autorità e ne seguono le direttive – era ben più ricca e articolata. Heidegger, parlando di una «genuina capacità di seguire» (echte Gefolgschaft – ossia una capacità di seguire che sia di “buona lega”), fa segno verso un’intesa di quel tipo. Come è stato già indicato nella nota 2, il capoverso 40 del Discorso di rettorato enuncia a chiare lettere quale sia il quadro entro il quale la relazione tra guidare e seguire si compie in modo conveniente. Il quadro è quello di una lotta (Kampf), di cui è importante cogliere la natura assolutamente peculiare. Nel capoverso 38 viene chiarito il significato in cui debba essere intesa questa lotta. Non come uno scontro o una guerra (in cui sarebbe in gioco l’annientamento dell’avversario), ma come la difficilissima e faticosa ricerca di un equilibrio ottenuto grazie all’estremo dispiegamento di una tensione avversa. Non può mancare la sorpresa nel constatare, in questa tematica, la vicinanza – ma al contempo anche la differenza – con le riflessioni di Simone Weil, ad esempio in questo testo del 1937: «L’incontro tra la pressione dal basso e la resistenza dall’alto suscita infatti continuamente un equilibrio instabile, che definisce ad ogni istante la struttura di una società. Questo incontro è una lotta, ma non è una guerra.» (Oeuvres Complètes, II/3, cit., p. 58). La differenza tra il pensiero di Martin Heidegger e quello di Simone Weil, su questo punto preciso, è che, per il primo, la resistenza è un fatto del popolo, ossia di quella parte della comunità che non esercita il potere, mentre per Simone Weil – sorprendentemente vicina in questo al pensiero romano (cfr. Cicerone: «Principuum munus est resistere...» – il dovere dei primi [fra i cittadini] è quello di resistere) – la resistenza è ciò che caratterizza il “fare” di coloro che esercitano il potere </ref>. Ma tale capacità di porsi al seguito non deve neppure essere risvegliata. Gli studenti tedeschi sono in marcia. Essi cercano quelle guide mediante le quali vogliono che la propria intonatura venga elevata alla fondata e sapiente verità e venga posta, per essere interpretata e resa efficace, nella chiarezza della parola e dell’opera.

Dalla risolutezza degli studenti tedeschi – quella di stanziarsi stabilmente dinanzi al destino tedesco nel suo estremo urgere – proviene una volontà che vuole l’essenza dell’Università. Questa volontà è una volontà vera nella misura in cui gli studenti tedeschi, attraverso il loro nuovo diritto <ref> «il loro [degli studenti] nuovo diritto». Si tratta di una rivendicazione che le associazioni studentesche avevano reiterato dall’inizio della Repubblica di Weimar, con l’obiettivo di sancire giuridicamente la loro volontà di partecipare alla gestione delle università. La «libertà accademica», di cui si parla tre righe più in basso, non si riferisce alla libertà degli studi, ma – in particolare nelle canzoni dei gruppi goliardici del XIX secolo – all’esaltazione, da parte dei rampolli delle classi dominanti, della spensieratezza della “vita studentesca”. </ref>, si pongano sotto le leggi della propria essenza, che essi possono così squadrare. Darsi da se stessi la legge è la più alta libertà. La “libertà accademica” (che è stata così tanto cantata) viene espulsa dall’Università tedesca; infatti tale libertà non era genuina perché era soltanto negativa. Essa significava prevalentemente: indifferenza, arbitrarietà delle intenzioni e delle inclinazioni, mancanza di vincoli nel fare e nel disfare. Il concetto di libertà dello studente tedesco viene adesso riportato alla propria verità. A partire da quest’ultima si dispiegano i futuri vincoli e i connessi servizi degli studenti tedeschi.

Il primo vincolo è quello stretto con la comunità del popolo. Esso obbliga al condividente, contribuente e cooperante partecipare alle pene, alle aspirazioni e al saper fare di tutte le categorie sociali e di tutte le componenti del popolo. Questo vincolo verrà d’ora innanzi assicurato e verrà fatto attecchire, con buone radici, nel Dasein studentesco attraverso il servizio del lavoro <ref>. «servizio del lavoro». Heidegger, nel 1933, è un sostenitore senza riserve di un servizio del lavoro per gli studenti. Per quanto riguarda questa istituzione, bisogna sapere che, a seguito dell’estendersi della crisi economica, si cercò in tutto il mondo di mettere in opera procedure nuove per fornire lavoro ai disoccupati, il cui numero continuava a crescere in modo esponenziale. In Germania, a partire dal 1930, un gruppo di intellettuali progressisti ispirato da Eugen Rosenstock-Huessy (che emigrò più tardi negli Stati Uniti), propose la creazione di un «Servizio volontario del lavoro», che fu poi effettivamente istituito nel 1931 dal cancelliere Brüning. Nel catalogo di un’esposizione dedicata al Bauhaus, si può leggere che il servizio volontario del lavoro «rimase l’unico tentativo di istituire una comune popolare sul territorio della Repubblica [di Weimar]».

Sotto il regime nazista il servizio del lavoro finì col diventare obbligatorio (legge del 26 giugno 1935). Prima di quella data, dunque, il servizio era ancora volontario.

L’insistenza con la quale Heidegger ritornò, durante tutta la durata del suo rettorato, sull’obbligo che il servizio del lavoro avrebbe dovuto costituire per ogni studente, indica chiaramente che si trattava di un tema di importanza capitale per il suo progetto. Quest’ultimo non fu null’altro che un progetto di rivoluzione politica. Proprio come la maggior parte degli uomini della sua generazione, anche Heidegger era convinto che l’ordine politico della società contemporanea (chiamiamolo semplicemente «liberalismo borghese») non fosse più in grado di garantire una pace autentica tra i popoli, e che fosse dunque necessario istituire un nuovo ordine politico capace di essere, in se stesso, fonte di equilibrio. Per questo motivo, l’idea guida di Heidegger durante il suo rettorato fu quella del riconoscimento del lavoro come principio della comunità. In numerose allocuzioni e articoli, Heidegger precisò con chiarezza in che modo lui intendesse il lavoro: come la “fenomenalizzazione” della libertà che contrassegna ogni umanità in quanto tale. E’ una concezione del lavoro che non ammette più alcuna discriminazione tra “lavoro manuale” e “lavoro intellettuale”. Lo stesso pensiero era condiviso dagli operai rivoluzionari. Simone Weil, in un articolo apparso nel febbraio 1933, scrive: «In generale, non dobbiamo mai dimenticare che il nostro obiettivo è quello di preparare una società “in cui sarà abolita la vergognosa divisione del lavoro in lavoro manuale e lavoro intellettuale” (Marx).» (Oeuvres Complètes, II/1, cit., p. 197).

Per Heidegger, una società simile non si realizza attraverso l’appropriazione collettiva dei mezzi di produzione – bensì attraverso un capovolgimento del senso del sapere scientifico, così come viene tematizzato nei capoversi 18-21 del Discorso di rettorato.

Il primo atto di questa rivoluzione consiste, per gli studenti, nel riconoscere la dignità del lavoro manuale andando ad imparare che cosa sia questo lavoro sotto la guida di veri lavoratori. E’ questo, secondo Heidegger, il servizio del lavoro: un’istituzione in cui ciascuno studente possa verificare e sperimentare il fatto che anche il lavoro più “materiale” non richiede meno libertà, cioè meno spirito [genio], della più teorica delle attività.

Traduciamo con «categorie sociali» la parola Stände, al singolare Stand, che è l’esatto corrispondente della parola italiana «Stato» (fr. État) nell’espressione «terzo Stato». Come si può vedere in Hegel (Principi della filosofia del diritto, par. 252), ciò che caratterizza un tale «Stato», e di conseguenza la pluralità degli Stati che configurano l’unità di un popolo, è il principio interno della loro stabilità</ref>.

Il secondo vincolo è quello stretto con l’onore e con il destino della nazione in quanto popolo tra gli altri popoli. Esso richiede la disponibilità – resa sicura nel sapere e nel saper fare, e tesa nella disciplina – ad impegnarsi fino in fondo e fino all’ultimo. Questo vincolo abbraccia e penetra per l’avvenire l’intero Dasein studentesco in quanto servizio della difesa.

Il terzo vincolo degli studenti è quello stretto con la missione spirituale del popolo tedesco. Questo popolo agisce sul proprio destino nel disporre la propria storia entro l’aperta manifestazione dell’ultrapotenza di tutte le potenze configuratrici-di-mondo del Dasein umano e nell’ottenere, con una lotta sempre rinnovata, il proprio mondo spirituale. Così esposto nell’estrema problematicità del proprio Dasein, questo popolo vuole essere un popolo spirituale. Esso richiede da se stesso e per se stesso, in coloro che lo guidano e lo custodiscono, la più rigorosa chiarezza del più alto, più vasto e più ricco sapere. Una gioventù studentesca, che trovi molto presto l’animo di entrare nell’età virile e tenda la propria volontà sul destino futuro della nazione, obbliga se stessa, nel più profondo, a servire questo sapere. Per essa, il servizio del sapere <ref> «servizio del sapere» – Wissensdienst –, che può essere accostata all’espressione, cara al giovane Walter Benjamin, Dienst am Geist – «servizio dello spirito». </ref> non potrà più essere l’ottusa e rapida formazione ad una professione “per bene”. Proprio perché l’uomo di Stato e l’insegnante, il medico e il giudice, il sacerdote e l’architetto guidano il Dasein del popolo e del suo Stato, lo custodiscono nei suoi rapporti fondamentali con le potenze configuratricidi- mondo dell’essere umano e lo mantengono acuto e intenso, ebbene, proprio per questo il servizio del sapere si assume la responsabilità di queste professioni e dell’educazione loro necessaria. Il sapere non sta al servizio delle professioni, ma, all’opposto: le professioni ottengono, amministrano e rendono operante quel supremo ed essenziale sapere del popolo intorno all’intero suo Dasein. Ma questo sapere non è la quieta acquisizione di conoscenze sulle “entità” e sui valori in sé, ma il più acuto e intenso porsi in pericolo del Dasein nel bel mezzo dell’ultrapotenza dell’ente. E’ innanzitutto la problematicità dell’essere in quanto essere a costringere il popolo al lavoro e alla lotta e a costituirsi in Stato, cui appartengono appunto le professioni.

I tre vincoli – attraverso il popolo con il destino dello Stato nella missione spirituale – acquisiscono, per l’essenza tedesca, un medesimo grado d’originarietà. I tre servizi che ne scaturiscono – il servizio del lavoro, della difesa e del sapere – sono ugualmente necessari e di uguale rango.

Il cooperante sapere intorno al popolo e il desto sapere intorno al destino dello Stato: proprio questi due saperi costituiscono, costruendola in unità con il sapere intorno alla missione spirituale, l’originaria e piena essenza del sapere scientifico, la cui messa in opera è il nostro principale compito – posto che raggiungiamo la lontana ingiunzione dell’inizio del nostro Dasein storico spirituale, per congiungerci con essa.

Questa è la scienza cui dobbiamo guardare quando l’essenza dell’Università tedesca viene squadrata in quanto Alta Scuola che, a partire dal sapere scientifico e mediante il sapere scientifico, raccoglie nell’unità dell’educazione e della disciplina le guide e i custodi del destino del popolo tedesco.

Questo concetto originario di scienza non obbliga solo ad attenersi ad una “oggettività delle cose”, ma innanzitutto ad una essenzialità e ad una semplicità del domandare e dell’interrogare nel bel mezzo del mondo storico-spirituale del popolo. Anzi, solo a partire da qui, l’“atteggiamento oggettivo” e l’oggettività <ref> «l’“atteggiamento oggettivo” e l’oggettività». La dizione Sachlichkeit è difficile da rendere in modo semplice e diretto. Essa viene impiegata da Heidegger tra virgolette, ad indicare il fatto che si tratta di un termine il cui impiego era a quell’epoca particolarmente accreditato. A partire dal 1925, la reazione di un certo numero di pittori (fra i quali Otto Dix, Georg Grosz, ecc.) contro l’espressionismo, prese il nome di Neue Sachlichkeit («nuova oggettività» o «nuovo realismo»). Ma la Sachlichkeit a cui fa riferimento Heidegger è l’atteggiamento, assunto nell’ambito della scienza, del limitarsi ai fatti senza lasciarsi suggestionare da costruzioni teoriche audaci. Sachlich è infatti il comportamento preoccupato unicamente della cosa in questione (die Sache = res). Si vede, così, come Heidegger proponga, rispetto alla Sachlichkeit, la medesima radicalizzazione di quella da lui operata con la fenomenologia.</ref> possono essere veracemente fondati, ovvero possono essere trovati il loro modo e la loro adeguata squadratura.

Il sapere scientifico, inteso in questo senso, deve diventare la potenza formativa del corpo dell’Università tedesca. Qui riposa una duplice esigenza: corpo docente e corpo degli allievi devono, ciascuno a proprio modo, farsi cogliere e intonare dal concetto del sapere scientifico e restare così intonati. Ma, simultaneamente, tale concetto del sapere scientifico deve intervenire trasformando le forme fondamentali in cui docenti e allievi di volta in volta operano scientificamente in comunità: nelle Facoltà e nei raggruppamenti degli studenti <ref> «raggruppamenti degli studenti». La Fachschaft, ossia il raggruppamento degli studenti secondo la materia o la disciplina studiata (das Fach), avrebbe dovuto, nell’intenzione del rettore Heidegger, sostituire le associazioni di studenti costituite secondo l’affinità politica.</ref> affiliati secondo la materia scelta.

La Facoltà è davvero tale solo se si dispiega fino al potere – radicato nell’essenza della propria scienza – di un legiferare spirituale che possa plasmare, rendendole inerenti all’in sé unito mondo spirituale del popolo, quelle potenze del Dasein che incalzano e stringono d’assedio la facoltà stessa.

Il raggruppamento degli studenti è davvero tale solo se, ponendosi, fin dall’inizio, nell’ambito di tale legiferare spirituale, abbatte i confini disciplinari e va al di là di ogni elemento stantìo, della grettezza e della petulanza e di ogni sofisticheria di un addestramento professionale esteriore.

Nell’istante in cui le Facoltà e i raggruppamenti degli studenti danno avvio alle semplici ed essenziali domande della loro scienza, docenti e allievi sono letteralmente “abbracciati” dalle medesime ultime necessità e costrizioni del Dasein del popolo e dello Stato.

Tuttavia il prender forma e la compiuta elaborazione dell’essenza originaria del sapere scientifico <in quanto sapere in sé ben compaginato> richiedono un tale grado di rigore, di responsabilità e di superiore pazienza, che, rispetto a tale progetto, la coscienziosa osservanza oppure la zelante correzione delle procedure di lavoro ereditate hanno davvero una scarsa importanza.

Ma se i Greci hanno avuto bisogno di tre secoli per porre su un solido terreno e su una strada sicura anche solo la domanda sull’essenza del sapere – noi non dobbiamo affatto credere che il chiarimento e il dispiegamento dell’essenza dell’Università tedesca possano aver corso nel semestre corrente o in quello entrante.

Tuttavia una cosa certamente sappiamo a partire dall’essenza del sapere scientifico prima indicato: l’Università tedesca perverrà alla sua forma e alla sua potenza proprie solo se i tre servizi – il servizio del lavoro, della difesa e del sapere – sapranno ritrovarsi insieme, originariamente, in un’unità che costituisca un’unica forza capace di imprimere la propria impronta. Questo vuol dire:

Il volere l’essenza, da parte del corpo docente, deve destarsi e rinforzarsi fino alla semplicità e all’ampiezza del sapere riguardante l’essenza del sapere scientifico. Il volere l’essenza, da parte del corpo degli allievi, deve obbligare se stesso a raggiungere, nel sapere, la chiarezza e la disciplina più alte; inoltre, deve plasmare il condiviso sapere scientifico, concernente il popolo e il proprio Stato, fino a renderlo inerente all’essenza della scienza – e questo in modo tale che quest’essenza sia sempre intimamente intonata da quel sapere. Queste due volontà d’essenza devono chiamarsi e porsi l’una contro l’altra nella lotta. Tutte le capacità del volere e del pensare, tutte le forze del cuore e tutte le attitudini del corpo devono dispiegarsi attraverso la lotta, devono essere esaltate nella lotta e custodite in quanto lotta.

Noi scegliamo la lotta del sapere, la lotta di coloro che sanno porre domande, e, con Carl von Clausewitz, riconosciamo: «Mi dichiaro libero dalla sconsiderata speranza in una salvezza per mano del caso» <ref> «Carl von Clausewitz». Non è certamente inutile ricordare la distinzione cardinale di Clausewitz tra il fine tattico della guerra, che consiste nella vittoria sul nemico, e il fine ultimo della strategia, che consiste nel pervenire alla pace.</ref>.

Ma la comunità in lotta dei docenti e degli allievi può trasformare l’Università tedesca, costituendola come la sede della legislazione spirituale, può costruire in essa il punto mediano del più teso raccoglimento per il supremo servizio del popolo nel suo Stato, solo se il corpo docente e il corpo degli allievi, nell’istituire il proprio Dasein, superano in semplicità, rigore e sobrietà tutti gli altri compatrioti <ref> «compatrioti». La parola tedesca è Volksgenossen, che si è abituati a considerare un termine tipico del vocabolario nazista. Infatti, al posto del vocabolo comunista Genosse (compagno), i nazisti utilizzavano l’appellativo Volksgenosse – letteralmente «compagno del (medesimo) popolo». Ora, se ci riferiamo alla storia della socialdemocrazia tedesca, si osserva che l’espressione Volksgenosse è invece, in origine, un autentico appellativo operaio. Esso si ritrova negli scritti dei dirigenti socialdemocratici durante la rivoluzione tedesca del 1918. Per il primo presidente della Repubblica di Weimar, Friedrich Ebert, esso è la denominazione normale di coloro che noi chiamiamo i «compatrioti». I nazisti non hanno fatto altro, qui come quasi ovunque, che distorcere il senso di un’espressione di cui non sono gli autori.</ref>. Ogni guidare e dirigere implica che non sia mai rifiutato, a quelli che devono seguire, il libero uso della loro forza. Ma il seguire comporta in sé la resistenza e il contrasto. Quest’antagonismo essenziale tra guidare e seguire non deve venire mai attenuato, né, tantomeno, spento. Solo la lotta mantiene aperto l’antagonismo e impianta <e infonde> nell’intero corpo dei docenti e degli allievi quell’intonazione fondamentale a partire dalla quale l’autosquadrantesi quadratura in se stessa dell’Università autorizza il risoluto inquadramento senziente di sé a trasformarsi nella genuina capacità di far quadrare autonomamente il proprio bilancio.

L’essenza dell’Università tedesca – la vogliamo davvero o no? Dipende solo da noi: possiamo adoperarci, nei modi opportuni, da cima a fondo e non incidentalmente, a favore dell’inquadramento senziente di sé e della quadratura in se stessa della nostra Università, oppure possiamo – sebbene con le migliori intenzioni – limitarci a mutare le vecchie istituzioni e ad aggiungerne di nuove. Nessuno ci impedirà di farlo.

Ma nessuno mai ci chiederà poi se vogliamo o non vogliamo, quando la forza spirituale dell’Occidente venga meno e scricchioli nelle sue giunture costitutive – quando la parvenza di una decrepita cultura crolli in se stessa, trascinando tutte le forze nella confusione e lasciandole poi soffocare nella demenza <ref> «lasciandole poi soffocare nella demenza». Si tratta delle «forze spirituali dell’Occidente». Heidegger condivide, con un gran numero di grandi figure del nostro secolo, una profonda angoscia dinanzi alla crescente confusione che si sta impossessando della società umana nel suo insieme. In Germania si è soliti riunire le posizioni di questi autori sotto la comoda etichetta di Kulturpessimismus – di «pessimismo riguardo al processo stesso della civilizzazione». Forse in questo modo si è un po’ troppo sbrigativi: qualificare “retrogradi” dei pensieri che sono attenti a ciò che vi è di indiscutibilmente aberrante in un’evoluzione economica e politica di cui il meno che si possa dire è che non soddisfa l’unanimità degli interessati, è un atteggiamento che deriva da una semplificazione eccessiva. Per limitarci alla Francia, sarebbe specioso presentare, ad esempio, Charles Péguy, Georges Bernanos e Simone Weil come autori puramente e semplicemente “reazionari”. Ora, ciascuno di questi tre ha rilevato, nella società contemporanea – così come sembra configurarsi ineluttabilmente a partire dall’inizio dell’industrializzazione –, alcune tendenze profonde che solo un ottuso rifiuto di aprire gli occhi può ostinarsi a considerare progressi. E’ più che mai salutare, in questa fine del XX secolo, leggere e rileggere La France contre les robots di Bernanos, L’Enrecinement di Simone Weil, Notre jeunesse di Péguy. Alla fine del testo Par ce demi-clair matin (datato 1905), Péguy scrive la frase: «nel momento stesso in cui il mondo moderno scricchiola da ogni parte» (Oeuvres en prose complètes, vol. II, Gallimard, Paris 1988, p. 222). Qui, nel capoverso 43 del Discorso di rettorato, Heidegger ricorre a una formulazione pressoché identica: «quando la forza spirituale dell’Occidente venga meno e scricchioli nelle sue giunture costitutive». Non c’è qui alcuna esagerazione. Rosa Luxemburg evocava con le parole di Shakespeare quello stesso tempo in cui «il mondo intero si scardina» (cit. in Simone Weil Oeuvres Complètes, II/1, cit., p. 301). Lev Trockij, tre mesi prima del suo assassinio, parlava di «quell’asilo di alienati che è l’Europa». Ma il riferimento di questa fine del Discorso di rettorato rimane la penultima lettera di Iperione a Bellarmino: «muß nicht jede Kraft in sich ersticken» – c’è bisogno che non tutte le forze siano soffocate... </ref>.

Che qualcosa di simile abbia o non abbia luogo dipende soltanto da questo: che noi vogliamo ancora e di nuovo noi stessi in quanto popolo spirituale, oppure che un tale “essere noi stessi” non lo vogliamo più. Ogni singolo individuo, su questo punto, con-decide [condivide la decisione con gli altri] anche quando, e soprattutto quando, eluda la decisione.

Ma noi vogliamo che il nostro popolo compia la propria missione storica.

Noi vogliamo noi stessi. Infatti la giovane e giovanissima forza del popolo – quella gioventù che, oltre e al di sopra di noi, tende già lontano – ha già deciso.

Ma la magnificenza e la grandezza di questo scardinamento, che è anche il cardine di un avvio, saranno davvero e interamente comprese solo quando porteremo in noi quella profonda e ampia avvedutezza da cui l’antica saggezza greca attinse questo motto:

tà... megála pánta episphalé

Tutto ciò che è grande sta nella tempesta <ref> 19. «Tutto ciò che è grande sta nella tempesta». – Alle Große steht im Sturm (Tout ce qui est grand s’expose à la tempête). E’ sempre un esercizio molto apprezzato quello di “criticare” questa traduzione della frase di Platone. Heidegger rende infatti un aggettivo con una perifrasi verbale, fornendo così un esempio del suo tipico modo di interpretare. L’aggettivo neutro plurale è episphalê, che Liddell-Scott spiega con «prone to fall – sempre sul punto di cadere». Heidegger traduce: «steht im Sturm» – esattamente nel senso in cui la quercia, in La Fontaine, «brava la tempesta». Il significato attestato da tutti i dizionari greci per l’aggettivo episphalê è «instabile, malfermo, vacillante». Traducendo in quel modo, Heidegger spiega il perché di questa vacillante instabilità. Nell’Etica nicomachea Aristotele, usando questo stesso aggettivo nella forma comparativa, scrive (1155 a10) che più una prosperità è grande «plus elle est exposée au risque – più è esposta al rischio» (come traduce J. Tricot). La massima di Platone significa dunque chiaramente che è proprio della grandezza l’essere il bersaglio di tutti gli attacchi volti a farla cadere. Il contesto non è meno istruttivo. La frase che precede introduce infatti un tema «estremamente difficile» (è l’espressione di Socrate): in che modo lo Stato deve considerare la filosofia se non vuole smarrirsi irrimediabilmente? Il Discorso di rettorato si conclude dunque con una citazione in cui si riassume meravigliosamente l’intero suo progetto. Heidegger ha appena affermato: «Ma noi vogliamo che il nostro popolo compia la propria missione storica.» Questa missione coincide con una rivoluzione, che è innanzitutto una rivoluzione del sapere, una rivoluzione filosofica. Senza la filosofia, non si potrà costituire nessuno Stato genuinamente rivoluzionario. L’estrema difficoltà dei due compiti – rivoluzionare il sapere e rivoluzionare la vita in comune – è accresciuta dalla circostanza che essi si influenzano reciprocamente (sebbene in modo assolutamente asimmetrico). «Tutto ciò che è grande sta nella tempesta» deve dunque far percepire l’«intonazione fondamentale» (nel capoverso 41). Quest’ultima non è affatto «entusiastica», come pretenderebbero alcuni commentatori sistematicamente ostili ad Heidegger. Al contrario, e in accordo alla gravità della posta in gioco, essa corrisponde allo stato di ogni essere umano che, per lavorare alla costruzione di qualcosa di veramente grande, ha appena superato un punto di non ritorno. Qui, egli sa bene che ciò che è grande è minacciato da ogni parte: non soltanto dall’esterno, ma – in modo ancora più grave – , in lui come in tutti, dall’inesauribile potenza della caduta in rovina.

</ref>

[Platone, Politeía 497 d, 9]


Note

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