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Da Libro bianco.
Versione del 14 set 2015 alle 15:16 di Mborghi (Discussione | contributi) (Titolo)

Il crematorio di Heidegger

Antisemita e nichilista, il filosofo tedesco ha plasmato la cultura irrazionale del Novecento. E l'ombra della sua filosofia ancora si allunga sulla Germania di oggi


Il foglio, 27 febbraio 2015


Angiolo Bandinelli


Dal cimitero di ritagli di stampa dedicati alle diatribe sull'antisemitismo di Heidegger e da me via via diligentemente raccolti riesumo un articolo di Adriano Sofri apparso su Repubblica nel 2007. Non è il più vecchio (ne riemerge anche, su un Corriere della Sera del dicembre 1987, uno, assai ampio e ricco, di André Glucksmann) ma è decisamente il più bello. Adriano vi contrappone le figure di Heidegger e di Paul Celan, lette come due opposti modi di concepire (e vivere) lo "essere per la morte": tema a lungo teorizzato dal filosofo ma dolorosamente sperimentato su di sé dal poeta ebreo, finito suicida ("il suo cadavere è stato ripescato nella Senna di Parigi il 1° maggio del 1970"). La citazione di Heidegger che Adriano rileva, quasi a stigma della sua vita e della sua opera, è la frase sibillina detta dal filosofo a un suo visitatore che - siamo già nel Dopoguerra - si accomiatava: "E poi, sa, non è ancora detta l'ultima parola". Si riferiva, certamente, alla vicenda nazista, ivi compreso l'Olocausto.

Heidegger stesso aveva definito l'Olocausto come la "selbstvernichtung" - "l'autoannientamento" - degli ebrei. Intorno alla mostruosa affermazione prende l'abbrivio e si muove l'informato e persuasivo lavoro di Donatella Di Cesare ("Heidegger e gli ebrei. I 'Quaderni neri', Bollati Borin¬ghieri 2014, pp., 352, 17 euro) che analizza le note, le riflessioni, gli appunti - "una vera e propria opera filosofica dallo stile personale" - raccolti dal filosofo in ormai famosi quaderni, detti "neri" per il colore della copertina, tra il 1942 e il 1948 (l'intera serie copre un arco di anni che va dal 1930 al 1970) per soffermarsi in particolare su quello relativo al 19451'46. Queste pagine, che sembrava fossero andate perdute, si sono rivelate come tassello fondamentale per una messa a punto definitiva del pensiero antisemita del filosofo: la Shoah viene qui considerata, rileva la Di Cesare, "sotto l'aspetto filosofico". Per l'autore de "L'Essere e il Tempo", l'Olocausto è infatti l'ultima e suprema manifestazione della lontananza dell'ebraismo dall'Essere. L'ebreo, addirittura, "mina" l'Essere. Una citazione ci pare subito d'obbligo. Siamo a pag. 98: "Nei 'Quaderni neri', mentre resta l'ammonimento all'oblio dell'Essere, la differenza ontologica si esaspera, diventa una dicotomia estrema, una divaricazione fatale, un contrasto insanabile. La guerra mondiale [la Seconda, n.d.r.1 viene letta attraverso lo schema della differenza ontologica e si rivela, perciò, la guerra dell'Essere contro l'ente. Lo scontro planetario, che si disegna sull'abisso, ha un valore al contempo ontologico, teologico e politico. La storia dell'Essere diventa una narrazione dai toni apocalittici, il racconto di una battaglia finale, la versione metafisica della guerra di Gog e Magog". L'antisemitismo heideggeriano era stato finora analizzato nei suoi aspetti politici, da oggi in poí sarà la filosofia a dover essere chiamata "direttamente" in causa: e nel saggio della Di Cesare l'antisemitismo del filosofo ci viene presentato come l'emersione definitiva di una sindrome che attraversa tut¬to il corso del pensiero tedesco - il più al¬to - a partire da Lutero. Nessuno di quanti hanno recensito il libro ne ha parlato, mi pare. E' un silenzio imbarazzante, se non imbarazzato, come il nascondere la polvere con la scopa sotto il tappeto per non vederla, quando non la si può ignorare. Il percorso, seguito passo passo, pagina dietro pagina, dalla saggista, è impressionante. Potrà essere ancora sviluppato, lei ci avverte, perché sollecita una ulteriore domanda: quella del rapporto della filosofia in sé con l'antiebraismo.

Lutero, il Lutero della maturità che ha perso la speranza nel rinsavimento e nella conversione evangelica degli ebrei, affonda con spietatezz'a la sua lama accusatoria fin nelle viscere di quel popolo, che mentre si ostina nella sua separatezza antropologica e culturale continua a occupare il suolo della nascente nazione, inquinandolo. Per il riformatore di Wittenberg gli ebrei sono "i nemici interni", "pieni di arroganza, invidia, usura, avarizia e ogni malvagità", "caparbi, ostinati", "falsi, bastardi e stranieri", "vivono presso di noi" usando impunemente "terra e vie, mercati e strade". Con questo rosario di epiteti - i cui grani trasudano odio e violenza - Lutero apre "un baratro tra jehudim' e `gojim', tra ebrei e gentili, che non sarà più colmato nella tradizione tedesca". La tesi della menzogna come caratteristica dell'ebreo verrà ripresa da Kant, poi da Schopenhauer e da Nietzsche, il quale imputa al popolo ebraico la colpa di aver introdotto - attenzione, qui siamo in ambito schiettamente filosofico - "la menzogna dell"ordinamento etico del mondo'. Per Fichte e, quasi ovviamente, per Herder, l'ebraismo è la religione di una "nazione straniera": "asiatica" per Herder, "Stato nello Stato" per Fichte. E Fichte arriva ad auspicare il ritorno a un "cristianesimo originario" che il popolo tedesco dovrà "arianizzare". Anche Hegel andrà giù pesante con il popolo al quale - scrive - lo Spirito della Storia ha concesso il privilegio di essere posto "immediatamente avanti alla vezza è negata": con espressione che anticipa Heidegger, gli ebrei "rifiutano e sono rifiutati". Pur non esclusivo della Germania (e valga per tutti il nome di Voltaire) l'an-tiebraismo/antisemitismo sembra dunque trovare un humus fertile in un paese "che è alla disperata ricerca di una identità che non ha nel presente e che non trova nel pas¬sato, se non nell'oscuro mito del 'sangue germanico"'. Alla fine del percorso, con un impasto che già ci è noto da altre fonti e soggetti, "spirito ellenico e tecnica tedesca" saranno nel pensiero di Hitler - per Lévinas il nazismo è una vera e propria filosofia - i cardini dello sviluppo della cultura umana. Di questo impareggiabile patrimonio gli ebrei vorrebbero essere i "distruttori", ne sono anzi "l'archetipo". Come appare nei suoi scritti riportati dalla Di Cesare, Heidegger è il lucido formulatore di una idea della nazione germanica e del suo ruolo nel mondo persino più chiuso e autoreferenziale di quanto siano le proclamazioni hitleriane: in lui l'ebraismo assume il carattere di avversario metafisico della germanicità, intesa a sua volta, nella sua saldatura con lo spirito greco, come cardine della storia e della salvezza dell'uomo.

Circa alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso due storici tedeschi, ambedue ebrei, Gershom Scholem e George Mosse, analizzarono approfonditamente i rapporti tra mondo ebraico e cultura tedesca, giungendo peraltro a conclusioni diverse e divergenti. Per Scholem tra i due mondi ci fu solo una sorta di incomprensione, o meglio di reciproco inganno; per Mosse, invece, la divaricazione fu la imprevista conseguenza dell'affrancamento e della assimila- zione degli ebrei di Germania, iniziatosi ai primi dell'Ottocento in un ambito decisamente illuminista. La borghesia ebrea che si laicizzava abbracciò con entusiasmo l'alta cultura del paese, la "Bildung" ricca dei nomi di Goethe, Herder, Lessing, Schiller, eccetera, con i connessi ideali di tolleranza, pacifismo, rifiuto dell'irrazionale, armonia morale ed estetica, eccetera; ma se nella comunità ebraica avveniva questo capovolgimento, lungo il corso dell'Ottocento la maggioranza del popolo germanico venne spostandosi su posizioni di nazionalismo militarista, oltranzismo identitario, ecc. La separazione si aggravò dopo la sconfitta nella Prima guerra mondiale e nel periodo di Weimar. E' in questo momento devastante della Germania che si formò o si consolidò l'antiebraismo di Heidegger. Avrebbe potuto sfuggirgli, non farsene catturare? Troppi nomi della grande cultura tedesca del tempo ne rimasero invischiati, a partire da Carl Schmitt (sulla cui opera


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