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Heidegger, l’espressionista del pensiero
Parla [Franco Volpi] curatore italiano del filosofo. Innovò il linguaggio speculativo non l'etica o la politica. Privilegiava il linguaggio dell'Essere non quello della volontà o dell'azione, anche se non mancano vibrazioni etiche nel suo discorso. Col nazismo si illuse di cavalcare la tigre ma era un equivoco, di cui non si rese conto subito. Omologava tutto in nome della tecnica.
Unità, 19 marzo 2002
Bruno Gravagnuolo
Effetto Heidegger. A ventisei anni dalla morte l’interesse attorno al filosofo di Messkirch non sembra affatto sopito. Appassiona gli accademici. Alimenta una vulgata di pensiero, trapela nell’avversione diffusa alla tecnica – ecologista o neoreligiosa – che forma ormai un alone di senso comune «alternativo». Facile rilevare come certe atmosfere rarefatte, del «primo» o dell’ultimo Heidegger, si siano trasformate in «chiacchiera». Subendo il contrappasso «inautentico» del «si dice». Proprio quello denunciato dal filosofo nelle celebri pagine di Essere e tempo, capolavoro incompiuto del 1927. Ma qual è la ragione intima della nemesi? Di questo rovesciamento in «refrain», oltre l’inevitabile banalizzazione patita da ogni grande pensatore? Eppure, per sua natura, la filosofia di Heidegger parrebbe refrattaria a diventare prontuario morale. Arroccata com’è a «dire l’Essere». A decostruire l’asseveratività di ogni certezza logica e metafisica, nonché d’ogni «dover essere». E invece...
Ben per questo, alla facoltà di Filosofia della Sapienza romana, si sono chiesti quali sono in «Heidegger i confini della filosofia pratica». E sotto questo titolo hanno organizzato una due giorni, a partire da stamani a Villa Mirafiori. Con studiosi come Leonardo Amoroso, Mauro Visentin, Marco Olivetti, Vincenzo Vitiello, Franco Volpi ed altri. In ballo ci sono il nesso eventuale filosofia-morale in Heidegger, il rapporto col nazismo ed altro ancora. E allora, come prologo, sentiamo Franco Volpi, storico della filosofia contemporanea. Che di Heidegger in Italia è curatore per Adelphi. E che qui anticipa una tesi che farà certo discutere: «Heidegger? Un ontologo, che all’Operare antepone l’Essere, dove il primo discende inevitabilmente dal secondo. Ma a ben guardare anche un espressionista, un avanguardista del pensiero. Come Lucio Fontana in arte...».
- Heidegger non fu un filosofo morale. Eppure vibrazioni etiche vi sono eccome nel primo Heidegger, quello di «Essere e tempo»: «decisione», «autenticità», «angoscia», «con-essere». Perché Heidegger non ha scritto un’etica?
È un punto chiave. Nella Lettera sull’umanismo del 1945 il filosofo ricorda il problema dell’agire. Al quale non penseremmo a sufficienza. Perché Heidegger comincia proprio di lì? Ebbene, il tema gli era stato suggerito dal filosofo Beaufret, esistenzialista e marxista, dalla cui lettera scaturisce la replica di Heidegger a Sartre. Ecco la risposta: il bisogno di etica si fa tanto più intenso quanto più grande è lo sconcerto dell’uomo contemporaneo in quel dopoguerra. Ma la sua idea a riguardo era simile a quella di Spinoza: il bisogno di etica si risolve nell’ontologia. In un discorso sull’Essere, l’unico in grado di dare risposte.
- Qual è l’etica implicita di questo discorso sull’Essere, tra «Essere e tempo» e l’ultimo Heidegger?
In Essere e tempo c’è la tensione tra «autentico» e «inautentico», tensione descrittiva e neutrale che tuttavia prefigura e suggerisce comportamenti autentici: decisione, essere per la morte, risolutezza. Un afflato etico che si nota, e che fa di «Essere e tempo» una sorta di etica in nuce.
- L’eticità sta nel porsi in ascolto dell’Essere, oppure nel condividere con gli altri l’«essere per la morte» e l’«angoscia», sul filo del destino storico e fino a certe scelte politiche?
A mio avviso l’imperativo esistenziale in Essere e tempo non è ancora l’ascolto dell’Essere, bensì quello di vivere consapevolmente il proprio progetto esistenziale. Traduzione secolare di Agostino e di San Paolo. E assunzione di una forma di vita che distingue l’uomo dall’animale, sullo sfondo della drammaticità esistenziale. In seguito Heidegger respinge la possibilità umanistica dell’autosalvazione, e adotta un atteggiamento neo-stoico: abbandono all’Essere e al suo destino storico. Ma senza confidare minimamente nel potere e nell’onnipotenza metafisica della volontà.
- Heidegger suggeriva di abbandonarsi all’innocenza «naturale» dell’Essere, o invece alla storicità e alle forme storiche entro cui l’Essere si rivelava?
A entrambe le cose. Heidegger declina lo storicismo in termini di «epocalità». E cioè, il rivelarsi e il nascondersi dell’Essere attraverso forme storiche. Dunque relatività e destinalità, da un lato. Dall’altro, gratuità del rivelarsi. Con forte attenzione specifica a quel che avviene nel moderno. La tecnica, per esempio, non è una manifestazione di cattiva volontà dell’uomo. Essa si mostra spontaneamente, senza macchinazioni. Ed è la dinamica chiave e determinante dell’epoca moderna, che rivela e nasconde l’Essere in quanto destino. Stravolgendolo anche. Ma non c’è condanna della tecnica in Heidegger. Senza dubbio Heidegger suggerisce la possibilità di un «salto oltre la tecnica».
- Sta in questo la sua etica, per cosi dire, allusiva e impronunciata?
Sono molto scettico a riguardo. Non credo sia possibile una Lichtung, una «radura» o illuminazione antropologica rivelata dall’Essere. Che ci trasporti oltre la tecnica. Il corrispondere davvero alla «chiamata» dell’Essere implicherebbe uno «star lì». In attesa di un altro Inizio. E sul crinale di cui parlava Hölderlin: «Dove c’è il pericolo cresce ciò che salva, solo un Dio ci può salvare...». Mi chiedo: c’è qualcuno che possa seguire Heidegger su questa strada? Attendere una «rivelazione che si nasconde» di tal tipo? No, piuttosto credo si tratti di sperimentazioni quasi espressionistiche del pensiero. Che suggeriscono una serie di prospettive estetiche e conoscitive, per approfondire la finitudine umana. Ma in concreto, costruirvi sopra un’etica, o una politica, è molto problematico se non impossibile.
- Tuttavia correnti ecologiste, marxiste di sinistra e neoreligiose hanno ravvisato in Heidegger (nel rivoluzionario-conservatore Heidegger!) una via d’uscita. Contro la tecnica e il Logos. Per «l’ascolto» e il «lasciar essere»...
Un effetto antropologico heideggeriano c’è stato. Come pure la sintonia con un certo sentire diffuso. Ciò spiega il successo di Heidegger, una fortuna di cui il filosofo già negli anni ‘50 era ben consapevole. Ad esempio, nelle sue conferenze sulla tecnica. Si tratta dell’attenzione al risvolto biologico della politica, alla «biopolitica». Attenzione guardinga verso la tecnica. Nondimeno, la sintonia con un certo quadro storico non fornisce indicazioni concrete sulla tecnica o sull’ecologia. Che vuol dire Gelassenheit, lasciar-essere?
- Forse, come direbbe Löwith, vuol dire apertura liberatoria alla circolarità di un divenire naturale, inteso alla greca...
Forse. E anche evocazione di un’alternativa rispetto a un destino globale, dal quale però l’evocazione non ci salva. Tenere ferma l’evocazione è certo interessante, per l’umanità occidentale. Ma è inerme. Il discorso dell’ultimo Heidegger sull’impianto globalistico della tecnica è suggestivo, e però inarticolato. Benché concettualmente coerente. È un po’ come se il filosofo sia stanco di maneggiare – perfettamente per altro – gli stilemi classici dell’argomentazione filosofica. E opti per una sperimentazione espressionistica del filosofare. Al modo di un Picasso. O di un Lucio Fontana della filosofia, che forza i limiti dell’espressione concettuale e linguistica del pensiero. Per approdare a un diverso modo di «dire l’Essere». Insomma, un pensatore d’avanguardia. Che come Fontana usa la tela filosofica per introdurvi lo spazio fisico, una differente percezione dell’ente. Come nella quadridimensionalità heideggeriana del Geviert, il quadrangolo di Esiodo: «Cielo, terra, mortali, divini». O nel gioco delle etimologie rammemoranti. Una provocazione enorme contro la desacralizzazione del mondo. Che Heidegger vorrebbe reincantare.
- E ora parliamo del grande abbaglio: il nazismo. Nel quale Heidegger scorse un’occasione di riscatto dalla tecnica, salvo ricredersi e capovolgere l’assunto...
Intanto molte cose del famigerato discorso rettorale del 1933 sono ricavate dal Lavoratore di Jünger: il servizio delle armi, del lavoro e del sapere. Heidegger era «eccedente» rispetto al nazismo. Si illudeva di poterlo plasmare, cavalcando la tigre e inserendolo nella sua ontologia. Equivoco di breve durata, anche se il filosofo, osteggiato e non preso sul serio, non si avvide subito del suo errore.
- Oltretutto non era un cuor di leone...
Manca, è vero, nello Heidegger posteriore, una precisa presa di posizione sull’Olocausto. E tuttavia nel 1949 – riprendendo affermazioni censurate dieci anni prima – stabilisce un parallelo tra agricoltura meccanizzata e camere a gas. Non aveva capito la pericolosità politica del nazismo. E riassumeva tutta la modernità – americanismo, bolscevismo e nazismo – sotto un unico denominatore: la tecnica. Sul piano dell’Essere, e del suo oscuramento, tutto era eguale per lui.
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