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− | E' più ragionevole ritenere che Heidegger non pensò mai di potersi mettere dal punto di vista della verità assoluta: né quando scelse Hitler, né dopo, come avrebbe dovuto fare un filosofo disciplinatamente «democratico» e atlantico. Per lui il pensiero doveva rispondere a una chiamata non eterna come la metafisica, ma «storica», che, almeno dopo Essere e tempo, non gli parve più separabile da un impegno concretamente politico. Che egli credette di dover assumere appoggiando Hitler. Un errore che non pensò mai di poter condannare in nome della verità assoluta, ma che lo tenne lontano dalla politica per tutto il resto della sua carriera. E che forse gli ispirò l'amara considerazione: Wer gross denkt, muss gross irren: chi pensa in grande, deve per forza anche errare in grande. | + | E' più ragionevole ritenere che Heidegger non pensò mai di potersi mettere dal punto di vista della verità assoluta: né quando scelse Hitler, né dopo, come avrebbe dovuto fare un filosofo disciplinatamente «democratico» e atlantico. Per lui il pensiero doveva rispondere a una chiamata non eterna come la metafisica, ma «storica», che, almeno dopo Essere e tempo, non gli parve più separabile da un impegno concretamente politico. Che egli credette di dover assumere appoggiando Hitler. Un errore che non pensò mai di poter condannare in nome della verità assoluta, ma che lo tenne lontano dalla politica per tutto il resto della sua carriera. E che forse gli ispirò l'amara considerazione: Wer gross denkt, muss gross irren: chi pensa in grande, deve per forza anche errare in grande. |
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Indice
Faye, Heidegger non era razzista
giannivattimo blog, 11 giugno 2012
http://giannivattimo.blogspot.it/2012/06/faye-heidegger-non-era-razzista.html
Gianni Vattimo
L'intento non riuscito di dimostrare che tutta la sua filosofia non è che la trascrizione del nazismo Coloro che, come chi scrive, furono scossi e inquietati dal libro di Victor Farias su Heidegger e il nazismo (uscito nel 1987), troveranno in questo, ben più ampio testo di Emmanuel Faye, pubblicato in Francia ormai sette anni fa e ora messo a disposizione dei lettori italiani dall'accurata traduzione di Francesca Arra [a cura di Livia Profeti], molto più numerose ragioni di inquietarsi e interrogarsi. Anche perché Faye utilizza molto materiale documentario che non era ancora accessibile a Farias, specialmente i corsi di lezioni e le conferenze degli anni 1933-44 nel frattempo usciti nell'edizione delle opere complete, e lo integra con una quantità (spesso eccessiva e non esente da qualche rischio di confusione) di riferimenti testuali a opere di altri pensatori dell'epoca (Rothacker, Clauss, Schmitt). Ma soprattutto, la differenza del libro di Faye anche rispetto alle intenzioni di Farias è l'intento, esplicitamente enunciato fin dal titolo del libro, di mostrare che tutta la filosofia di Heidegger non è altro che una trascrizione del nazismo e della sua ideologia razzista e dis-umanista (se possiamo dire così).
E' rispetto a questo intento che, al di là di ogni curiosità storica e di ogni interesse per un periodo così drammatico della storia della cultura europea, si deve valutare la riuscita del lavoro di Faye. Se diciamo che questo risultato per noi non è stato raggiunto dovremo sentirci colpevoli di neonazismo? E con noi la tanta filosofia della seconda metà del secolo ventesimo che ha letto e commentato Heidegger e ne ha fatto un punto di riferimento imprescindibile, un vero e proprio classico del pensiero della nostra epoca?
Insomma, per Faye, soprattutto dopo il suo libro - ma supponiamo anche prima di esso, data la sostanziale vicinanza che egli vede nello Heidegger giovane alla mentalità e allo spirito dello hitlerismo - non si può professarsi heideggeriani senza essere almeno sospetti di nazismo. I concetti-chiave di Essere e tempo (l'opera fondamentale di Heidegger del 1927) sarebbero già infetti dall'ideologia del Führer, esposta in Mein Kampf (1925-26). Ma che dire dei corsi friburghesi di Heidegger degli anni precedenti, anzitutto quello di Introduzione alla fenomenologia della religione (1919-20) in cui sono delineati, in chiaro riferimento alla tradizione cristiana, i temi fondamentali dell'opera maggiore e anche dei successivi sviluppi della critica alla metafisica?
Tutto il discorso di Faye ruota intorno al tema del razzismo, non solo della distruzione del popolo ebraico ma anche della eliminazione nazista dei popoli considerati inferiori. Diciamo che la filosofia di Heidegger, in quanto ispirata al nazismo, è qui oggetto di una sorta di processo di Norimberga, in cui la si giudica in nome della stessa umanità riconoscendola, o cercando di mostrarla, come disumana e dunque impraticabile da chiunque voglia restare fedele alla propria natura. Se avvertiamo in questa impostazione un certo spirito affine a quello della «lotta al terrorismo internazionale» che è diventato il pensiero comune dell'Occidente dall'11 settembre in poi peccheremo di eccessivo politicismo?
Il punto è che l'hitlerismo di Heidegger - innegabile dopo il 1933 e mai fatto oggetto da lui di un vero e proprio ripudio, di un atto di pubblico pentimento - non dà luogo a una filosofia razzista, tanto che i molti interpreti che hanno letto e utilizzato Heidegger anche «da sinistra», non lo hanno mai rilevato. Quel che Faye mette senz'altro sul conto del razzismo è l'antiumanismo di Heidegger, che ha ben altro spessore teorico, giacché si identifica con la sua critica - discutibile ma non certo da rigettare come «inumana» - della civiltà occidentale che ha dato luogo, fino al momento attuale, a un mondo dove progresso tecnologico, sfruttamento , dominio di classe, progressivo esaurimento delle risorse del pianeta appaiono indistricabilmente connessi.
L'illusione di Heidegger nel 1933 è stata che la Germania (quella di Hölderlin, del Nietzsche «tragico», e da ultimo quella di Hitler) potesse rappresentare una alternativa valida (umanamente) sia all'industrialismo americano sia al totalitarismo sovietico. Si ricordi che negli stessi anni altri filosofi di tutto rispetto facevano scelte altrettanto radicali di segno opposto: Gentile fascista in Italia, Lukács e Bloch a favore della Russia di Stalin. Ma Heidegger in più era razzista, direbbe Faye. Le evidenze testuali che porta per dimostrare questa tesi sono per lo più indirette, come le analogie, su cui insiste tanto, fra l'analitica esistenziale di Essere e tempo e le idee di Hitler.
E quanto all'atteggiamento di Heidegger nel dopoguerra, quando ci si sarebbe aspettati da lui una pubblica «conversione» ai valori «umani» dell'Occidente vincitore - ai quali Faye si ispira senza alcuna incertezza critica - non crediamo che sia riconducibile, come lui pensa, alla volontà di nascondere le vergogne del suo nazismo passato, per il quale del resto subì un processo di epurazione che gli costò il divieto di insegnare.
E' più ragionevole ritenere che Heidegger non pensò mai di potersi mettere dal punto di vista della verità assoluta: né quando scelse Hitler, né dopo, come avrebbe dovuto fare un filosofo disciplinatamente «democratico» e atlantico. Per lui il pensiero doveva rispondere a una chiamata non eterna come la metafisica, ma «storica», che, almeno dopo Essere e tempo, non gli parve più separabile da un impegno concretamente politico. Che egli credette di dover assumere appoggiando Hitler. Un errore che non pensò mai di poter condannare in nome della verità assoluta, ma che lo tenne lontano dalla politica per tutto il resto della sua carriera. E che forse gli ispirò l'amara considerazione: Wer gross denkt, muss gross irren: chi pensa in grande, deve per forza anche errare in grande.
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