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Da Libro bianco.

La via heideggeriana al nazionalsocialismo

IL CASO Come e quando avvenne l’adesione del filosofo al regime e per quali vie si determinò il distacco: una questione che ha tormentato gli interpreti


Unità, 27 settembre 2007


Bruno Gravagnuolo


I documenti dei quali l’articolo che pubblichiamo in questa pagina ci offre una sintesi, sono un tassello di rilievo nell’ormai stradibattuta questione sulle compromissioni di Heidegger col nazismo. Fino ad oggi nell’istruttoria avevamo sentito critici, allievi, congiunti, testimoni e lo stesso Heidegger. Che a più riprese, nel 1945, nel 1982, nel 1983 e nel 1966 – nella sua autogiustificazione pubblicata tre volte e in una celebre intervista allo Spiegel – aveva tentato di dar conto del suo rapporto col nazionalsocialismo.

Adesso invece, benché le carte non siano del tutto inedite, abbiamo l’occasione di sentire qualcos’altro: l’opinione della polizia nazista. Corredata da un rapporto di uno dei più noti avversari di regime del filosofo. Il professor Krieck, figura minore e accademico a Medicina, ma che ebbe un certo ruolo nel determinare le dimissioni di Heidegger da Rettore a Friburgo, nel febbraio 1933. E che in seguito condusse una campagna contro di lui sulla sua rivista Il popolo in divenire, coadiuvato da Rosenberg e Baumler, tra le massime autorità culturali di regime.

Ebbene, cosa viene fuori da quei verbali? Una cosa semplice, e al contempo ambivalente. E cioè che il regime considerava il filosofo uno strano nazista. Tiepido, schivo, individualista, un po’ tra le nuvole, non eretico, bizzarro. In ogni caso non un militante fermo, né un intellettuale organico. Insomma reputazione politica buona, ruolo tutto sommato positivo culturalmente. Un cittadino nazista irreprensibile, e tuttavia in qualche modo un enigma. A quanto pare nemmeno l’intemerata di Krieck acclusa ai documenti – linguaggio oscuro, «razza incerta», rapporti coi cattolici – dovettero far cambiare idea ai funzionari di polizia. Sebbene cautele e qualche sospetto vi furono sempre su Heidegger. Laddove lo si lasciò sì insegnare e pubblicare. Ma non si consentirono recensioni sui periodici più diffusi alle sue opere. E si evitò di farlo inserire in delegazioni ufficiali tedesche ai congressi internazionali di filosofia, almeno a partire dal 1935. Tranne un invito per una partecipazione «separata» e individuale ad un convegno parigino su Cartesio, alla quale il filosofo oppose un rifiuto, nonostante la sua presenza a Parigi fosse stata sollecitata da Emile Bréhier, tramite il Ministero del Reich a Berlino.

Dunque Heidegger fu un nazista a modo suo. E anche questi documenti, indirettamente lo confermano. Ma che significa «a modo suo»? Presto detto. Significa che il filosofo consentì in pieno con quello che lui definiva un «movimento», già prima del 1933. Votò nazista nel 1932, su consiglio della moglie Elfride, ma fin dal 1929 nella sua lezione inaugurale pose a tema la questione dell’università come luogo chiave della ricongiunzione tra sapere, nazione e tradizione occidentale della filosofia. Insomma i presupposti del nazismo del 1932-33, stanno in una certa idea anche politica della filosofia: custodia e cura del «senso originario dell’Essere» da affidare anche alle istituzioni. Custodia pratica e teoretica del ruolo del popolo tedesco, il cui destino era quello di incarnare l’eredità metafisica dell’Occidente, delle sue domande «abissali». Governando così il potere della tecnica moderna, e misurandosi con la «potenza» nel regno storico dell’«essente». Tutti temi che tornano nello Heidegger di quegli anni. Poi la svolta: il nazismo come acme alienato della tecnica, che oscura l’Essere e la verità. Conciliazione impossibile tra verità e tecnica. Ed è lo Heidegger post-nazista. Reticente sui suoi abbagli e scivoloso. Figuriamoci poi per la polizia!



Voci utilizzate nell'articolo

Libertà di pubblicare

Il nazismo di Elfride

Nazismo privato


Metodi applicati

Il documento inedito

Aggettivo squalificativo


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