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Da Libro bianco.

Hannah, vittima di un inganno d’amore

Incompresa. La ricostruzione del lungo legame affettivo tra Martin Heidegger e la Arendt, allieva ebrea del filosofo. Storia di una cinica seduzione.

Ingenua di fronte alla malafede del maestro. Che la usò per riabilitarsi.


Corriere della Sera, 9 giugno 1996


Claudio Magris


«Tu sarai chi sei. E così sarò io», scriveva Heinrich Blücher a Hannah Arendt poco prima di sposarla, per dirle che la loro vita in comune non avrebbe mai inceppato la libera maturazione della sua persona. Coraggioso combattente nelle file spartachiste e uomo generoso, Blücher, secondo marito di Hannah Arendt, fu per lei un compagno leale, ma non fu questo rapporto ispirato al rispetto e alla parità a segnare la vita di Hannah, forse perché, come scrive Dostoevskij, per noi contano solo le persone che amiamo, mentre quelle che ci amano è come se non ci fossero.

Blücher l'amava, ma lei aveva la disgrazia di amare Heidegger e probabilmente fu commossa non dallo schietto e libero amore testimoniato da quella lettera di Blücher del settembre 1936, bensì dalla prima lettera scrittale da Heidegger il 10 febbraio 1925 — una lettera untuosa e falsamente profonda nella quale il grande professore dell'università di Freiburg, uno dei maestri della filosofia del secolo, inizia a sedurre l’allieva diciannovenne elogiando la sua intelligenza e la sua anima, offrendosi quale paterna guida per aiutarla a restare fedele a se stessa, dicendo di comprendere le ineffabili inquietudini della sua giovinezza e chiedendole di comprendere la tremenda solitudine della sua vita asceticamente sacrificata allo studio e alla conoscenza.

Con quella lettera — che è un modello di come si possano simulare anche con se stessi sentimenti apparentemente sofferti e utilissimi per tiranneggiare gli altri mettendoli al servizio della propria pretesa ipersensibilità — inizia una storia d'amore, ora rigorosamente e finemente ricostruita da Elzbieta Ettinger (in Hannah Arendt e Martin Heidegger. Una storia d'amore, traduzione di Giovanna Bettini, Garzanti). Dopo una prima fase passionale poi trasformata in tenera amicizia, questa storia dura per tutta la vita di entrambi, con grandi vuoti e interruzioni connesse con tragici eventi storici quali l'avvento del nazismo, l'esilio per l'ebrea Hannah, la seconda guerra mondiale, la Germania divisa e impacciata a fare i conti col passato e con gli orrori dello sterminio.

Martin Heidegger e Hannah Arendt sono e restano due protagonisti del «terribile secolo XX», due personalità la cui grandezza e il cui significato non possono venire sminuiti da una relazione sentimentale in cui di grande c'è solo il coraggio di Hannah e soprattutto la fedeltà del suo affetto, non cancellato dal tempo né dagli immani lutti e delitti avvenuti in quel tempo. E su Heidegger — certo il più grande dei due, una figura centrale nella storia della civiltà — che queta vicenda getta una luce ora torva ora penosa, intrecciandosi alla vicenda epocale della sua compromissione col nazismo.

E’ stato Heidegger a fare di questo legame un episodio che trascende la sfera affettiva privata e coinvolge la sua oggettiva responsabilità politica morale — e quella della cultura che egli rappresenta — perché egli stesso ha mescolato il piano personale con quello pubblico, strumentalizzando cinicamente, nei suoi tardi anni, la sua storia d'amore con Hannah per occultare le tracce più sordide dei suoi trascorsi nazisti e farsi riabilitare o addirittura incensare quale presunta vittima anziché complice del Terzo Reich. La storia della geniale ebrea tedesca che s'innamora del geniale professore e ottuso antisemita tedesco è, fra le altre cose, un simbolo fin troppo facile del tragico incontro fra la cultura tedesca e quella ebraico tedesca che è stata l’anima tedesca prima di venirne assassinata.

L'inizio della vicenda non è troppo originale. Hannah è affascinata dal filosofo e da quella grande filosofia tedesca che egli incarna e che ha indagato e vissuto come forse nessun'altra la svolta epocale della storia contemporanea, la sua radicale trasformazione del mondo, l'esilio e la ricerca della vita vera, dell'autenticità esistenziale. Senza questa filosofia, come senza la cultura ebraica e la sua tragedia, non sarebbero nati più tardi i grandi libri di Hannah Arendt, da quelli sul totalitarismo a quello sulla banalità del male agli altri.

La studentessa s'innamora, con slancio e piena disponibilità, del professore, il quale gradisce ma non s'innamora, neanche quando vive un'esperienza erotica che lo scuote dalle sue metodiche abitudini — che egli peraltro protegge scrupolosamente, fissando l'ora e il minuto degli appuntamenti e proibendo alla ragazza di scrivergli. Lei accetta tutte le regole e cautele imposte dal maestro, ma non è una fragile margherita sedotta da Faust, bensì una persona libera e decisa, che sa quel che vuole. Amare significa amare l'altro, rispettarlo, volere il suo bene e volere, anche quando ciò può essere doloroso, che sia se stesso. Hannah Arendt sa amare, non pretende mai di manipolare Heidegger e cerca di non accorgersi che egli la manipola. Heidegger, ben felice di essere ferreamente governato da Elfride, l'inflessibile ed efficiente moglie teutonica e nazista, conosce solo l'amore di sé; ha bisogno di essere l'idolo della giovane donna e ha bisogno di lei come di uno «stimolante» — per citare le sue parole — che gli faccia sentire l'intensità della vita. Alterna con lei tenerezze, ordini, malinconie, lusinghe, prese di distanza, sentimentalismo, qualche poesiola kitsch che solo la cultura tedesca, in quei suoi aspetti peggiori che ne costituiscono un'involontaria autoparodia, può generare.

Quella cultura è grande per il suo orizzonte filosofico-poetico-religioso, che le consente di scendere al fondo della vita e della storia, di aprirsi a quel senso del divino e dell'assoluto da cui nasce un'altissima poesia, ad esempio la bruciante lirica di Hölderlin. Ma basta sgarrare anche solo di una sfumatura da quell'assolutezza per scadere in un pathos ridondante e pacchiano, nel cattivo gusto dell'enfasi e dell'unzione religiosizzante, che sta alla religione come il falso alla verità. Da quella cultura tedesca è nata non solo una grande spiritualità, ma anche la sua caricatura, la pretesa di frequentare regolarmente il divino come si prende il tè e di avere il monopolio del sacro, ciò che degrada quest'ultimo a paccottiglia — anche il pastore dell'Essere, quale Heidegger si proponeva, può declassarsi a suo amministratore delegato, così come l'assorta interiorità che echeggia nei Lieder viene distorta in retorica liricheggiante.

Sulla storia d'amore fra Hannah Arendt e Heidegger pesa, causa quest'ultimo, quel sentimentaleggiante infinito all'ingrosso che sembra sublime e serve — come avrebbe detto Broch, anch'egli più tardi amato dalla Hannah Arendt — a contraffare la realtà e l'autentico senso dell'infinito. Leggendo questa storia d'amore molto, troppo tedesca si avverte la mancanza di quell'asciutta laicità necessaria al vero sentimento, capace di guardare in faccia la vita nel suo intrico di seduzione e di bruttura, di verità e di inganno. Si sente la mancanza di quella struggente e disincantata lucidità con la quale i grandi scrittori francesi — da Madame Lafayette a Laclos, da Flaubert a Proust — hanno scrutato gli inferi della passione, il groviglio di perdizione amorosa e rapace crudeltà, senza indorate la pillola e senza fingere un'impossibile innocenza del cuore. Come ricorda Ernestina Pellegrini nel suo ottimo libro sulla rappresentazione della morte nella letteratura dell'Ottocento, Necropoli immaginarie, Flaubert fa i conti con quelle che egli stesso chiama «le latrine del cuore» ed è questa capacità di confrontarsi anche con la miseria di Eros che gli permette di coglierne non retoricamente anche tutto l'incanto, l'abbandono e il tremore.

La relazione sentimentale, interrotta per volontà di Heidegger nel 1928, si staglia sullo sfondo della Germania di quegli anni, con la sua prodigiosa fioritura intellettuale e la crescente crisi politica. La vita dei due amanti si intreccia quella di figure come Husserl o Jaspers, anch'egli affascinato da Heidegger nonostante i torti subiti da lui. Ho fatto a tempo a conoscere, decenni più tardi, quello straordinario ambiente accademico di Freiburg, ancora frequentato da alcuni di quei grandi personaggi, e a conoscere alcuni di essi che compaiono nelle pagine di questo libro: Hans Jonas, il giovane studente che fornisce ad Heidegger l'indirizzo di Hannah e che ho incontrato quand'era un maestro vegliardo; Benno von Wiese, flirt giovanile di Hannah (cosa che diede ad Heidegger, quando lo venne a sapere, il sollievo tipico dell'egoismo maschile in simili circostanze) divenuto più tardi un papa della germanistica. Lo ricordo a Torino, grosso e supponente, durante una sua conferenza cui avevamo dovuto portare anche i nostri parenti che non capivano il tedesco perché non si sdegnasse di un pubblico troppo scarso. Quel mondo culturale era grande ma endogamico e, come tutte le endogamie, setta religiosa, clan artistico, gruppo politico, salotto letterario, club esclusivo o consorteria accademica, era possessivo e paralizzante per chi ne faceva parte, induceva i suoi componenti ad essere succubi delle sue gerarchie e ad adorare come idoli le sue autorità. Per essere liberi, per non lasciarsi sedurre dai maestri desiderosi di plagiare anime e plasmare seguaci, è necessario essere intellettualmente poligami e politeisti; se Hannah avesse avuto anche altri interessi e frequentato anche altri mondi e altre amicizie, sarebbe stata più libera e più felice.

La relazione fra i due diventa demonica molti anni più tardi, quando essi riallacciano i rapporti dopo la guerra, l'esilio, Auschwitz. Hannah vive negli Stati Uniti, è divenuta una grande saggista, testimone e interprete degli inferi del secolo. Heidegger è stato sospeso dall'insegnamento — in cui verrà reintegrato anche grazie a lei — per la sua compromissione col nazismo. Non ha commesso delitti, ma numerose piccole e vergognose infamie verso maestri (come Husserl), colleghi e studenti ebrei e anche cattolici. Altri grandi del secolo compromessi col nazismo, quali Céline e Hamsun, hanno assunto atteggiamenti ben più gravi — e meno cauti — ma se ne sono addossati la responsabilità, mentre Heidegger ha voluto farsi passare quasi per vittima del nazismo, mancando penosamente di onestà e dignità. In questo senso la sua condotta durante il nazismo non è solo un comportamento privato, moralmente censurabile ma irrilevante sul piano culturale, ma è connessa con il ruolo globale esercitato da lui e dal suo pensiero, per tanti versi speculativamente così alto. Anche nel filosofo c'è talora un elemento di grettezza che si addice poco a un pastore dell'Essere o a un luogotenente del Nulla, per citare due sue definizioni, e si addice piuttosto al professore che, nel costume folcloristico contadino della Selva Nera che amava indossare, assomiglia, in certe fotografie, a uno dei sette nani. Hannah, rimastagli fedele nel profondo del cuore, lo aiuta a essere riabilitato, non vuole vedere i suoi gesti più malvagi e meschini, vuol credere alle menzogne di cui egli — con perfidia e sentimentalismo, scrive Elzbieta Ettinger — si avviluppa e la avviluppa. Per lei, Heidegger è ancora uomo amato, con un disinteresse che la induce ad aiutare anche la sua famiglia; per lui, Hannah è uno strumento eccellente — visto il suo prestigio internazionale e il suo passato di ebrea perseguitata — da usare per essere riabilitato e rientrare nei ranghi dell'onore e dell'autorità.

Hannah si ostina a credere alle sue falsificazioni. Solo due volte ammette con se stessa che egli «mente sempre» e che è «un potenziale assassino». La chiarezza dura poco e presto lei ricade nella soggezione, a lui o alla sua immagine conservata per tanti anni nel suo cuore, e si fa quasi complice — lei così intrepida amante della verità — delle sue contraffazioni, che non mistificano solo un'esistenza privata, ma una pagina della storia del mondo. Heidegger le è grato, anche con tenerezza, ma quando non ne ha più bisogno la tiene lontana e non permette che lo distragga dagli studi, secondo lo stereotipo dell'uomo di genio cui piace essere reso vitale da una donna, ma poi le dice di farsi da parte e di lasciarlo lavorare. In un suo memorabile libro sul processo ad Eichmann, Hannah Arendt scoprì la banalità del male, che, col suo alone infernale, è anche stupido e kitsch. Non ebbe il coraggio, lei umanamente e intellettualmente così ardita, di scoprire che pure un amore può essere insieme struggente e banale, che ci si può innamorare anche di una persona macchiata da bassezze. Dove si può trovare una risposta a queste contraddizioni? «"Nel cuore", dicono — risponde un personaggio nel Vento sottile di Stefano Jacomuzzi — ma lì è tutta una gran confusione e non c'è da fidarsi».



Voci utilizzate nell'articolo

Antisemitismo

Colleghi e studenti ebrei

Il nazismo di Elfride

Abbigliamento stravagante

Statura di Heidegger

Pastore dellEssere

Assassino potenziale


Metodi applicati

Critica testuale senza il testo

Alzata del Genio

Onniscienza biografica

Promozione sul campo



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