2071017IAV
Indice
L'ombra di Heidegger
L'ultimo libro dell'argentino Feinmann
Avanti, 17 ottobre 2007
Elio Matassi
In modo particolare, nella cultura francese, ritorna spesso il motivo della compromissione di Martin Heidegger, il più grande filosofo del Novecento, con il Nazionalsocialismo. Non era comunque mai accaduto che tale compromissione avvenisse per il tramite della finzione letteraria, come nell’affermato scrittore argentino contemporaneo, José Pablo Feinmann in “L’ombra di Heidegger”, Vicenza, Neri Pozza Editore, 2007, pp. 181. Il romanzo viene costruito in due parti, “La lettera del padre”, “Il racconto del figlio”.
E’ un giorno di novembre del 1948 a Buenos Aires. Seduto al suo tavolo di lavoro, Dieter Müller, filosofo tedesco riparato in Argentina dopo la fine della guerra, sta scrivendo un’ultima lettera al figlio. Sulla scrivania, accanto ai fogli di carta, spicca una pistola Luger ed una foto in bianco e nero. Ritrae un uomo che si avvia nudo verso una doccia a gas di un campo di concentramento. Nessuno lo trascina e lo spintona. Cammina da solo verso la morte e, come una spoglia umana, un essere già fatto a pezzi come persona, guarda con gli occhi dilatati e vuoti l’aguzzino che lo ritrae. Ma da quella scrivania fissa ora anche lui, Dieter Müller, l’illustre allievo di Martin Heidegger, come a richiamarlo alle sue terribili colpe nel momento cruciale della sua vita. Dieter Müller è stato, infatti, un fervente nazionalsocialista, divenuto tale dopo aver ascoltato, nel 1933, il Discorso del Rettorato del suo maestro Martin Heidegger. Nella sua lettera al figlio, Müller, elenca con spietata precisione le tappe della follia che si impadronì del suo cuore e della sua mente, incendiando l’università tedesca negli anni Trenta: l’incontro con Heidegger a Friburgo, l’immediata sensazione di avere a che fare con un uomo che incarnava una nuova fascinazione e festa dell’intelligenza, capace di trascinare con sé la furia degli uragani ed il dolore della devastazione; i contatti con le SA di Röhm e la convinzione che i guerrieri tedeschi del 1918 erano stati traditi da politici e mercanti; le riunioni a casa di Hanna (sic), giovane e bella studentessa dagli occhi scuri, che scintillavano in modo travolgente nei quali Heidegger e i suoi allievi si arrampicavano sulle cime più alte della spiritualità tedesca e della sua missione irrinunciabile: difendere lo spirito dell’Occidente; il giorno 27 maggio del 1933, quando davanti a una folla acclamante di studenti combattenti delle SA, con le bandiere in alto ad esibire la croce uncinata, Heidegger affermò che “Tutto ciò che è grande… è nella tempesta”, utilizzando la stessa parola, “Sturm”, con cui Röhm e i suoi uomini chiamavano se stessi: “Sturm Abteilung”, ed, infine, l’appello del 3 novembre agli studenti tedeschi , in cui l’autore di “Essere e tempo” sostenne che “solo il Führer stesso” rappresentava “nel presente e nel futuro la realtà tedesca e la sua legge”. Come sostengono in maniera fondata Antonio Gnoli e Franco Volpi nella loro postfazione, “la libertà del racconto, anziché allontanarci dagli eventi e dai fatti, ce li fa rivivere de visu, e suscita quell’imbarazzo etico che la loro gravità richiede. E’ ben diverso sostenere la colpevolezza di Heidegger da storico, o metterla direttamente in bocca ad un suo stesso allievo, che per di più confessa di essere stato convinto al nazismo dalla filosofia del maestro” (pp. 178-179). Leo Strauss, filosofo della politica, ebreo emigrato in America, ha formulato l’imbarazzo che suscita il caso Heidegger – la totale dissociazione fra filosofia e politica – con una sottile constatazione: è un grande guaio il fatto che il solo grande pensatore del nostro tempo sia Heidegger. In gioventù, ancora sedotto dal fascino intellettuale di Max Weber, Strauss era andato a Friburgo per assistere a qualche lezione di Heidegger. All’amico Franz Rosenzweig riferiva sbalordito: “In confronto a Heidegger, Weber mi sembra un ‘orfanello’ quanto a precisione, capacità argomentativa e competenza”. Ed ancora: “Avevo ascoltato l’interpretazione che Heidegger dava di certi passi di Aristotele”, e qualche tempo dopo ascoltai Werner Jaeger a Berlino interpretare gli stessi testi. Carità vuole che limiti il mio paragone a dire che non c’è paragone”. Ma nel 1933 Heidegger aderì al nazismo. A Strauss caddero le bende dagli occhi, ed egli cominciò a concepire una severa e rigorosa critica del pensiero di Heidegger. Nelle sue lezioni all’Università di Chicago, come ricorda Gorge Steiner, che vi assistette, Strauss parlava spesso di Heidegger trattandolo come l’Innominabile, evitando letteralmente di pronunciarne il nome. Tuttavia non perse mai la lucidità del giudizio: “La cosa più stupida che potrei fare è chiudere gli occhi e rifiutare la sua opera”. La contraddizione insanabile sta proprio in questo: se riconosciamo, come Strauss, che Heidegger è stato uno dei massimi filosofi contemporanei, una mente in grado come poche di giudicare, il suo mettersi al servizio del totalitarismo nazionalsocialista appare di un’assurdità inconcepibile. Come può essere spiegato questo scarto profondo tra teoria e prassi, tra l’intellettuale ed il potere, tra l’eremitaggio del pensatore solitario e la comunità degli uomini? Il grande guaio, acutamente individuato da Leo Strauss, e che José Pablo Feinmann fa rivivere nel suo racconto, spinge però a formulare la domanda radicale: com’è possibile, oggi, riconciliare filosofia e politica, dopo che il solo grande pensatore del nostro tempo le ha dissociate?
Voci utilizzate nell'articolo
Studenti di Heidegger e il nazismo