Fascinazione

Da Libro bianco.

Categoria: Voci

"Heidegger esercitava una fascinazione nei confronti dei suoi allievi..."



E' uno dei ritornelli più diffusi, che viene ossessivamente ripetuto in mille varianti, e che si è rinvigorito nel corso del tempo attraverso una cospicua mole di racconti, aneddoti e ricami interpretativi. Il risultato è che il tratto della fascinazione appare a tal punto connaturato alla figura di Heidegger da diventare ormai, per alcuni critici, la chiave di volta del suo pensiero (si veda, ad esempio, il tormentone di "Heidegger sciamano", "pifferaio magico" e via discorrendo, cfr. 2070704IRE e passim).

L'origine della voce

L'origine della voce va probabilmente ricondotta a Karl Löwith e a quella che si può definire l'immagine löwithiana di Heidegger, quale risulta dai numerosi saggi, articoli e resoconti dedicati al pensiero e alla "personalità" di Heidegger - o, meglio, dedicati a prendere le distanze da Heidegger. Quella del "prendere le distanze dal maestro" sembra infatti una vera e propria ossessione che segna tutta la produzione filosofico-letteraria di Löwith dal dopoguerra in poi. Jean Beaufret, con la sua consueta ironia, ricorda ad esempio la "lunga relazione sulle differenze che li separavano" che Löwith tenne il 20 giugno del 1969 "davanti a lui [scil. Heidegger] e pochi altri, me compreso" - relazione al termine della quale Heidegger si permise solo una breve, ma memorabile, precisazione del senso del Dasein (si veda Dialogue avec Heidegger, vol. IV, p. 113).

L'immagine löwithiana di Heidegger è esposta nel testo seguente, tratto da La mia vita in Germania prima e dopo il 1933:

Tra di noi Heidegger era soprannominato «il piccolo mago di Messkirch». Era infatti di statura straordinariamente piccola, ed era nato nel villaggio di Messkirch, da famiglia molto povera, riuscendo a terminare i suoi studi tra enormi privazioni. La sua gioventù si era forgiata «tra le macine della teologia» nel convento dei gesuiti di Feldkirch. Non dimenticherò mai il gesto e lo sguardo con i quali un giorno mi mostrò la fotografia di un prete, esclamando: «Lui sì che ci ha fatto rigar dritto!». Anche negli anni successivi, era impossibile non accorgersi delle sue umili origini. Quando nel 1933 andai a fargli visita nel suo ufficio di rettore, stava seduto con aria scontrosa e impacciata, come sperduto, in quel grande salone aristocratico, e da tutti i suoi gesti si avvertiva un senso di disagio. Egli stesso contribuiva a far rimarcare questa sua differenza con il suo strano modo di vestire. Portava una sorta di giacca da contadino della Selva Nera con ampi risvolti e un colletto mezzo militare, e per giunta i calzoni alla zuava, il tutto di una stoffa marrone-scuro — un abbigliamento davvero "autentico" destinato ad opporsi all'"anonimità". Allora noi ci scherzavamo, senza capire che era una via di mezzo tra un vestimento civile e l'uniforme delle S.A.

Il marrone del vestito si adattava ai suoi capelli corvini e al colore olivastro del viso. Era un piccolo grande uomo misterioso, sapiente incantatore, capace di far sparire dinanzi agli astanti quel che aveva appena mostrato. La sua tecnica espositiva consisteva nel costruire un edificio concettuale che poi lui stesso demoliva per porre l'ascoltatore ansioso di fronte ad un enigma e lasciarlo sospeso nel vuoto. Quest'arte ammaliatrice aveva talvolta conseguenze estremamente gravi, perché soggiogava persone più o meno psicopatiche, tant'è che una giovane studentessa, dopo tre anni passati a risolvere enigmi, si suicidò. Il viso di Heidegger è difficile da descrivere, perché egli non riusciva mai a fissare qualcuno direttamente negli occhi e a lungo. L'espressione naturale del suo volto era questa: fronte aggrottata, guance cadenti, e occhi abbassati che solo di tanto in tanto si sollevavano per pochi secondi per accertarsi della situazione. Se uno lo costringeva a parlare guardando direttamente negli occhi, la sua espressione si faceva ermetica e insicura, perché era incapace di rapporti schietti con gli altri. La sua espressione naturale era sempre di diffidenza circospetta, da contadino furbo. Nelle sue lezioni parlava senza gesticolare e senza effetti retorici, concentrando lo sguardo sui fogli manoscritti che teneva davanti. Sulla cattedra egli si isolava completamente, mentre spiegava e voltava una pagina dopo l'altra con una sicurezza diventata quasi routine. Per la sua ultima lezione a Marburgo, gli studenti avevamo messo sulla cattedra un mazzo di rose bianche. Come sempre, egli entrò tenendo lo sguardo fisso a terra e salì in cattedra, con un’espressione di amara riluttanza, per tenere la sua ultima lezione nella grande aula ormai già molto vuota. Assolutamente fuori posto erano proprio le rose, che egli ignorò stizzosamente.

Löwith e Meleto

Il lettore più accorto avrà notato la straordinaria somiglianza tra l'identikit di Heidegger qui presentato e il famoso ritratto di Socrate fatto dai suoi ex discepoli e detrattori: di origini plebee, disdegnoso e altero, vestito in modo bizzarro (Aristofane, Nub. 362 sg.), abile inventore di enigmi, capace di far apparire vero il falso e falso il vero (Apol. 19b-c), pericoloso corruttore di giovani (24b e passim), lo sguardo torvo, fisso e indecifrabile (Symp. 220b), ingannatore e illusionista (221b), furbo e ammaliatore (Men. 79b). E nella celebre diagnosi löwithiana di Essere e tempo come «teologia mascherata» (Saggi su Heidegger), non possiamo non rilevare l'analogia con l'ultima e più grave accusa contro Socrate: quella di praticare, sotto false sembianze, misteriosi culti religiosi volti a introdurre nuovi dèi nella polis (Apol. 24c).

Il pensiero come opera del demonio

Tale somiglianza o analogia non deve soprendere: in entrambi i casi si tratta di reazioni provocate dal pensiero interrogante su menti poco inclini al pensiero. Se già l'interrogazione filosofica socratica, ovvero la domanda ti esti? ("che cos'è?"), scuote il senso comune fin dalle fondamenta, lasciando l'interlocutore esposto alla radicale non-saputezza dell'ente ("ciò che prima credevo di sapere mi è ora ignoto", Men. 79a-b), con la Seinsfrage, con l'interroganza d'essere, è il fondamento stesso ad essere scosso, sicché la non-saputezza tocca ora il senso stesso dell'indole 'essere' e il modo in cui tale indole è sorretta e sostenuta (sofferta) dall'essere umano - dall'umano adessere, Dasein. Così, a uno sguardo ciecamente guidato dall'Erlebnis, cioè dall'impatto vissuto, la genuina interroganza, nel suo ritrarsi dall'impatto e dalla contingenza, e nel suo affidarsi unicamente alla lingua madre, può apparire come una misteriosa macchinazione di "edifici concettuali" e "giochi di parole", un'ambigua e pericolosa "arte ammaliatrice", che seduce e incanta ma poi "lascia nel vuoto", cioè senza appigli nella contingenza e nei suoi format linguistici.

Esemplare, a questo proposito, è l'altra frase di Löwith che viene immancabilmente citata a proposito del Discorso di rettorato, ovvero che «chi lo ascolta alla fine non sa se prendere in mano la silloge dei presocratici curata da Diels o marciare con le S.A.» (si veda la quarta di copertina dell'edizione il melangolo del Discorso di rettorato). Infatti, è molto probabile che chi lo ascolti cercandovi ciò che non c'è - dettami, precetti e regole pronte all'uso su come operare nella contingenza - non possa non restare deluso e confuso. Tale delusione e confusione può ancora generare un genuino bisogno di chiarimento oppure, al contrario, può degenerare in fonte di ressentiment e quindi trasformarsi in arma da rivoltare contro il pensiero che l'ha provocata, secondo una consecutio analoga a quella esposta alla voce Oscurità, e cioè: Io sono deluso, dunque quel pensiero è illusionista; io sono confuso - dunque quel pensiero è "ambiguo", e così via. Infine, l'"ambiguo" interrogare apparirà ad esempio come una pratica stregonesca o "sciamanica" (cfr. 2020321IRE e passim), cioè in fondo diabolica, frutto di una personalità "tenebrosa e ipnotica" (2070704IRE), capace di spandere intorno a sé una "torbida magia" (1980501IRE02) se non addirittura un "fascino mefistofelico" (sic 2060112IWW).

In tutti questi scenari da horror movie, ciò che viene articolato è un solo e medesimo pregiudizio, ossia quello secondo cui l'interrogare, cioè il pensare, è qualcosa di fondamentalmente empio e peccaminoso, ovvero, per dirlo in termini preteschi: cogitare diabolicum est - pensare è opera del demonio!

Voce utilizzata nei seguenti Articoli:

1871105IGI01

1871201IXX

1940322IGI03

1970807IRE

1980311IST

1980314IST

1980501IRE02

1980611ISO

1990101IXX

2000411IMA

2000919IST

2010216ICS

2010522IRE

2011125IGN

2020315ICS

2020319IUN

2040419IRE

2060112IWW

2060613IUN

2070314IRI

2070316ILE

2070704IRE

2070820IUN

2071017IAV

2140127IPA

2140314ICS