Antisemitismo
Categoria: Voci
"Heidegger era antisemita"
L'origine della Voce e la sua smentita da parte di Marcuse e Löwith
La prima pubblicazione di questa celebre Voce sembra risalire al libro di Guido Schneeberger Nachlese zu Heidegger (1962), dove è riportato un estratto dell'autobiografia della moglie di Ernst Cassirer scritta nel 1950 in cui, a proposito di Heidegger, si afferma: «La sua inclinazione per l'antisemitismo non ci era affatto sconosciuta». L'opinione di Toni Cassirer, formulata a vent'anni di distanza dagli eventi raccontati nell'autobiografia (l'incontro a Davos tra Cassirer e Heidegger del 1929), non è suffragata da alcun elemento di prova, né vi sono altri documenti, tra quelli raccolti da Schneeberger, che vi diano sostegno.
Va ricordato che nessuno, tra coloro che conobbero Heidegger da vicino, ha mai notato in lui la presenza di "antisemitismo". Molti, invece, hanno smentito espressamente la "voce". Riportiamo ciò che hanno pubblicamente affermato due suoi celebri studenti ebrei, Herbert Marcuse e Karl Löwith:
- Marcuse, in un'intervista del 1977 dichiara: «Quello che le posso assicurare è che Heidegger non era antisemita» (Cfr. Viva la muerte! Colloquio con Herbert Marcuse, L'Espresso, 24 aprile 1988).
- Löwith nell'autobiografia La mia vita in Germania (pubblicata nel 1986) scrive: «L'ortodossia piccolo-borghese del partito ha guardato con sospetto al nazionalsocialismo di Heidegger, perché in esso la questione razziale e la questione ebraica non hanno nessun ruolo. "Essere e tempo" è dedicato all'ebreo Husserl, il libro su Kant al semiebreo Scheler, e nel periodo di Friburgo sotto la guida di Heidegger abbiamo studiato Bergson e Simmel.»
Ricordiamo che Marcuse e Löwith, oltre ad aver frequentato da vicino Heidegger (il primo dal 1928 al 1932, il secondo fin dal 1920), furono tra i suoi critici più severi dopo la guerra.
Nessuna traccia nei Corsi del 1933 - 1944
Per una persona incline all'antisemitismo, la Germania del decennio nazista rappresentava il luogo ideale dove esprimere apertamente la propria "visione". Possiamo facilmente immaginare che, nelle università, non solo fosse permesso esprimere apertamente tesi antisemite, ma che tale atteggiamento fosse persino incoraggiato e promosso. Ora, è un dato di fatto che nei Corsi che Heidegger tenne tra il 1933 e il 1944 (tutti ora pubblicati e corrispondenti ai volumi 36 - 55 della Gesamtausgabe), così come nei seminari ristretti (volumi 83 - 88), non si trovi la minima traccia di espressioni antisemite.
Certo, si può sempre pensare che l'eloquio di Heidegger fosse in realtà infarcito di espressioni antisemite che però non compaiono nei manoscritti, o che i curatori avrebbero accuratamente espunto dal testo (si veda la voce Attendibilità della Gesamtausgabe). E tuttavia, nessuno tra gli uditori e gli studenti di Heidegger conferma questa circostanza. Allo stato dei fatti si deve perciò concludere che Heidegger non mostrò pubblicamente alcun segno di antisemitismo, quando pure aveva licenza di farlo e ogni interesse a farlo.
La diagnosi heideggeriana dell'"anti-..."
Il testo che segue è tratto dalla Nota sull'antisemitismo di François Fédier (in Martin Heidegger Scritti politici):
Per quanto mi risulta, Heidegger non si pronunciò mai espressamente sull’antisemitismo in quanto tale durante il regime nazista. Ma prima di sospettare questo “silenzio”, sarebbe forse opportuno soppesare attentamente quanto segue: durante lo stesso periodo, nel suo insegnamento pubblico, Heidegger parlò in più occasioni della tendenza generale che si osserva in tutte le forme di anti-qualcosa, ovvero nelle forme di opposizione in cui l'avversario o il nemico è considerato così pericoloso da immaginare che la sua semplice esistenza rappresenti una minaccia per la nostra.
Così, all’inizio del secondo semestre del 1940, nel corso dedicato a Nietzsche: il nichilismo europeo, Heidegger parla della forma di pensiero che Nietzsche assume nell'opporsi alla metafisica: «Il fatto che Nietzsche si definisca lui stesso come antimetafisico, significa soltanto che egli ha bisogno della metafisica, e ciò in una forma determinata: egli ne ha bisogno per essere contro di essa, ovvero per essere egli stesso il suo avversario dichiarato, colui che la rovescia. (Nel momento stesso in cui non c’è più né l’alcool né la possibilità stessa dell’alcool, proprio allora l’antialcoolista, ossia colui che trae la sua ragion d’essere da questo anti- e che vive per essere anti-, perde la sua sostanza. Per continuare a vivere, ha bisogno di trovare nuovi nemici.)» (GA 48, p. 85).
Non è qui nostra intenzione esaminare la pertinenza dell’argomento a proposito di Nietzsche. Ricordiamo soltanto che il filosofo della volontà per la potenza interpreta l’intera metafisica (o platonismo) come un unico e costante attentato perpetrato dalla “morale” contro la “potenza”, facendo così della metafisica la nemica mortale della vita. Il fatto di prendere l’esempio dell’antialcoolista per far comprendere il senso nel quale si può intendere l'anti-metafisica di Nietzsche, è senz'altro pedagogicamente efficace. Ma l’esempio ha altresì l’evidente virtù di essere immediatamente generalizzabile ad ogni forma di scontro ideologico condotto contro qualcosa che venga rappresentato come una minaccia mortale. Da quando il regime hitleriano mise le sue radici in Germania, la propaganda concentrò tutta la sua energia sul tema della necessità di uno scontro all’ultimo sangue contro ciò che si pretendeva avrebbe minacciato la "sopravvivenza della razza tedesca" - ossia contro il fin troppo famoso “giudeo-bolscevismo”. L’hitlerismo stesso si autodefiniva antisemitismo e antibolscevismo. Nei primi mesi del 1940, all’indomani della firma del patto tedesco-sovietico, il tema dell’antibolscevismo non era più all’ordine del giorno (sarà riattivato dopo l’attacco contro la Russia sovietica). Ciò significa che, nei mesi che precedono l’attacco contro la Francia, la propaganda “ideologica” si concentrava unicamente sull’antisemitismo. Non credo che sia esagerato leggere l’osservazione di Heidegger anche in riferimento a quel contesto storico. Possiamo dunque facilmente immaginare le riflessioni degli studenti che si sentivano dire: colui che organizza la sua intera esistenza a partire da uno scontro e per portate a termine questo scontro, dipende a tal punto dal fantasma che si è dovuto raffigurare come nemico che, con la scomparsa di quest'ultimo, dovrà, anche solo per continuare a vivere, inventarsi un nuovo nemico.
Due anni più tardi, all’inizio del semestre invernale 1942-1943 (fu nel giugno del 1941 che Hitler scatenò la “crociata antibolscevica”), nel corso dedicato a Parmenide, possiamo leggere questa frase: «Ogni opposizione che prenda la forma di un anti-, pensa nel medesimo senso di ciò contro cui essa è.»
Nel corso del semestre invernale 1951-1952, Heidegger ripete, ma con una diversa formulazione, la stessa diagnosi: «In ogni forma di odio si nasconde una dipendenza viscerale da ciò da cui l’odio vorrebbe rendersi indipendente – cosa, questa, alla quale l’odio non può mai pervenire e da cui anzi si allontana tanto più insiste nel suo odiare.» (Was heißt Denken?, Tübingen, Niemeyer, 1954, p. 43). Tra la formulazione dell’epoca in cui il nazismo dominava la Germania e minacciava l’Europa e quella del dopoguerra, c’è una differenza corrispondente allo scarto che separa una forma di odio esacerbata in fanatismo dall’odio come mero principio di esistenza snaturata. In ciò che Heidegger ha pubblicato si trova una gran quantità di osservazioni la cui portata etica può essere ignorata soltanto da chi pensi che moralità implichi una sistematica da lezioni di morale.
A cavallo degli anni 1942-1943, cioè quando tutta la propaganda di Goebbels si industriava a promuovere il fanatismo come valore “germanico” per eccellenza, Heidegger spiegava ai suoi studenti: «La risolutezza [forse è necessario abituarsi a leggere nel termine Entschlossenheit la liberazione che si apre alle possibilità assunte come possibili, ossia la libertà propriamente detta, la libertà liberante], così come è concepita nel pensiero dei Tempi moderni, è una risolutezza che vuole ciò che è voluto nel dispiegarsi della volontà propria del soggetto. Per volontà di questa volontà, essa è trasportata d’un sol colpo nel suo volere. Fanatice è l’avverbio latino che esprime il furore di questo trasporto. Ciò che dà alla risolutezza dei Tempi moderni il suo carattere proprio, è il tratto distintivo del “fanatico”. Rispetto alla risolutezza fanatica, la risolutezza di cui i Greci fecero esperienza (...) sgorga da un’origine diversa e si dispiega in modo affatto diverso. Essa trae la sua origine dall’essere, sperimentato in modo diverso – sperimentato a partire dall’aidós, dalla riverenza [reverentia – rispetto a un veritum (ciò a cui non si può mancare di riguardo) – o verecundia (da cui viene l’antica parola francese vergogne, “vergogna”, di cui però abbiamo perduto il vero significato)]; proprio quest’ultima invia e destina per gli esseri umani l’aretá [il coronamento che, per un uomo, consiste nell’eccellere in umanità].» (GA 54, p. 112).
L'osservazione è rivolta a studenti di filosofia. Essa invita dunque a ripensare ciò che è detto e ad intenderne il senso. Se ammettiamo che il nazismo parossistico – quello che esplode a partire dal giugno 1941 – possa essere definito come la forma di totalitarismo in cui il fanatismo allo stato puro si autoproclama la norma stessa della vita comunitaria, allora bisogna tenere in debito conto il fatto che Heidegger parli, velatamente, del fanatismo come della contraffazione dell'autentica libertà. Parlare velatamente significa esporsi alla possibilità di non essere inteso. Ma quando non c’è alternativa tra il parlare velatamente e il tacere (sotto un regime totalitario la minima contestazione palese comporta l’immediata eliminazione dell’oppositore – per tacere delle rappresaglie contro i prossimi), parlare come fa Heidegger durante i semestri di guerra significa, di fatto, assumersi, come dice Hannah Arendt, «molti più rischi di quanti non si usasse, all’epoca, nell’Università tedesca».
Le lettere alla moglie Elfriede
Nel volume che raccoglie una scelta di lettere scritte da Heidegger alla moglie Elfriede ("Mein liebes Seelchen!" Briefe Martin Heideggers an seiner Frau Elfriede. 1915-1979 hrg. Gertrud Heidegger, Deutsche Verlags-Anstalt, München 2005, 416 pp.) si trovano *due frasi* che potrebbero essere intese come espressioni antisemite.
1. In una lettera del 1916 (non riportata per intero nell'edizione), Heidegger, che allora aveva 27 anni, scrive: "la giudaizzazione della nostra cultura e delle nostre università è in effetti spaventosa e ritengo che la razza tedesca dovrebbe trovare sufficienti energie interiori per emergere. Quanto meno il capitale!"
2. In una lettera del 12 agosto 1920, parlando dell'impoverimento delle condizioni di vita nel suo paese natale (Messkirch), scrive: "il raccolto è andato bene - ma il prezzo [del grano] non sarà basso - quassù i contadini diventano sempre più sfrontati e gli ebrei e i profittatori sono ormai un'invasione".
La lettera a Schwoerer e l'espressione 'Verjudung'
Il temine Verjudung è utilizzato da Heidegger in un'altra lettera scritta nel 1929. Ascoltiamo ancora François Fédier (Nota sull'antisemitismo in Martin Heidegger Scritti politici):
Nel dicembre del 1989 è stata pubblicata, nel numero 52 del settimanale Die Zeit, una lettera in cui sembrerebbe trovarsi una patente espressione di antisemitismo ascrivibile ad Heidegger. E’ necessario, dunque, esaminare con attenzione questa lettera e fornirne una traduzione precisa. La lettera è indirizzata il 2 ottobre 1929 (ovvero prima del grande crac del “venerdì nero” alla borsa di New York – 24 ottobre 1929 –, in altre parole prima che si scatenasse la crisi che fece accelerare la catastrofe economica della Germania) al consigliere privato Victor Schwoerer, direttore, a Berlino, della Commissione per l’attribuzione delle borse di studio straordinarie per gli studi superiori.
Ulrich Sieg, che ha curato la presentazione di questo documento sul settimanale, sottolinea che il Geheimrat Schwoerer era «del tutto estraneo» ad ogni forma di antisemitismo.
Ecco il testo della lettera:
Friburgo, 2 ottobre 1929
Signor Consigliere,
Una richiesta di borsa di studio, depositata dal dottor Baumgarten, sta per essere inviata alla Commissione per le borse di studio straordinarie.
Vorrei ora aggiungere, al certificato che ho allegato a tale documento, una richiesta personale, affinché Lei voglia accordare a questa richiesta un’attenzione particolare.
Ciò a cui ho potuto soltanto fare allusione nel certificato può essere ora spiegato più chiaramente. Si tratta infatti di questo: non possiamo più differire una meditazione sul fatto che ci troviamo dinanzi a una scelta che concerne la vita spirituale della Germania - o ricominciare a far affluire verso di essa autentiche forze radicate ed educatori, oppure abbandonarla definitivamente alla crescente giudaizzazione, che sia intesa in un senso lato o in senso stretto. Il cammino che dovremo aver percorso per trovare noi stessi, potrà aprirsi soltanto se noi saremo in grado, senza astio né sterili scontri, di far sì che si dispieghino delle forze nuove.
Le sarei particolarmente riconoscente se, guardando al vasto obiettivo testé menzionato, il dottor Baumgarten (che ho scelto come mio assistente) potesse essere aiutato con una borsa di studio.
Al momento stiamo godendo, nella nostra nuova casa, dei più bei giorni dell’autunno e sono felice ogni giorno di sentirmi, nel mio lavoro, in intima comunione con la mia terra.
Le assicuro, signor Consigliere, tutta la mia stima e devozione,
Martin Heidegger
La frase che, in questa lettera, parla di «giudaizzazione» – in tedesco Verjudung – appare a noi oggi a tal punto infamante che rischia di chiuderci in una lettura prevenuta di ciò che Heidegger dice. Infatti, dopo il nazismo, il termine Verjudung è caratterizzato come una tipica espressione dell’antisemitismo estremo. Di fatto, esso oggi non compare più nel vocabolario utilizzabile da alcun Tedesco che si rispetti. Esso non figura neppure nell’eccellente dizionario del tedesco corrente, il Wahrig, e le enciclopedie più diffuse rinviano al suo impiego nel gergo antisemita.
Ma se proviamo ad aprire un’opera più antica, come ad esempio il grande dizionario tedesco-francese Sachs-Villatte del 1906, possiamo leggere, all’articolo dedicato al verbo verjuden: «verbo attivo – rendere ebreo, popolare di Ebrei, giudaizzare; verbo intransitivo-riflessivo – divenire ebreo, giudaizzarsi. Da cui Verjudung: giudaizzazione». E' un fatto che il termine Verjudung sia formato allo stesso modo di Verdeutschung, che significa «il rendere tedesco», la «germanizzazione» (così Martin Buber, al pari di Lutero, chiama la traduzione della Bibbia la sua Verdeutschung, la sua "resa in tedesco"). Il termine designa dunque il fatto di rendere ebreo, ovvero di giudaizzare. Il sociologo ed economista Werner Sombart, nel suo studio del 1912 Gli Ebrei e la vita economica, impiega il termine Verjudung in questa accezione: esso serve a caratterizzare il nuovo stile apportato allo sviluppo economico dall’intervento dei grandi banchieri e uomini d’affari ebrei. Ma lo stesso termine è simultaneamente impiegato in ambito antisemita, per qualificare quella che potremmo chiamare (per sottolineare la virulenza sempre attuale di questo veleno) l’«infestazione da parte di stranieri ostili». Durante la Repubblica di Weimar – un periodo nel quale l’antisemitismo si diffuse, senza tuttavia sommergere la Germania (la propaganda antisemita era infatti ancora efficacemente contrastata) –, il termine Verjudung assunse via via una connotazione nettamente antisemita. E' per questa ragione che colpisce molto il fatto di trovarlo sotto la penna di Heidegger.
Anziché concludere – non senza una certa maligna soddisfazione – che abbiamo finalmente in mano la prova del supposto antisemitismo di Heidegger, credo invece che la cosa ci obblighi a porci alcune domande. Innanzitutto, se è vero che il Consigliere Schwoerer era una persona libera da ogni propensione per l’antisemitismo, che senso avrebbe avuto il fatto di sottoporgli, in favore di una richiesta che gli era stata avanzata, un argomento di tipo antisemita? O forse Heidegger ignorava le disposizioni d’animo di Victor Schwoerer? Al contrario, tutto porta a credere che egli conoscesse bene questo alto funzionario. Victor Schwoerer, infatti, in quanto responsabile degli affari universitari presso il ministero dell’Educazione del Land del Baden, era incaricato delle pratiche dell’Università di Friburgo negli anni in cui Heidegger, tra il 1919 e il 1923, vi occupava il posto precario di libero docente. Fu dunque grazie a lui che Heidegger poté attraversare quel periodo delicato. Heidegger, d’altronde, conosceva i legami che univano Schwoerer a Husserl (tanto che varrebbe la pena, credo, indagare se Victor Schwoerer non abbia giocato un ruolo decisivo, nel 1933, nelle trattative grazie alle quali fu annullato il decreto che escludeva Husserl dalla funzione pubblica e lo privava del rango di professore emerito). Nel 1928 Victor Schwoerer aveva lasciato l’amministrazione badese per trasferirsi a Berlino, dove era diventato direttore della Notgemeinschaft der deutschen Wissenschaft – organismo di pubblico interesse incaricato del coordinamento del lavoro scientifico e della ripartizione delle sovvenzioni. Ma questo allontanamento non aveva indebolito i rapporti che l’alto funzionario intratteneva con la sua regione d’origine. La fine della lettera di Heidegger fa proprio allusione a questo legame. Si parla infatti della Heimat – dizione tradotta con «la mia terra» –, ovvero della regione in cui si è a casa propria, in cui si hanno le radici (cosa che non implica affatto - occorre precisarlo? - una chiusura xenofoba).
Tuttavia, parlando di una «crescente giudaizzazione», che per giunta minaccerebbe la vita spirituale della Germania, Heidegger si avvicina pericolosamente alle formulazioni tipiche dell'antisemitismo. Ma che lo faccia rivolgendosi a qualcuno che, lo ripeto, non può in alcun modo essere sospettato di propendere in quella direzione – è cosa che deve metterci in guardia da conclusioni troppo frettolose. Tanto più che la frase che segue contiene un’indicazione chiara e netta: «senza astio né sterili scontri». Traduciamo così l’espressione «ohne Hetze und unfruchtbare Auseinandersetzung» che, in tedesco, è molto più forte. Hetze è in origine un termine della caccia e designa il fatto di lanciare una muta contro una preda. Nel contesto che ci interessa, esso designa l’attività di aizzare e scatenare la folla contro un nemico designato, di dargli la caccia, di metterlo alle corde – in breve, lo scatenamento di violenza che noi, a buon diritto, associamo all’antisemitismo.
Heidegger parla dunque di una minaccia che grava sulla vita spirituale tedesca, e ritiene che questa minaccia sia costituita da una «giudaizzazione»; con una simile formulazione, egli sembra mettersi nella scia della peggiore fraseologia antisemita; ma la precisazione che segue immediatamente, in cui afferma che la risposta a questa minaccia non può essere la violenza e l’odio, ci obbliga a domandarci: di quale giudaizzazione parla qui Heidegger?
Se non è l’odio a dover rispondere alla giudaizzazione, ciò significa, innanzitutto, che non si tratta di opporle un’anti-giudaizzazione. Ma come comprendere il fatto che ci si debba, comunque, opporre? La risposta a questa domanda richiede da noi una compiuta comprensione del movente che anima l'intero Denkweg heideggeriano. Una frase della lettera parla proprio di tale movente: «Il cammino che dovremo aver percorso per trovare noi stessi, potrà aprirsi soltanto se noi saremo in grado, senza astio né sterili scontri, di far sì che si dispieghino delle forze nuove.»
Le «forze», qui menzionate, sono già state indicate da Heidegger qualche riga più sopra, quando parla di «autentiche forze radicate» e di «educatori». Il senso dell’«essere radicato» può essere inteso in modo sufficientemente chiaro seguendo Simone Weil, ad esempio quando dice che il radicamento è «forse il bisogno più importante e il più misconosciuto dell’animo umano». E aggiunge: «Un essere umano ha una radice in virtù della sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conserva, vivi, certi tesori del passato e certi presentimenti d’avvenire» (Simone Weil L’enracinement, Paris, Gallimard, 1949, p. 45; trad. it. La prima radice, a cura di F. Fortini, Milano, Ed. di Comunità, 1954, p. 51).
Heidegger si preoccupa di collegare i termini «forze radicate» e «educatori»; con ciò egli indica che l’intenzione di «trovare noi stessi» passa attraverso l’educazione. E’ proprio il senso nel quale parla anche il Discorso di rettorato. Quanto al movente in quanto tale – il movente del «trovare se stessi da se stessi» (e non di “ritrovarsi” già bell’e fatti) da parte dei Tedeschi–, ebbene, esso non implica di per sé alcuna volontà di erigere steccati intorno a un popolo isolato dalla comunità degli altri popoli. Si tratta piuttosto del compito universale di ogni umanità: quello di trovare, di volta in volta, la figura appropriata, o, meglio, l'idonea configurazione nella quale incarnarsi in quanto popolo determinato. Tale compito non è mai compiuto una volta per tutte. Per questo Heidegger parla del «ricominciare» a far affluire, verso la vita spirituale tedesca, le autentiche forze radicate e gli educatori. Egli non ha mai nascosto ciò che intendeva per vita spirituale tedesca. Il compito dello spirito tedesco, la sua singolare opera – come egli spiega continuamente riferendosi alla storia – consiste nell’approfondire il nostro sentimento del fenomeno, o dell’avventura, in cui è consistito il dispiegarsi del pensiero metafisico. Nietzsche, la cui filosofia è studiata da Heidegger proprio sotto questo profilo, comprende la nostra storia come la storia del platonismo, intesa a sua volta come storia di una decadenza. In Nietzsche, il cristianesimo fa tutt’uno con la decadenza, così come, in un altro senso, fa tutt’uno con l’ebraismo. Un modo di comprendere la «crescente giudaizzazione» di cui parla Heidegger potrebbe dunque essere quello di intendere questa espressione in senso nietzscheano.
Eppure ciò sarebbe del tutto fuorviante. Heidegger non pensa in termini di decadenza o di progresso. La «crescente giudaizzazione», di cui egli parla, non ha nulla da spartire con un fermento di decadenza. E, tuttavia, essa rappresenta una minaccia. Se riusciremo a comprendere il senso di questa minaccia, sapremo esattamente ciò che Heidegger intende con giudaizzazione.
Ma poniamo subito un punto fermo: alla luce del massacro senza precedenti perpetrato dallo Stato nazista, ogni formulazione che si presenti nei termini di un’accusa contro «gli Ebrei» suona necessariamente come antisemita nel senso peggiore del termine – e, che lo si voglia o no, è come tale colpevole.
E’ possibile rilevare nel termine «giudaizzazione», così come lo impiega Heidegger, un’accusa contro gli Ebrei? Quale minaccia farebbero gravare sulla vita spirituale tedesca? Heidegger, nella lettera a Schwoerer, non dice quale sia la minaccia, ma dice il modo con cui deve essere fronteggiata: senza astio né sterili scontri, con un'opera di educazione. In altre parole, non si tratta di rispondere alla minaccia di «giudaizzazione» con qualche sorta di «guerra contro gli Ebrei».
E’ utile conoscere qualche elemento che ha a che fare con questa lettera. Baumgarten, che Heidegger aveva in un primo tempo scelto come suo assistente, alla fine non lo diventò. Al suo posto, Heidegger nominò Werner Brock, uno studente ebreo. Nel 1990, ho udito Hugo Ott affermare pubblicamente che Heidegger, nel 1931, aveva scelto Werner Brock come assistente perché ignorava che fosse ebreo. Ammettiamo per un istante quest’ipotesi – ma solo per chiederci: quale sarebbe la reazione di un antisemita che scoprisse che una persona, alla quale aveva prestato fiducia, gli avesse nascosto di essere ebreo? E vediamo quale fu l’atteggiamento di Heidegger nei confronti di Werner Brock nel 1933: lungi dal disinteressarsi alla sua sorte, egli si adoperò attivamente per trovargli una sistemazione all’estero; fu così che Werner Brock trovò rifugio all’Università di Cambridge, dove restò fino alla fine del regime nazista. Heidegger, nel 1931, era ignaro del fatto che Werner Brock fosse ebreo? Sostenerlo, significa volere ad ogni costo un Heidegger antisemita; ma è qualcosa che non si accorda né con la realtà né con la verosimiglianza. La semplice realtà dei fatti ci obbliga, invece, a riconoscere che Heidegger, sebbene parli di una «crescente giudaizzazione», non manifesti nei confronti «degli Ebrei» alcuna ostilità di principio. E questa è una contraddizione solo se il termine Verjudung è inteso in un significato infamante.
Concludo questa nota traducendo un passo di un testo pubblicato da Georg Picht (1913-1982) nel volume collettaneo Erinnerungen an Martin Heidegger (Pfullingen, Neske, 1977). E’ un testo che mostra la medesima ambivalenza – ma questa volta nel senso contrario:
«Il modo in cui Heidegger si immaginava questa rivoluzione [scil. quella del socialismo nazionale] mi divenne più chiaro in una circostanza memorabile. Era stato stabilito che, nell’ambito di un’iniziativa di educazione politica, si sarebbe organizzata ogni mese una conferenza obbligatoria per tutti gli studenti. Non essendoci un’aula dell’Università sufficientemente grande, venne preso in affitto il Paulus-Saal. Per inaugurare la serie di conferenze, Heidegger, che era allora rettore, chiamò Victor von Weizsäcker, il quale era fra l’altro il cognato di mia madre. Tutti rimasero sconcertati, giacché nessuno ignorava che von Weizsäcker era tutto tranne che un nazista! Ma le decisioni di Heidegger avevano allora forza di legge. Lo studente che egli aveva indicato come leader della sezione di filosofia si sentì in obbligo di aprire solennemente la riunione con un discorso programmatico sulla rivoluzione nazionalsocialista. Passati solo pochi minuti, si udì Heidegger scalpitare e strillare, con un tono di voce che l’irritazione spingeva quasi al falsetto: "Basta con queste ciance!" Lo studente, annichilito, abbandonò il podio. Non tardò molto, del resto, a dimettersi dalle proprie funzioni. Quanto a Victor von Weizsäcker, egli pronunciò un’impeccabile conferenza sulla sua filosofia della medicina nella quale parlò diffusamente di Sigmund Freud, mentre nessuna parola fu dedicata al nazionalsocialismo.» (Georg Picht Die Macht des Denkens, ora ripubblicato in Antwort. Martin Heidegger im Gespräch, Pfullingen, Neske, 1988; trad. it. di C. Tatasciore Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, a cura di E. Mazzarella, Napoli, Guida, 1992, pp. 201-208).