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Da Libro bianco.

L’Heidegger filo nazista giudicato dai «suoi» ebrei

Le testimonianze di Löwith, Anders, Strauss, Arendt e Jonas


La Stampa, 17 febbraio 1999


Franca D'Agostini


Iniziando il corso invernale del 1924 su Aristotele, Martin Heidegger sbrigò rapidamente la questione della vita del grande pensatore dicendo: «visse, lavorò e morì». Tutto fa pensare che tale sarebbe stata anche la sua ambizione: Heidegger avrebbe sicuramente voluto che anche di lui si dicesse «visse, lavorò e morì»: una vita interamente dedicata all'opera, un'opera che fosse l'unico metro a partire dal quale giudicare la vita. Ma questo non potè essergli concesso, per un solo decisivo evento della sua vita: con l'adesione o quasi-adesione al nazismo, egli si privò per sempre di quella intoccata immagine di filosofo puro a cui aspirava. «Non teoremi e idee siano le regole del vostro essere. Il Führer stesso e solo lui è la realtà effettuale tedesca dell' oggi e di domani e la sua legge». Così aveva scritto nel 1933, nell'atto di assumere il rettorato dell'Università di Freiburg. Sembra che l'infelice esortazione fosse in realtà un'aggiunta, pubblicata nel giornale locale, in un momento di particolare sventatezza; ma molti altri segni fanno pensare che per un certo periodo Heidegger vedesse davvero nel nazismo una contingenza storica positiva, se non il «nuovo inizio» che la sua filosofia cercava e cercò sempre.

Inoltre, a Hannah Arendt che nello stesso anno gli chiedeva ragione di certe voci sul suo presunto antisemitismo, Heidegger rispondeva protestando la propria innocenza, ma anche a questo proposito la cosa non è chiara: certi silenzi, certe viltà e improvvise freddezze non trovano spiegazione.

Sì può ammettere che uno dei grandi pensatori del nostro secolo, e forse dell'intera storia dell'Occidente, a detta di tutti un talento filosofico straordinario, mai visto dopo Hegel, avesse politicamente e umanamente l'intelligenza di un bambino di otto anni, pronto per fragilità e paura a sposare la causa più assurda? All'opposto: si può ammettere che nella grandezza della filosofia tedesca, giunta al proprio culmine in autori di sospetta inclinazione politica come Nietzsche e Heidegger, si nascondesse una malattia, o una anomalia, che la storia portò in luce nell'orrore dei campi di sterminio?

In effetti, quasi tutto è stato detto sull'argomento, e specificamente sull'enigma dei rapporti tra Heidegger e il nazionalsocialismo (nonché sull'antisemitismo più o meno palese della moglie Elfride), ma a ben guardare le alternative ragionevoli, al di là della condanna senza mezzi termini, restano molto semplicemente due: (a) si trattò di un errore, un passo falso, un cedimento dovuto all'immaturità dell'uomo («come è noto scriveva Arendt a un'amica - Heidegger mente ogni volta che può»); (b) fu l'esito di qualcosa che era più o meno necessariamente e inavvertitamente implicato nello stesso sistema di pensiero che Heidegger elaborò. In entrambi i casi risulta difficile o impossibile dimenticare, o perdonare. E forse non è neppure utile farlo, perché il problema si presenta con le caratteristiche di una questione trasversale, per così dire: uno di quegli eventi che si collocano di traverso tra storia e teoria, mostrando quali ombre la storia e la vita siano capaci di gettare sulle presunte conquiste dello spirito.

Fino ad oggi però nessuno aveva notato che i giudizi più penetranti sul fenomeno-Heidegger ci provengono dai suoi allievi ebrei, ed è una considerazione che forse non muta il quadro complessivo del discorso, ma dà da pensare. A questo pensiero ci orienta un libro che merita meditare a ogni pagina, non soltanto per quel che effettivamente dice, ma anche per quel che implica e sottintende: la raccolta, a cura di Franco Volpi, delle testimonianze Su Heidegger scritte da cinque dei suoi migliori allievi: Karl Löwith, Günther Anders, Leo Strauss, Hannah Arendt e Hans Jonas. In una introduzione documentatissima e avvincente, Volpi ci spiega che i rapporti di Heidegger con l'ebraismo (trattati filosoficamente da Marlène Zarader in un libro del 1990, Il debito impensato) sono ancora da soppesare, poiché di fatto egli fu circondato da collaboratori, amici, allievi ebrei. Ovviamente la questione non è storica e biografica ma filosofica, tuttavia proprio l'amicizia e la comprensione degli ebrei è un indizio significativo, che ci conferma l'idea di un legame cruciale e non rescindibile tra la filosofia del nostro secolo e la questione ebraica. Un legame anzitutto drammatico e negativo, come ci ricorda ripetutamente Adorno, perché la follia dello sterminio è stato l'ultimo estremo colpo inferto alla ragione da parte delle sue realizzazioni storiche, un colpo dopo il quale certamente non è più possibile fare filosofia nei canoni previsti.

Quanto alle testimonianze raccolte da Volpi (alcune delle quali già apparse sulla rivista Micromega) non si tratta di scritti di perdono o di pacificazione (benché in materia di pietà e sensibilità umana l'intelligenza svolga a volte migliori uffici del cuore), ma di testimonianze lucidissime, consapevoli nella critica ma altrettanto criticamente rigorose nel riconoscere la grandezza del pensatore. Fatta eccezione per Anders, che non si nega accenti di aperta polemica, gli altri sono sostenzialmente concordi nel riconoscere il proprio debito con il maestro. Fatta eccezione per Hannah Arendt, che qui come in altre sedi sembra propendere per l'ipotesi (a) - e descrive l'intero caso come esito di un errore di valutazione, il passo falso di un uomo di pensiero refrattario alle contingenze della pratica -, gli altri sono decisamente impegnati a dimostrare l'ipotesi (b), ossia far vedere come l'adesione al nazionalsocialismo fosse in qualche modo e senso implicata nel pensiero del grande f1losofo.

Le due tesi, curiosamente, trovano entrambe supporto nella filosofia heideggeriana. Heidegger in effetti non ha mai smesso di richiamarsi alla «finitezza» del vivente, e lo stesso esordio della f1losofia esistenziale, teorizzata da lui e da altri, si basa sull'idea del «pensatore vivente» che con la fragilità e la precarietà della sua esistenza rende ogni acquisizione incerta, ogni presunta verità contingente. Con la sua vita Heidegger mostrò inavvertitamente la validità di tale punto di vista: perché se ogni scelta teorica è mescolata all'impurità e alla fallibilità dell'esistere, e se l'esistere si presenta con l'orrore della guerra e dei campi di sterminio, allora di nessuno si potrà più dire «visse, lavorò, morì».


Voci utilizzate nell'articolo

Frase sul Führer

Antisemitismo

Il nazismo di Elfride


Metodi applicati

Onniscienza biografica

Alzata del Genio


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