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== La critica al potere è di rigore solo se governa la destra ==
 
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Heidegger non fu l’unico. Tanto per fare un solo altro nome: Giovanni Gentile. Si veda il volume appena pubblicato da Armando di una studiosa americana, Myra E. Moss: ''Il filosofo fascista di Mussolini''. Ma perché ricercare solo chi aderì al totalitarismo nazionalsocialista? Perché non ricercare invece chi seppe dire «no»? Ralf Dahrendorf nel libro ''Erasmiani'' (Laterza) individua alcune personalità che denunciarono l’impostura totalitaria (sia nera sia rossa): Popper, Berlin, Aron. Sulla stessa linea di ricerca è il libro di Renzo Foa, ''In cattiva compagnia'' (Liberal edizioni) che ci parla di quegli intellettuali che a loro tempo furono attaccati, soprattutto da sinistra, perché avevano il torto di aver ragione in anticipo sul disastro comunista: Koestler, Buber-Neumann, Berberova, Roth. Ora, se ci facciamo caso, queste esperienze intellettuali ci danno la soluzione del rapporto tra pensiero e potere: il filosofo o l’intellettuale non può essere il consigliere del Principe, ma il suo critico. Il problema della «riconciliazione» è un falso problema: se vogliamo conservare la libertà non dobbiamo riconciliare pensiero e potere. Il pensiero non può non essere critica del potere. Ma in Italia la questione si configura così: c’è critica del potere solo quando governa la destra.
 
Heidegger non fu l’unico. Tanto per fare un solo altro nome: Giovanni Gentile. Si veda il volume appena pubblicato da Armando di una studiosa americana, Myra E. Moss: ''Il filosofo fascista di Mussolini''. Ma perché ricercare solo chi aderì al totalitarismo nazionalsocialista? Perché non ricercare invece chi seppe dire «no»? Ralf Dahrendorf nel libro ''Erasmiani'' (Laterza) individua alcune personalità che denunciarono l’impostura totalitaria (sia nera sia rossa): Popper, Berlin, Aron. Sulla stessa linea di ricerca è il libro di Renzo Foa, ''In cattiva compagnia'' (Liberal edizioni) che ci parla di quegli intellettuali che a loro tempo furono attaccati, soprattutto da sinistra, perché avevano il torto di aver ragione in anticipo sul disastro comunista: Koestler, Buber-Neumann, Berberova, Roth. Ora, se ci facciamo caso, queste esperienze intellettuali ci danno la soluzione del rapporto tra pensiero e potere: il filosofo o l’intellettuale non può essere il consigliere del Principe, ma il suo critico. Il problema della «riconciliazione» è un falso problema: se vogliamo conservare la libertà non dobbiamo riconciliare pensiero e potere. Il pensiero non può non essere critica del potere. Ma in Italia la questione si configura così: c’è critica del potere solo quando governa la destra.
 
  
  
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La critica al potere è di rigore solo se governa la destra

Intellettuali e società


Il giornale, 28 giugno 2007


Gianfranco Desideri


C’è un binomio eterno che, appunto, ciclicamente ritorna: le relazioni pericolose tra filosofia e potere. Martin Heidegger è considerato il maggior filosofo del XX secolo. Con un neo: inneggiò al Führer. In molti si sono cimentati con il «caso Heidegger»: Lukacs, Adorno, Lowith e recentemente Victor Farìas, Hugo Ott, Emmanuel Faye, ma anche Jaspers e Hannah Arendt. Ora la casa editrice Neri Pozza sta per riaprire il caso con il libro di José Pablo Feinmann L’ombra di Heidegger che esce il 5 luglio. È un romanzo ed è la prima volta che il problema-Heidegger è indagato per via letteraria. Forse è il modo migliore per porre con chiarezza la questione: come è possibile che il maggior filosofo del Novecento si sia alleato con il Male?

Heidegger, lo spirito, si alleò con Hitler, il diavolo, perché in politica era un analfabeta. Si può essere grande filosofo e pessimo politico. Lo capì anche Leo Strass che di Heidegger diceva: «È un grande guaio: il solo grande pensatore del nostro tempo è Heidegger». Perché un «grande guaio»? Perché come dicono Antonio Gnoli e Franco Volpi nella postfazione al romanzo di Feinmann oggi, dopo i guai del passato fatti dal combinato disposto di filosofia e politica, non sappiamo bene come riconciliare pensiero e potere. Ma è veramente così? Siamo sicuri di non sapere quale debba essere il giusto rapporto tra intellettuali e politica? È forse stato Heidegger l’unico ad aver preso l’abbaglio totalitario? E, soprattutto, siamo sicuri che non ci siano altri esempi di intellettuali che invece capirono in tempo e lottarono contro il Male (sia nazionalsocialista sia comunista)?

Heidegger non fu l’unico. Tanto per fare un solo altro nome: Giovanni Gentile. Si veda il volume appena pubblicato da Armando di una studiosa americana, Myra E. Moss: Il filosofo fascista di Mussolini. Ma perché ricercare solo chi aderì al totalitarismo nazionalsocialista? Perché non ricercare invece chi seppe dire «no»? Ralf Dahrendorf nel libro Erasmiani (Laterza) individua alcune personalità che denunciarono l’impostura totalitaria (sia nera sia rossa): Popper, Berlin, Aron. Sulla stessa linea di ricerca è il libro di Renzo Foa, In cattiva compagnia (Liberal edizioni) che ci parla di quegli intellettuali che a loro tempo furono attaccati, soprattutto da sinistra, perché avevano il torto di aver ragione in anticipo sul disastro comunista: Koestler, Buber-Neumann, Berberova, Roth. Ora, se ci facciamo caso, queste esperienze intellettuali ci danno la soluzione del rapporto tra pensiero e potere: il filosofo o l’intellettuale non può essere il consigliere del Principe, ma il suo critico. Il problema della «riconciliazione» è un falso problema: se vogliamo conservare la libertà non dobbiamo riconciliare pensiero e potere. Il pensiero non può non essere critica del potere. Ma in Italia la questione si configura così: c’è critica del potere solo quando governa la destra.



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